Il vizio di omesso esame di un documento decisivo non è deducibile in cassazione se il giudice di merito ha accertato che quel documento non è stato prodotto 

Corte di Cassazione, civile, Ordinanza|4 giugno 2024| n. 15517.

Il vizio di omesso esame di un documento decisivo non è deducibile in cassazione se il giudice di merito ha accertato che quel documento non è stato prodotto 

Il vizio di omesso esame di un documento decisivo non è deducibile in cassazione se il giudice di merito ha accertato che quel documento non è stato prodotto in giudizio, non essendo configurabile un difetto di attività del giudice circa l’efficacia determinante, ai fini della decisione della causa, di un documento non portato alla cognizione del giudice stesso. Se la parte assume che il giudice abbia errato nel ritenere non prodotto in giudizio il documento decisivo, può far valere tale preteso errore soltanto in sede di revocazione, ai sensi dell’articolo 395, n. 4, del Cpc, sempre che ne ricorrano le condizioni.

Ordinanza|4 giugno 2024| n. 15517. Il vizio di omesso esame di un documento decisivo non è deducibile in cassazione se il giudice di merito ha accertato che quel documento non è stato prodotto 

Data udienza 3 aprile 2024

Integrale

Tag/parola chiave: Successioni – Apertura della successione del marito – Divisione – Prosieguo del giudizio di divisione

REPUBBLICA ITALIANA

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. FALASCHI Milena – Presidente

Dott. PICARO Vincenzo – Consigliere

Dott. FORTUNATO Giuseppe – Consigliere

Dott. CRISCUOLO Mauro – Rel. Consigliere

Dott. GUIDA Riccardo – Consigliere

ha pronunciato la seguente
ORDINANZA

sul ricorso 6675-2022 proposto da:

De.An., elettivamente domiciliata in ROMA, VIA (…), presso lo studio dell’avvocato Ma.Pu., rappresentata e difesa dall’avvocato Fi.Pu., giusta procura in calce al ricorso; ‘

– ricorrente –

contro

Ar.Gi., Ar.Ge., Ar.Ra., De.Pa., elettivamente domiciliati in ROMA, VIA (…), presso lo studio dell’avvocato St.Ve., rappresentati e difesi dall’avvocato Ug.Lo., giusta procura in calce al controricorso;

– controricorrenti –

nonché contro

Ar.An.;

– intimato –

avverso la sentenza n. 560/2020 della CORTE DI APPELLO di NAPOLI, depositata il 07/02/2020;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 03/04/2024 dal Consigliere Dott. MAURO CRISCUOLO;

Lette le memorie dei controricorrenti.

Il vizio di omesso esame di un documento decisivo non è deducibile in cassazione se il giudice di merito ha accertato che quel documento non è stato prodotto 

MOTIVI IN FATTO ED IN DIRITTO DELLA DECISIONE

1. De.An., quale vedova di Ar.An., conveniva in giudizio i figli del de cuius, Ar.Gi., Ar.Ge., Ar.Ra. ed Ar.An., nonché la moglie di Ar.Gi., De.Pa., affinché fosse dichiarata l’apertura della successione del marito, procedendosi alla divisione, previa collazione delle donazioni effettuate in vita dal de cuius, ed in particolare dell’immobile sito in S alla via (Omissis), acquistato dal figlio Ar.Gi. in comunione legale con la moglie.

Si costituivano i convenuti che non si opponevano alla divisione, contestando però le richieste di collazione dell’attrice.

Il Tribunale di Avellino con la sentenza non definitiva n. 1386/2014 dichiarava aperta la successione di Ar.An., dichiarava che Ar.Ge. era tenuto a porre in collazione la somma di Euro 49.200,00, rigettava le altre domande e disponeva per il prosieguo del giudizio di divisione.

Avverso detta sentenza proponeva appello principale De.An. cui resistevano De.Pa., Ar.Ge., Ar.Ra. e Ar.Gi., questi ultimi tre proponendo a loro volta appello incidentale.

La Corte d’Appello di Napoli con la sentenza n. 560 del 7 febbraio 2020, in parziale accoglimento dell’appello principale, ha dichiarato che Ar.Gi. deve portare in collazione la somma di Euro 258.500 oltre interessi; ha dichiarato cessata la materia del contendere sull’appello incidentale, condannando l’appellante principale al rimborso delle spese del grado in favore della De.Pa. e compensandole tra le altre parti.

