S.a.s. – Società in accomandita semplice
Per una migliore consultazione del presente saggio si consiglia di scaricare il documento in pdf
art. 2313 c.c. nozione
nella società in accomandita semplice i soci accomandatari rispondono solidalmente e illimitatamente (2740) per le obbligazioni sociali, e i soci accomandanti rispondono limitatamente alla quota conferita (salvo art. 2314 2 co).
Le quote di partecipazione dei soci non possono essere rappresentate da azioni.
La società in accomandita semplice è l’unica tra le società di persone, previste dal nostro ordinamento per lo svolgimento di una attività commerciale, ove coesistono due differenti categorie di soci, gli accomandatari e gli accomandanti, che si differenziano tra di loro per il diverso regime di responsabilità per le obbligazioni sociali, in ragione del differente ruolo svolto all’interno della compagine sociale.
Una distinzione delle diverse tipologie di società presenti nell’ordinamento giuridico italiano può basarsi sul diverso:
- grado di indipendenza tra il patrimonio della società e quello dei soci;
- regime di responsabilità patrimoniale verso i terzi.
Sulla base di tale distinzione, le società del nostro ordinamento giuridico possono pertanto esser caratterizzate da:
- autonomia patrimoniale perfetta, in base alla quale esiste una perfetta indipendenza del patrimonio della società da quello dei soci;
- autonomia patrimoniale imperfetta; si tratta di un’autonomia maggiormente limitata rispetto a quelle delle società di capitali, in cui non esiste una netta separazione tra il patrimonio della società e il patrimonio dei soci.
Le società dotate di autonomia patrimoniale sono dotate di personalità giuridica, mentre le società in cui il patrimonio della società e il patrimonio dei soci non sono perfettamente separati, la giurisprudenza afferma che, pur non essendo caratterizzate da personalità giuridica, siano comunque centri di imputazione autonomi rispetto ai soci e che godano di un autonomia patrimoniale, seppur imperfetta.
La scelta della forma societaria da adottare diventa, pertanto, strategica ed esiziale per la protezione del patrimonio personale dei soci, nel caso la società fosse coinvolta in una crisi economico-finanziaria che ne pregiudichi la capacità di far fronte ai propri impegni nei confronti dei creditori.
La s.a.s. appare storicamente come il primo esempio in cui il principio della responsabilità limitata s’innesti sulla società.
Nel corso degli anni tale forma giuridica è stata preferita sia in termini di gestione che in termini di natura fiscale alla S.r.l. ed alla S.n.c.
Il capitale è la maggior parte delle volte fornito dagli accomandanti, che rimangono estranei alla gestione e limitano la propria alea alle quote conferite (come nelle s.r.l., salvo il caso di ingerenza del socio accomandante[1]); il lavoro dagli accomandatari, che assumono la direzione dell’impresa, ed in essa rischiano, col loro nome, le loro, più modeste, fortune, vedi rischio fallimento art. 147 l.f.
Le società di persone, pur non avendo personalità giuridica, sono caratterizzate da un’autonomia patrimoniale imperfetta, in cui il patrimonio della società non è completamente distinto da quello dei soci.
Nelle società di persone i creditori della società possono rivalersi anche sui beni dei soci, nel caso in cui il patrimonio societario fosse insufficiente.
Le società di persone si dividono in:
- società in nome collettivo, in cui tutti i soci sono responsabili in ugual misura e con tutto il loro patrimonio delle obbligazioni della società;
- società in accomandita semplice in cui:
– i soci accomandatari rispondono delle obbligazioni in ugual misura e con tutto il loro patrimonio;
– i soci accomandanti rispondono limitatamente al capitale conferito in società;
- società cooperative a responsabilità illimitata, caratterizzate da scopi mutualistici, in cui i soci rispondono delle obbligazioni sociali in ugual misura e con tutto il loro patrimonio.
La società in accomandita semplice è un autonomo soggetto di diritto in quanto titolare di un patrimonio formato con i beni conferiti dai soci, la quale ben può essere, pertanto, centro di interessi e di imputazione di situazioni sostanziali e processuali distinte da quelle riferibili ai soci medesimi.
Al riguardo è, dunque, del tutto destituita di fondamento l’eccezione secondo cui, trattandosi di società di persone, priva di personalità giuridica, la legittimazione ad agire in giudizio compete unicamente ai singoli soci, in quanto unici titolari dei rapporti giuridici controversi [2].
Principio ripreso da una non lontana pronuncia della S.C.[3] secondo la quale le società di persone, (nella specie, società in accomandita Semplice) costituiscono, pur non avendo personalità giuridica, ma soltanto autonomia patrimoniale, un autonomo soggetto di diritto, che può essere centro di interessi e d’imputazione di situazioni sostanziali e processuali distinte da quelle riferibili ai singoli soci che, pertanto, non sono legittimati ad agire in proprio per gli interessi della società stessa (fattispecie relativa a socio accomandatario unico che agiva per la riscossione di compensi dovuti alla società).