L’appello principale verteva sulla richiesta dell’attrice di tenere conto ai fini della collazione anche dell’immobile acquistato dal figlio del de cuius, Ar.Gi., in comunione legale con la moglie, a seguito dell’assegnazione da parte di una società cooperativa, della quale era divenuto socio.

Il Tribunale aveva disatteso la domanda ritenendo che non fosse stata offerta la prova che le spese sostenute per l’acquisto del bene fossero state esclusivamente sostenute dal de cuius, avendo l’attrice prodotto solo una ricevuta di pagamento risalente al 1986.

Con l’appello si evidenziava che in realtà il marito aveva avuto la piena disponibilità dell’appartamento poi acquistato dal figlio, sin dal 1985, e che la cooperativa aveva assegnato il bene al marito con delibera dell’11 luglio 1992. Sottolineava che il de cuius aveva dismesso la qualità di socio solo in data 15/9/2001, per effetto di un recesso risalente al 26/8/1994 che era stato condizionato al subentro del figlio Ar.Gi. nella qualità di socio. Per l’effetto doveva ritenersi dimostrato che tutte le rate del mutuo fossero state versate dal defunto, come confermato dall’intestazione a questi dei piani di riparto delle spese di costruzione e del mutuo.

La circostanza che il de cuius avesse condizionato il proprio recesso al subentro del figlio era la riprova che vi era stata una donazione indiretta del bene, il che implicava che occorreva tenere conto del valore dell’immobile alla data di apertura della successione ai fini della collazione.

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La Corte d’Appello ha però dissentito da tale ricostruzione.

Effettivamente Ar.An. era socio della cooperativa edilizia che aveva realizzato l’appartamento ed aveva avuto la disponibilità dell’alloggio sin dal 1985.

Era poi intervenuta l’assegnazione con delibera del 1992, ma lo stesso assegnatario aveva receduto dalla società con missiva del 26/8/1994, con la quale chiedeva di poter cedere la quota al figlio Ar.Gi.

In pari data quest’ultimo chiedeva di essere ammesso come socio della Cooperativa S. Michele Srl

Nel libro dei soci l’annotazione del subentro del convenuto recava la data del 15/9/2001, sebbene Ar.An. fosse già deceduto il (Omissis).

Quindi, con atto del 21/12/2001 l’appartamento era definitivamente assegnato a Ar.Gi., giusta l’avvenuto pagamento delle somme mutuate.

Ancorché per la donazione indiretta non si palesi la necessità di una coincidenza cronologica tra l’acquisto e la dazione del denaro a tal fine impiegato, né una corrispondenza tra le somme in esame ed il valore dell’immobile indirettamente donato, nella fattispecie mancava qualsiasi prova (ad eccezione della somma di cui alla ricevuta del 1986) del pagamento di somme da parte del defunto.

Inoltre, nelle cooperative deve ritenersi possibile il recesso sia legale che convenzionale, fatta salva, per quest’ultimo, la possibilità di limitarne l’esercizio in base alle clausole statutarie.

Ma in assenza di siffatte limitazioni, il recesso resta atto unilaterale che è esercizio del diritto potestativo di fuoriuscire dalla compagine societaria.

Nella specie l’appellante non aveva prodotto copia dello statuto della cooperativa e doveva quindi ritenersi che il recesso avesse operato a far data dalla sua comunicazione.

In definitiva non vi era prova della donazione indiretta, apparendo le prove testimoniali articolate sul punto generiche e vertenti su fatti in parte pacifici.

Per l’effetto la domanda di collazione poteva trovare accoglimento limitatamente alla somma di Euro 258.500 per la quale vi era ricevuta in atti.

Né appariva possibile disporre una consulenza tecnica d’ufficio, posto che non era stata avanzata alcuna richiesta di esibizione nei confronti della società cooperativa.

Il vizio di omesso esame di un documento decisivo non è deducibile in cassazione se il giudice di merito ha accertato che quel documento non è stato prodotto 

Quanto all’appello incidentale, i giudici di appello, poiché gli appellanti incidentali nella memoria di replica avevano dichiarato atteso l’esito del giudizio in primo grado con la pronuncia della sentenza definitiva – di non avere alcun interesse alla pronuncia, ritenevano che, pur in mancanza di un’accettazione da parte dell’appellante principale, poteva in ogni caso dichiararsi cessata la materia del contendere.

2. Avverso tale sentenza ha proposto ricorso per cassazione De.An. sulla base di tre motivi.

Ar.Gi., Ar.Ge., Ar.Ra. e De.Pa. resistono con controricorso ed hanno altresì depositato memorie.

Ar.An. è rimasto intimato.