Mentre la stessa Cassazione[4] con una pronuncia risalente, dalla quale poi è sorto il concetto di autonomia il patrimonio sociale, anche nelle società non aventi personalità giuridica ma solo un’autonomia patrimoniale (nella specie, società in accomandita semplice), costituisce una comunione[5] particolare qualificata dallo scopo ed unificata in funzione di esso, con conseguente indisponibilità, da parte del singolo socio, dei beni conferiti e di quelli successivamente acquisiti, che si considerano appartenenti alla collettività dei soci come tale. Solo a liquidazione avvenuta il socio può vantare un diritto, personale e diretto, sui beni che gli vengono attribuiti fino a quel momento la società si presenta, sia sotto l’aspetto soggettivo che oggettivo, come un complesso unitario, portatore di una propria volontà e di propri interessi giuridicamente protetti. Pertanto, solo questi interessi possono venire in considerazione, quando si tratti di accertare e delimitare la responsabilità del terzo per inadempimento di un contratto stipulato con la società.
Anche se tale principio in merito all’autonomia non è univoco.
Difatti secondo altra pronuncia di merito[6] nei giudizi instaurati nei confronti di una società di persone è sufficiente, ai fini della rituale instaurazione del contraddittorio, la presenza in giudizio di tutti i soci, non essendo configurabile un interesse della società (intesa come autonomo soggetto giuridico) che non si identifichi con la somma degli interessi dei soci medesimi.
In senso conforme, a tale pronuncia c’è una massima della S.C.[7], la quale ha affermato che nelle società di persone, l’unificazione della collettività dei soci (che si manifesta con l’attribuzione alla società di un nome, di una sede, di un’amministrazione e di una rappresentanza) e l’autonomia patrimoniale del complesso dei beni destinati alla realizzazione degli scopi sociali (che si riflette nell’insensibilità, più o meno assoluta, di fronte alle vicende dei soci e nell’ordine, più o meno rigoroso, imposto ai creditori sociali nella scelta dei beni da aggredire) costituiscono un congegno giuridico volto a consentire alla pluralità (dei soci) una unitarietà di forme di azione e non valgono anche a dissolvere tale pluralità nell’unicità esclusiva di un ens tertium.
Pertanto, mentre sul piano sostanziale va esclusa, nei rapporti interni, una volontà od un interesse della società distinto e potenzialmente antagonista a quello dei soci, sul piano processuale è sufficiente, ai fini di una rituale instaurazione del contraddittorio nei confronti della società, la presenza in giudizio di tutti i soci, facendo poi stato la pronuncia, nei confronti di questi emessa, anche nei riguardi della società stessa.
Mentre[8], nel caso di sentenza di appello pronunciata nei confronti di una società in accomandita semplice, è inammissibile il ricorso per cassazione che sia stato proposto da uno o più dei singoli soci della stessa, in proprio e senza alcun riferimento alla detta società, in quanto questa, anche se sprovvista di personalità giuridica, costituisce pur sempre un distinto centro di interessi, dotato di una propria autonomia e, quindi, di una propria capacità processuale, sicché l’impugnazione deve intendersi formulata da soggetto non legittimato in quel giudizio.
O ancora le società di persone, (nella specie, società in accomandita semplice) costituiscono, pur non avendo personalità giuridica, ma soltanto autonomia patrimoniale, un autonomo soggetto di diritto, che può essere centro di interessi e d’imputazione di situazioni sostanziali e processuali distinte da quelle riferibili ai singoli soci che, pertanto, non sono legittimati ad agire in proprio per gli interessi della società stessa (fattispecie relativa a socio accomandatario unico che agiva per la riscossione di compensi dovuti alla società)[9].
Nel caso in cui una società in accomandita semplice – la cui autonomia patrimoniale fa in modo che essa, benché priva di personalità giuridica a sé stante, costituisca un centro d’imputazione di rapporti giuridici del tutto distinti da quelli facenti capo ai partecipanti – sia proprietaria di fondi rustici ceduti in fitto ed alcuni dei suoi soci siano coltivatori diretti, non si verifica la trasmissione in favore della società della qualità di coltivatore diretto ed, al contempo, non si trasmette ai soci il diritto di proprietà della società sui terreni oggetto dell’affittanza.
Ne consegue che, relativamente a questi ultimi, non è esercitabile il diritto di ripresa di cui all’art. 42 della legge 3 maggio 1982 n. 203 né dalla società (in quanto tale diritto è previsto solo in favore del concedente, persona fisica, che sia coltivatore diretto), né dai soci coltivatori diretti (in quanto privi della qualità sia di proprietari dei beni affittati, sia di concedenti)[10].
art. 2315 c.c. norme applicabili
alla società in accomandita semplice si applicano le disposizioni relative alla società in nome collettivo, in quanto siano compatibili con le norme seguenti.
Alle società in accomandita semplice è applicabile, in virtù del rinvio, operato dall’art. 2315 c.c., alla disciplina concernente le società in nome collettivo, ivi comprese quelle semplici – rinvio subordinato dalla stessa norma codicistica alla compatibilità di detta disciplina con la particolare struttura delle società in accomandita semplice – la normativa di cui agli artt. 2286 e 2287 c.c., la quale prevede che, in caso di gravi inadempienze del socio, l’esclusione dello stesso è deliberata dalla maggioranza dei soci, non computandosi nel relativo numero il socio da escludere.
Tale disposizione, infatti, non presenta profili di incompatibilità, neanche nella ipotesi in cui il socio da escludere sia l’unico accomandatario, con la struttura particolare della società in accomandita semplice, caratterizzata dalla presenza di due categorie di soci, e cioè gli accomandatari, che, in quanto illimitatamente responsabili possono assumerne l’amministrazione, e gli accomandanti, che tale amministrazione non possono assumere essendo la loro responsabilità limitata alla quota conferita, essendo la descritta disciplina conciliabile con i poteri di controllo di cui il socio accomandante dispone[11].
Nelle società in accomandita semplice, in virtù del rinvio dell’art. 2315 c.c. alla disciplina delle società in nome collettivo, e, per il tramite dell’art. 2293 c.c., anche a quella delle società semplici, sono applicabili gli artt. 2286 e 2287 c.c., i quali prevedono che, in caso di gravi inadempienze del socio, l’esclusione[12] dello stesso è deliberata dalla maggioranza dei soci, non computandosi nel relativo numero il socio da escludere.
Tale disciplina, è applicabile anche all’esclusione del socio accomandatario, indipendentemente dai riflessi che può avere sull’amministrazione della società, in quanto le norme richiamate nulla hanno a che fare con la disciplina della revoca per giusta causa dalla carica di amministratore, non incidente sul perdurare del rapporto sociale, dettata dall’art. 2319 c.c.
Infatti, se è vero che amministratori di una società in accomandita possono essere solo i soci accomandatari, è altrettanto vero che non necessariamente l’accomandatario è anche amministratore (art. 2318 c.c.).
Ne consegue che revoca del socio e revoca degli amministratori sono provvedimenti non comparabili, per effetti e presupposti, ai fini del giudizio costituzionale di ragionevolezza delle differenti discipline.
Inoltre, una volta ammessa l’applicabilità dell’art. 2287 c.c. all’esclusione dell’accomandatario, ne deriva che, spirato il termine di trenta giorni stabilito a pena di decadenza per opporsi all’esclusione, gli eventuali vizi del provvedimento non possono essere più dedotti dal socio o rilevati dal giudice[13].
Nelle società di persone, non vi è alcun onere di redigere bilanci e di farli approvare dai soci, ma il socio non amministratore ha solo il diritto di rendiconto, da parte del socio amministratore, nonché di ispezione documentale, ai sensi degli artt. 2315, 2293 e 2261 c.c.[14]
B) Ragione Sociale
art. 2314 c.c. ragione sociale
la società agisce sotto una ragione sociale costituita dal nome di almeno uno dei soci accomandatari, con l’indicazione di società in accomandita semplice, salvo il disposto del secondo comma dell’art. 2292 (2564, 2567).
L’accomandante, il quale consente che il suo nome sia compreso nella ragione sociale, risponde di fronte ai terzi illimitatamente (2740) e solidalmente (1292) con i soci accomandatari per le obbligazioni sociali.
E’ da escludere l’adozione di una formula la quale comprenda il nome di una persona che non sia socio accomandatario o che addirittura sia estraneo alla società.
Nella società in accomandita semplice, la modifica della ragione sociale per effetto della sostituzione dell’unico socio accomandatario determina esclusivamente una modifica dell’atto costitutivo ma non la trasformazione della società in un soggetto giuridico diverso, così come accade in caso di mutamento della sede sociale rimanendo immutato il modello sociale e il regime della responsabilità patrimoniale dei soci e della società[15].
Per una non recente pronuncia della S.C.[16] pur essendo la società in accomandita semplice libera nella scelta del nominativo del socio accomandatario da inserire nella ragione sociale, questa tuttavia, ove risulti, a cagione del cognome dell’accomandatario, in essa inserito, uguale o simile a quella anteriormente usata da altra società recante lo stesso cognome, e possa quindi con quella confondersi per l’oggetto dell’impresa e per il luogo del relativo esercizio deve essere integrata o modificata con indicazioni idonee a differenziarla.