3. Il primo motivo di ricorso denuncia l’errore commesso dalla Corte d’Appello nell’avere escluso che fosse stata offerta la prova dei pagamenti e dei rimborsi correlati all’acquisto della proprietà del bene da parte del de cuius.

Si deduce che era stata provata la qualità di socio del defunto e della disponibilità dell’alloggio sin dal 1985, come confermato dalla delibera di assegnazione del 1992.

Deve, perciò ritenersi che sia stata fornita la dimostrazione della donazione indiretta.

Il secondo motivo denuncia l’errore commesso dalla sentenza impugnata nell’interpretare il contenuto dell’atto di recesso dalla società del de cuius.

Infatti, il subentro del figlio nella qualità di socio è avvenuto solo nel settembre 2011, allorché vi è stata l’annotazione nel libro dei soci, mentre erroneamente la Corte distrettuale ha fatto risalire tale subentro alla data della comunicazione del recesso del 26/8/1994, non avvedendosi che il recesso era condizionato al subentro del figlio nella sua quota.

Ne deriva che il subentro è avvenuto addirittura in epoca successiva al suo decesso, e che quindi l’assegnazione del bene al convenuto era intervenuta allorché già tutti gli oneri erano stati sostenuti dal de cuius.

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3.1 I due motivi, che possono essere congiuntamente esaminati per la loro connessione, sono infondati.

In disparte l’evidente profilo di inammissibilità che scaturisce dalla mancata indicazione sia del tipo di vizio nel quale si inseriscono le censure avanzate in ricorso, sia delle norme che sarebbero state violate dal giudice di merito, la doglianza non tiene conto dell’effettiva ratio della decisione gravata, la quale è pervenuta al rigetto della richiesta di collazione della donazione indiretta avente ad oggetto il bene immobile trasferito dalla cooperativa al controricorrente, ritenendo che in realtà, sebbene vi fosse la prova del subentro del figlio nella qualità di socio originariamente spettante al padre, mancava la dimostrazione che tutti gli oneri necessari per assicurare il trasferimento del bene fossero stati effettivamente sostenuti dal preteso donante, requisito questo necessario affinché possa configurarsi una donazione indiretta.

Questa Corte, con specifico riferimento all’ipotesi di donazione indiretta immobiliare realizzata tramite trasferimento di quota, come peraltro ricordato dalla sentenza impugnata, ha affermato che (Cass. n. 56/2014) la cessione gratuita della quota di partecipazione ad una cooperativa edilizia, finalizzata all’assegnazione dell’alloggio in favore del cessionario, integra donazione indiretta dell’immobile, soggetta, in morte del donante, alla collazione ex art. 746 cod. civ., tale quota esprimendo non una semplice aspettativa, ma un vero e proprio credito all’attribuzione dell’alloggio.

Dalla motivazione di tale precedente, peraltro riportata dal giudice di appello, è dato evincere che se il trasferimento della quota non comporta il trasferimento di una semplice aspettativa, è pur vero che il distacco temporale tra la cessione della quota e l’assegnazione dell’alloggio, con le variabili suscettibili di verificarsi in tale lasso di tempo, impone di verificare se effettivamente la cessione sia stata lo strumento per assicurare l’arricchimento del cessionario con il trasferimento a titolo liberale della proprietà dell’immobile, e ciò tramite il procedimento negoziale indiretto.

Nella specie, con accertamento in fatto, espressamente riservato al giudice di merito, come appunto ribadito dal precedente ora citato, è stata negata la ricorrenza della donazione indiretta, evidenziandosi che rispetto alla data della cessione, fatta risalire a ben vedere a quella della comunicazione del recesso (e ciò a prescindere dal dato formale dell’annotazione nel libro dei soci del subentro nella qualità di socio di Ar.Gi.) erano decorsi svariati anni e soprattutto che mancava la prova che il de cuius avesse continuato personalmente a fare fronte ai versamenti necessari per assicurare l’adozione del provvedimento finale di assegnazione del bene al socio subentrante.

La conclusione è in questa sede incensurabile, atteso il principio secondo cui l’onere di dimostrare l’esistenza della donazione indiretta incombe su colui che ne invochi gli effetti (cfr. ex multis Cass. n. 19601/2004), e cioè in relazione al caso in esame al coerede che intenda ottenere che il bene donato sia posto in collazione.

Né appaiono pertinenti le critiche mosse dalla ricorrente all’interpretazione dell’atto di recesso ed ai suoi effetti.