C) Atto costitutivo
art. 2316 c.c. atto costitutivo
l’atto costitutivo (1350, 2693) deve indicare i soci accomandatari e i soci accomandanti.
Trattasi di un contratto plurilaterale con comunione di scopo, a prestazione corrispettive, consensuale, a forma variabile, aperto, di durata, di fiducia, oneroso, commutativo.
La dottrina che prevale decisamente[17] afferma che l’atto costitutivo della società in nome collettivo non richiede alcuna forma particolare, né ad substantiam, è ad probationem, per le ragioni di cui appresso.
La forma scritta è necessaria esclusivamente per la pubblicità e, precisamente, per l’iscrizione nel registro delle imprese.
Naturalmente non potrà che aversi la forma scritta qualora questa sia prevista dalla natura dei beni conferiti (conferimento d’immobili).
art. 2295 c.c. atto costitutivo
l’atto costitutivo della società deve (1350, 2643) indicare:
1) il cognome e il nome, il luogo e la data di nascita, il domicilio, la cittadinanza dei soci;
2) la ragione sociale;
3) i soci che hanno l’amministrazione e la rappresentanza della società;
4) la sede della società e le eventuali sedi secondarie;
5) l’oggetto sociale;
6) i conferimenti di ciascun socio, il valore ad essi attribuito e il modo di valutazione;
7) le prestazioni a cui sono obbligati i soci di opera;
8) le norme secondo le quali gli utili devono essere ripartiti e la quota di ciascun socio negli utili e nelle perdite;
9) la durata della società. [l’indicazione di questi numeri (2), (4) e (9), secondo la dottrina dominante non è considerata necessaria per l’esistenza della società, in quanto essi sono individuabili dai terzi attraverso la concreta situazione di fatto: la ragione sociale s’intenderà formata da tutti i nomi dei soci, mentre la sede sarà il luogo dove l’attività sociale è svolta in modo continuativo. Inoltre la menzione della durata non è necessaria in quanto essa sarà considerata indeterminata.]
Disciplina delle Clausole statutarie
In relazione al regime della responsabilità dei soci accomandanti, una clausola di illimitata responsabilità nei rapporti interni, con la conseguente illimitata partecipazione alle perdite, si pone in palese contraddizione con il tipo della società, in quanto caratterizzato proprio dalla limitazione della responsabilità, e conseguentemente del rischio economico, dei soci accomandanti, alla quota conferita. La clausola, pertanto, è nulla, ove le parti abbiano adottato il tipo di società in accomandita semplice, inserendola nell’atto costitutivo o nello statuto in deroga di una caratteristica essenziale, imperativamente stabilita dall’articolo 2313 del c.c. per quale tipo di società.
In merito alla tipologie all’efficacia di alcune clausole statutarie è intervenuto il Tribunale Milanese[18] affermando, in una sentenza fiume, che nel caso in cui l’atto costitutivo della società in accomandita semplice, terza pignorata, prevede quanto alla cessione delle quote a terzi, il diritto di prelazione a favore degli altri soci e, in caso di rinuncia, la facoltà di cedere le stesse anche a terzi oltre che, quanto alle quote dei soci accomandanti, la cedibilità con il consenso dei soci che rappresentino la maggioranza del capitale sociale, sono da considerarsi legittimamente pignorate, con conseguente infondatezza della opposizione all’esecuzione proposta ai sensi dell’art. 615, comma secondo, c.p.c. sulla base della asserita violazione dei limiti di cui agli artt. 2305 e 2315 c.c., le quote del socio accomandante, avendo l’atto costitutivo consentito la cessione a terzi ed essendosi verificata la condizione ivi prevista.
Con riferimento alle società in accomandita semplice, la disposizione dell’art. 2322, comma secondo, c.c. prevede, quanto alla cessione volontaria inter vivos, il necessario consenso della maggioranza dei soci che rappresentino la maggioranza del capitale, salva diversa disposizione dell’atto costitutivo.
Si tratta, quindi, di una norma dispositiva che consente alla libertà negoziale di vietare, ammettere liberamente, ovvero subordinare tale trasferimento a diritti di prelazione a favore dei soci o di determinati terzi.
Tale ultima clausola non impedisce in effetti il trasferimento ma limita solo la possibilità di scelta dell’aspirante socio nell’ipotesi di ingresso di soggetti non graditi: la clausola di prelazione determina cioè una degradazione del ruolo della volontà degli altri soci e, pertanto, è diretta ad attenuare la rilevanza dell’elemento personalistico.
La vendita in sede coattiva della partecipazione sociale è disciplinata, invece, dal combinato disposto dagli artt. 2305 c.c. e 2315 c.c., in virtù dei quali il creditore particolare del socio, finché dura la società, non può chiedere la liquidazione della quota del socio debitore.
Tale principio è ispirato evidentemente all’esigenza non già di tutelare i creditori sociali bensì i soci – i cui rapporti sono caratterizzati da un elemento fiduciario, il cosiddetto intuitus personae – attesa la particolare rilevanza che l’individualità di ciascuno di essi assume nei loro reciproci rapporti: a tale conclusione si perviene proprio alla luce della derogabilità delle norme sulla cessione volontaria delle quote in virtù dell’atto costitutivo della società.
In via interpretativa, quindi, si è posta l’equiparazione tra generale inalienabilità e conseguente inespropriabilità, a tutela dell’intuitus personae e, simmetricamente, si è tratto il corollario della espropriabilità delle quote da parte del creditore particolare del socio quando vi sia libera alienabilità delle quote, ove stabilita pattiziamente [19]
In sostanza viene ritenuto dalla Suprema Corte che se i soci hanno preventivamente ritenuto di consentire la sostituzione di un partecipante alla società, analogamente in tal caso sarà consentita l’espropriazione forzata (eventualmente subordinata alla prelazione).
L’espropriabilità delle quote di società di persone liberamente trasferibili è, dunque, ammessa in base al rilievo che, in virtù dell’autonomia privata, viene a mancare la ragione che ne giustifica l’inespropriablità in deroga al principio generale di cui all’art. 2740 c.c.
Mentre, in merito alle deliberazioni riguardanti lo statuto, ad esempio, la deliberazione di cambiamento della sede sociale, risolvendosi in una modificazione del contratto di società, richiede nelle società di persone (nella specie, società in accomandita semplice) il consenso di tutti i soci (v. artt. 2252, 2293, 2315 c.c.), talché il trasferimento deliberato unilateralmente dall’amministratore, ove non risulti il consenso anche tacito dei soci assenti, deve ritenersi nullo e privo di effetti con la conseguenza che non può tenersene conto ai fini della competenza per territorio[20].
D) I soggetti
1) La partecipazione di una società di capitali
La possibilità che una società di capitali possa essere socia di una società di persone è stata per lungo tempo oggetto di dibattito; prima della riforma del 2003, giurisprudenza e dottrina sono state per molto tempo divise sulla soluzione.
La tesi favorevole si basava sull’asserzione semplice secondo la quale non sussisteva alcuna norma di legge contraria.
Per una sentenza di merito[21] è ammissibile la partecipazione di una società di capitali, (nel caso in esame s.p.a.) in veste di socio accomandante, in una società in accomandita semplice.
In precedenza anche la Corte Partenopea riteneva ammissibile la partecipazione di una società per azioni, quale socio accomandante, ad una società in accomandita semplice.
Come, in realtà già si era espressa la Corte Meneghina[22] ritenendo ammissibile la partecipazione di una società di capitali (nella fattispecie s.r.l.) in una società di persone (nella fattispecie s.a.s.).
Ancora, per altra pronuncia sempre di merito[23], in ossequio al principio di generale capacità delle persone giuridiche accettato dal nostro ordinamento, si configura come ammissibile la partecipazione in società di persone, in veste di soci, di fondazioni e associazioni non riconosciute.
In senso contrario, veniva sostenuto che la configurazione in commento avrebbe cumulato il vantaggio principale delle società di capitali, la responsabilità limitata, con i vantaggi dell’amministrazione diretta, propria delle società di persone.
Con la riforma del 2003 vi è stata l’ apertura totale alle società di capitali socie di società di persone.
Il legislatore ha preso una posizione nel merito.
Il comma 2 dell’art. 2361 c.c. stabilisce: l’assunzione di partecipazioni in altre imprese comportante una responsabilità illimitata per le obbligazioni delle medesime deve essere deliberata dall’assemblea; di tali partecipazioni gli amministratori danno specifica informazione nella nota integrativa al bilancio.
Il nuovo dettato normativo risolve quindi, in senso affermativo, i dubbi esistenti sul fatto che una società di capitali possa essere socia di una società di persone; a fronte di questa apertura, il legislatore pone dei vincoli sia di carattere autorizzativo, in quanto è richiesta una delibera assembleare da parte della società che intende assumere la veste di socio illimitatamente responsabile, sia di carattere informativo, in quanto è necessario fornire nella nota integrativa della società di capitali le informazioni relative alla partecipazione.