I giudici di appello hanno messo in evidenza la contestualità cronologica tra la comunicazione del recesso dalla società del de cuius (ancorché con il riferimento alla accettazione dalla qualità di nuovo socio in capo al figlio) e la richiesta di subentro, ritenendo, quanto meno in maniera implicita, che tale accettazione dell’evento, al quale il recesso era condizionato, si ricavasse dal fatto che, sebbene a distanza di qualche anno, fosse stata iscritta nel libro dei soci l’ammissione di Ar.Gi. quale socio subentrante.

I giudici di appello hanno correttamente richiamato il principio espresso da Cass. n. 10135/2006, secondo cui in tema di società cooperative, il recesso convenzionale, contemplato dagli artt. 2518 e 2526 cod. civ. (nel testo anteriore alle modifiche introdotte dall’art. 8 del D.Lgs. 17 gennaio 2006, n. 6), in quanto previsto dall’atto costitutivo, costituisce manifestazione della volontà negoziale, la quale può legittimamente disciplinarlo attraverso clausole che ne determinino il contenuto, ammettendo l’esercizio di tale facoltà in situazioni specifiche, ovvero limitandolo o subordinandolo alla sussistenza di determinati presupposti o condizioni, in particolare all’autorizzazione o all’approvazione del consiglio d’amministrazione o dell’assemblea dei soci (sicché tali clausole ove presenti, attribuiscono ai predetti organi un potere discrezionale, che non può tuttavia essere esercitato in modo arbitrario, né tradursi in un rifiuto di provvedere o in un diniego assoluto ed immotivato dell’approvazione, i quali, oltre a contrastare con i principi di correttezza e buona fede, che vanno rispettati anche nell’esecuzione del contratto sociale, comporterebbero una sostanziale vanificazione del diritto di recesso), con l’effetto che anche sia prevista la necessità dell’autorizzazione ciò non trasforma la fattispecie in un accordo, nell’ambito del quale la determinazione della società venga ad assumere la funzione di accettazione della proposta del socio, configurandosi pur sempre il recesso come un negozio unilaterale, corrispondente al diritto potestativo di uscire dalla società o di rinunciare a conservare lo stato derivante dal rapporto giuridico nel quale il socio è inserito, e rispetto al quale la deliberazione del consiglio di amministrazione o dell’assemblea opera come condizione di efficacia (cfr. Cass. n. 26190/2017, quanto alla possibilità per statuto di subordinare nelle società cooperative, il recesso convenzionale alla ricorrenza di determinati presupposti o condizioni tra cui l’autorizzazione o l’approvazione del consiglio di

amministrazione).

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Nella fattispecie non risulta documentato, per evidente carenza di prova, ascrivibile alla parte ricorrente che era quella, come detto, interessata, della natura liberale dell’atto di cessione di quota e della individuazione dell’oggetto della donazione indiretta, se il recesso esercitato fosse riconducibile ad una specifica statuizione statutaria, posto che solo in tal caso (Cass. n. 2979/2016) la facoltà di recesso trova la sua fonte nelle clausole statutarie e, dunque, è suscettibile di essere disciplinata e conformata attraverso clausole che specifichino le situazioni legittimanti il relativo esercizio, oppure la limitino o condizionino, prevedendo (come nella specie) la necessità, per la sua efficacia, di una positiva constatazione del consiglio d’amministrazione circa l’effettiva ricorrenza della situazione legittimante il recesso stesso. Va altresì richiamato il principio per cui (Cass. n. 742/1999) in tema di società cooperative, la rivendicazione della qualità di socio non richiede altro che la allegazione della delibera di ammissione adottata, all’uopo, dagli amministratori della società, atto necessario e sufficiente a determinare, in via di accettazione della proposta dell’aspirante, la nascita del rapporto sociale, senza che l’insorgenza della qualità di socio possa, altresì, ritenersi condizionata all’annotazione della delibera “de qua” nel libro soci (art. 2525, comma secondo cod. civ.) da parte degli stessi amministratori (conf. Cass. n. 4023/1992).

L’esistenza di una delibera di ammissione si ricava appunto dal fatto che la stessa sia stata iscritta nel libro dei soci, ma è erroneo l’assunto di parte ricorrente, in mancanza della prova circa la data di adozione della delibera di ammissione del nuovo socio, che la stessa risalga alla data dell’iscrizione, non potendosi quindi escludere, come infatti opinato dal giudice di appello, che tale subentro sia contestuale alle comunicazioni effettuate dal socio uscente e dal figlio intenzionato a subentrare.