In realtà, però, a parere di chi scrive, tale possibilità potrebbe essere un’elusione alla responsabilità illimitata dei soci accomandanti in caso di ingerenza, stante comunque la responsabilità limitata delle società di capitali, si andrebbe così a modificare un caposaldo delle società semplici, ovvero l’autonomia patrimoniale imperfetta.
Al contrario, non si ritiene possibile l’assunzione di partecipazioni in società semplici per il fatto che le stesse possono esercitare esclusivamente attività non commerciali.
Antecedentemente a tali pronunce secondo la S.C.[24] la partecipazione di una società di capitali, in qualità di accomandante, ad una società in accomandita semplice, comportando la violazione di norme inderogabili (concernenti l’amministrazione ed i bilanci della società di capitali) è nulla per violazione di norme imperative, restando peraltro tale nullità limitata, ai sensi dell’art. 1420 c.c., alla partecipazione della società di capitali come accomandante, ove la stessa partecipazione non debba considerarsi essenziale; mentre la configurabilità – in virtù – della conversione, ai sensi dell’art. 1424 c.c., del contratto sociale nullo di un rapporto di lavoro subordinato fra società di capitali accomandante e persona fisica accomandataria è esclusa ove tale rapporto di lavoro risulti non solo non considerato ma addirittura escluso dalla comune volontà delle parti, con l’ulteriore conseguenza che alle prestazioni dell’accomandatario, costituenti oggetto dell’obbligo di conferimento, non è applicabile l’art. 2126 c.c. (relativo alla improduttività di effetti della nullità o dell’annullamento del contratto di lavoro per il periodo in cui questo ha avuto esecuzione).
In precedenza le stesse Sezioni Unite[25] avevano affermato che l’atto costitutivo della partecipazione di una società per azioni ad una società in accomandita semplice, in qualità di socio accomandante, è nullo, per violazione di norme imperative, atteso che l’investimento di porzione del patrimonio della società di capitali in quella partecipazione si pone in conflitto con inderogabili regole che presiedono, per la tutela dei soci e dei creditori, all’amministrazione ed alla formazione del bilancio di società di capitali, con particolare riguardo alle regole attinenti alla responsabilità degli amministratori ed al controllo sul loro operato, nonché alle esigenze di chiarezza e precisione del bilancio.
2) Partecipazione del minore non emancipato, dell’interdetto, dell’inabilitato e beneficiario dell’amministrazione di sostegno
Il minore non emancipato, l’interdetto, l’inabilitato e beneficiario dell’amministrazione di sostegno, i quali non possono iniziare un’impresa commerciale, né in forma individuale, né in forma collettiva, possono essere autorizzati a continuare un’impresa già avviata come a divenire soci illimitatamente responsabili solo di una società già funzionante (e non anche di una società che viene costituita ex novo).
Vi è un problema riguardo alla partecipazione degli incapaci, in quanto l’art. 2294 c.c. – però, si ritiene non applicabile al socio accomandante perché quest’ultimo è limitatamente responsabile, mentre la norma da ultimo citata – ltrova la sua giustificazione nella responsabilità illimitata.
Si aggiunga che il primo comma dell’art. 208 delle disposizione di attuazione al c.c. stabilisce che le autorizzazioni relative agli incapaci riguardano esclusivamente i soci di una società in nome collettivo ovvero i soci accomandatari di una società in accomandita.
Pertanto, la partecipazione di un incapace, nella qualità di accomandatario, ad una società in accomandita semplice, è subordinata all’osservanza dei seguenti articoli del codice civile:
1) 320 5 co – per i minori sottoposti alla potestà dei genitori;
2) 371 1 co, n. 3 e ultimo co – per i minori soggetti a tutela;
3) 397 – per gli emancipati;
4) 424 1 co – per gli interdetti;
5) 425 – per gli inabilitati.
La posizione giuridica del socio accomandante, infine, è assimilabile a quella del socio delle società di capitali e, pertanto, non esistendo il rischio della responsabilità illimitata, il legislatore ha posto minori limitazioni alla partecipazione di incapaci a queste società.
art. 2294 c.c. incapace
la partecipazione di un incapace (414 e seguente) alla società in nome collettivo è subordinata in ogni caso all’osservanza delle disposizioni degli artt. 320, 371, 397, 424 e 425 (att. 208).
E) Pubblicità
art. 2317 c.c. mancata registrazione
fino a quando la società non è iscritta nel registro delle imprese (att. 99 e seguenti), ai rapporti fra la società e i terzi si applicano le disposizioni dell’art. 2297.
Tuttavia per le obbligazioni sociali i soci accomandanti rispondono limitatamente alla loro quota, salvo che abbiano partecipato alle operazioni sociali.
Ante riforma per la Cassazione[26] la disposizione dell’art. 2317 c.c. il quale, nelle società in accomandita irregolari, fissa il principio della responsabilità illimitata per le obbligazioni sociali del socio accomandante ove egli abbia partecipato alle operazioni sociali, ancorché vada interpretata in correlazione con l’art. 2320 c.c., il quale nelle società in accomandita regolari sanziona con la perdita della limitazione della responsabilità alla quota di partecipazione la violazione, da parte del socio accomandante del divieto di trattare o concludere affari per conto della società e di compiere atti di amministrazione, comporta testualmente che la perdita del beneficio della responsabilità limitata non richiede un atto di autonoma iniziativa negli affari sociali ma può derivare anche dalla partecipazione ad un atto di gestione intrapreso dagli accomandatari, sia con riguardo ad atti di amministrazione interna, sia ad atti di rappresentanza esterna, in funzione del momento in cui l’atto viene ad esistenza, prescindendo dall’affidamento incolpevole del terzo sull’atto di gestione.
Prima di registrare la società sarà necessario esaminare se esistono i presupposti necessari.
L’esame viene compiuto dall’ufficio del registro delle imprese (art. 2189 c.c. 2 co), contro la cui decisione si può ricorrere al giudice del registro che provvede con decreto (2189 3 co c.c.) ricorribile in tribunale (2192 c.c.).
Efficacia meramente dichiarativa – e di conseguenza l’inosservanza delle forme si traduce principalmente nella c.d. efficacia negativa della pubblicità (consistente nel fatto che gli atti o i fatti, dei quali la legge prescrive l’iscrizione, se non sono stati iscritti non possono essere opposti ai terzi, a meno che il soggetto obbligato non provi che i terzi ne abbiano avuto conoscenza).
art. 2296 c.c. ( obblighi peculiari agli amministratori della società in nome collettivo) pubblicazione
l’atto costitutivo della società, con sottoscrizione autenticata (2703) dei contraenti, o una copia autentica (2714) di esso se la stipulazione è avvenuta per atto pubblico (2699), deve entro 30 giorni essere depositato per l’iscrizione, a cura degli amministratori (2626), presso l’ufficio del registro delle imprese (2188 e seguenti; att. 99 e seguenti) nella cui circoscrizione è stabilita la sede sociale.
Se gli amministratori non provvedono al deposito nel termine indicato nel comma precedente, ciascun socio può provvedervi a spese della società, o far condannare gli amministratori ad eseguirlo.
Se la stipulazione è avvenuta per atto pubblico, è obbligato ad eseguire il deposito anche il notaio (2626).
In particolare, poi, è stato affermato con un pronuncia di merito[27] che non può essere iscritto al Registro delle Imprese il progetto di scissione di una società ex art. 2506 c.c. con costituzione di due nuove società, entrambe unipersonali con presenza del solo socio accomandatario e con riserva di ciascuno dei due soci accomandatari di ricostituire la pluralità dei soci entro sei mesi, posto che, essendo prevista nel progetto di fusione la nascita di nuovi soggetti giuridici, distinti da quello originario o da altri preesistenti, è richiesta dagli artt. 2295 e 2315 c.c. la pluralità di soci, mentre la unipersonalità, disciplinata dall’art. 2272 c.c., è ammissibile solo come sopravvenienza, e quindi non in fase costitutiva.
F) Amministrazione
Secondo l’opinione preferibile non possono essere nominati amministratori gli estranei alla società.
art. 2318 c.c. soci accomandatari
i soci accomandatari hanno i diritti e gli obblighi dei soci della società in nome collettivo.
L’amministrazione della società può essere conferita soltanto a soci accomandatari.
art. 2319 c.c. nomina e revoca degli amministratori
se l’atto costitutivo non dispone diversamente, per la nomina degli amministratori e per la loro revoca nel caso indicato nel secondo comma dell’art. 2259 sono necessari il consenso dei soci accomandatari e l’approvazione di tanti soci accomandanti che rappresentino la maggioranza del capitale da essi sottoscritto.