Ma in ogni caso dirimente appare la considerazione secondo cui non vi è prova che gli esborsi per conseguire l’assegnazione definitiva del bene siano stati sostenuti dal de cuius, ben potendosi ipotizzare, al fine di confutare l’assunto della ricorrente, che, pur in mancanza di una delibera immediata di accettazione del subentro, padre e figlio nei rapporti interni abbiano previsto che fosse il figlio, in vista del subentro, a farsi carico degli oneri economici connessi alla qualità di socio.

4. Il terzo motivo, anche in tal caso con omissione dell’indicazione del vizio nel quale la censura andrebbe inquadrata e delle norme violate, lamenta che la Corte d’Appello abbia ritenuto che non fosse stata offerta la prova della donazione, senza considerare che già in primo grado era stata avanzata una richiesta di esibizione alla società della documentazione attestante i rapporti societari ed, in particolare, i versamenti effettuati.

La sentenza ha però disatteso la richiesta, reiterata in appello, sostenendo erroneamente che non fosse stata avanzata alcuna richiesta di esibizione nei confronti della Cooperativa S. Michele.

Ne consegue che se fosse stata valutata tale richiesta non si sarebbe pervenuti al rigetto della domanda per difetto di prova.

Inoltre, una volta ammesso tale mezzo istruttorio, sarebbe mutato il giudizio anche in merito alle prove testimoniali, di cui del pari si lamenta la mancata ammissione.

Il motivo è inammissibile.

Infatti, il giudice di merito ha affermato a pag. 7 che non era stato richiesto alcun ordine di esibizione nei confronti della Cooperativa S. Michele, e la ricorrente contesta la correttezza di tale affermazione, sostenendo che invece la richiesta era stata avanzata in primo grado e reiterata in appello.

Trattasi però di errore che ha carattere revocatorio e che non può essere denunciato con ricorso per cassazione.

Questa Corte ha più volte ribadito, che il vizio di omesso esame di un documento decisivo non è deducibile in cassazione se il giudice di merito ha accertato che quel documento non è stato prodotto in giudizio, non essendo configurabile un difetto di attività del giudice circa l’efficacia determinante, ai fini della decisione della causa, di un documento non portato alla cognizione del giudice stesso. Se la parte assume che il giudice abbia errato nel ritenere non prodotto in giudizio il documento decisivo, può far valere tale preteso errore soltanto in sede di revocazione, ai sensi dell’art. 395, n. 4, cod. proc. civ., sempre che ne ricorrano le condizioni (cfr. Cass., sez. 5, sentenza n. 12904 del 01/06/2007; Cass., sez. 5, sentenza n. 20240 del 09/10/2015; Cass., sez. 2, sentenza n. 15043 del 11/06/2018).

Nel caso di specie, la Corte d’Appello non sarebbe in ipotesi incorsa in una erronea ricostruzione dei fatti, ma in un errore percettivo: la Corte avrebbe erroneamente ritenuto che non fosse stata avanzata la richiesta di esibizione, che invece la ricorrente assume essere stata proposta, così che l’affermazione della Corte d’Appello poteva essere contestata con il mezzo della revocazione, il che rende inammissibile il motivo di ricorso in esame.

Quanto invece alla mancata ammissione della prova per testi, la stessa risulta infondata essendo la censura evidentemente legata alla questione della mancata ammissione dell’ordine di esibizione.

Il vizio di omesso esame di un documento decisivo non è deducibile in cassazione se il giudice di merito ha accertato che quel documento non è stato prodotto 

Il ricorso deve pertanto essere rigettato.

5. Le spese seguono la soccombenza e si liquidano come da dispositivo nei confronti dei controricorrenti, nulla dovendosi disporre al riguardo nei confronti della parte rimasta intimata.

6. Poiché il ricorso è rigettato, sussistono le condizioni per dare atto – ai sensi dell’art. 1, comma 17, della legge 24 dicembre 2012, n. 228 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato – Legge di stabilità 2013), che ha aggiunto il comma 1-quarter dell’art. 13 del testo unico di cui al d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115 – della sussistenza dei presupposti processuali dell’obbligo di versamento, da parte della ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per la stessa impugnazione.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al rimborso in favore dei controricorrenti delle spese del presente giudizio che liquida in complessivi Euro 5.700,00, di cui 200,00 per esborsi, oltre spese generali pari al 15% sui compensi ed accessori di legge, se dovuti;

Ai sensi dell’art. 13 comma 1-quater del d.P.R. n. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma 1-bis dello stesso art. 13, se dovuto.

Così deciso nella camera di consiglio del 3 aprile 2024.

Depositata in Cancelleria il 4 giugno 2024.

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