Secondo una non recente sentenza della S.C.[28] la distinzione tra atti di ordinaria e straordinaria amministrazione prevista dal codice civile in relazione ai beni degli incapaci (artt. 320, 374 e 394 c.c.) non coincide con quella applicabile in tema di determinazione dei poteri attribuiti agli amministratori delle società, i quali vanno individuati con riferimento agli atti che rientrano nell’”oggetto sociale” – qualunque sia la loro rilevanza economica e natura giuridica -, pur se eccedano i limiti della c.d. ordinaria amministrazione, con la conseguenza che, salvo le limitazioni specificamente previste nello statuto sociale, devono ritenersi rientranti nella competenza dell’amministratore tutti gli atti che ineriscono alla gestione della società ed eccedenti i suoi poteri, invece, quelli di disposizione o di alienazione, suscettibili di modificare la struttura dell’ente e, perciò esorbitanti (e contrastanti con) l’oggetto sociale (ribadendo tali principi, la Suprema Corte ha confermato la decisione di merito, la quale ha ritenuto rientrante nell’oggetto sociale – e, pertanto, vincolante per una s.a.s. anche se stipulato senza la firma congiunta degli amministratori, prevista dallo statuto per gli atti di straordinaria amministrazione – la conclusione di un contratto di leasing cosiddetto “di trasferimento”, comportante, alla sua scadenza, la possibilità del passaggio in proprietà, alla società utilizzatrice, dei beni strumentali impiegati per l’attività di gestione del gabinetto odontoiatrico, esercitata dalla società medesima).
1) La nomina degli amministratori
Viene fatta, nell’atto costitutivo (anche al momento di una sua modificazione), o con atto separato, dai soci all’unanimità; quando non si procede a una nomina espressa, l’amministrazione spetta a ciascuno dei soci.
Il diverso peso della volontà delle due categorie di soci si spiega con la diversa posizione che essi assumono nella compagine sociale: gli accomandatari, come si è più volte detto, hanno uno status identico a quello dei soci della società in nome collettivo, e vale quindi per essi la regola dell’unanimità (artt. 1726 e 2259 c.c.); gli accomandanti hanno, invece, uno status più tenue e si richiede quindi solo la maggioranza (calcolata non per capi ma per quote) dei loro voti.
La revoca è consentita (art. 1726 c.c.) a meno che non ricorra anche l’interesse dell’amministratore (art. 1723 2 co c.c.) interesse che va specificamente provato.
2) La cessazione degli amministratori
A) Se la nomina è avvenuta con il contratto sociale, la revoca non produce in nessun caso effetti se non ricorre una giusta causa (2259 c.c.);
B) se la nomina è avvenuta con atto separato la revoca è consentita (art. 1726 c.c.) a meno che non ricorra anche l’interesse dell’amministratore (art.1723 2 co c.c.) interesse che va specificamente provato, sono necessari il consenso dei soci accomandatari e l’approvazione di tanti soci accomandanti che rappresentino la maggioranza del capitale;
C) È evidente, poi, che qualora non ci sia giusta causa, la revoca dell’amministratore nominato nel contratto sociale è ammessa con il consenso di tutti i soci, compreso necessariamente anche quello del socio amministratore, trattandosi di modifica del contratto sociale.
D) Se, invece, ricorre una giusta causa ovvero la nomina fu fatta con atto separato e non ricorra l’interesse dell’amministratore, sarà comunque necessario il consenso di tutti i soci (salva l’applicazione del principio maggioritario eventualmente previsto), escluso il socio amministratore, della cui revoca si discute.
art. 2259 c.c. revoca della facoltà di amministrare
la revoca dell’amministratore nominato con il contratto sociale non ha effetto se non ricorre una giusta causa.
L’amministratore nominato con atto separato (vedi punto 2 – sopra ) è revocabile secondo le norme sul mandato (1723 e seguenti).
La revoca per giusta causa può in ogni caso essere chiesta giudizialmente da ciascun socio.
Per il tribunale Meneghino[29] lo scioglimento del rapporto sociale limitatamente al socio uscente, nell’ambito della società in accomandita semplice, configura generale applicazione della disciplina in materia di risoluzione contrattuale per inadempimento e postula la dimostrazione probatoria di una violazione degli obblighi negoziali.
Nella società in accomandita semplice, il codice per la regolamentazione della posizione dei soci accomandatari rinvia a quella prevista per i soci della società in nome collettivo, con la conseguenza che, essendo i relativi diritti ed obblighi disciplinati dalle norme sul mandato, i soci accomandanti hanno il diritto di avere comunicazione del bilancio e degli altri documenti contabili.
art. 1726 c.c. revoca del mandato collettivo
se il mandato è stato conferito da più persone con unico atto e per un affare d’interesse comune, la revoca non ha effetto qualora non sia fatta da tutti i mandanti, salvo che ricorra una giusta causa (2609).
art. 1723 c.c. revocabilità del mandato
il mandante può revocare il mandato; ma se era stata pattuita l’irrevocabilità, risponde dei danni, salvo che ricorra una giusta causa.
Il mandato conferito anche nell’interesse del mandatario o di terzi non si estingue per revoca da parte del mandante, salvo che sia diversamente stabilito o ricorra una giusta causa di revoca (2259); non si estingue per la morte o per la sopravvenuta incapacità (1425) del mandante.
art. 1722 c.c. cause di estinzione
Il mandato si estingue:
1) per la scadenza del termine o per il compimento, da parte del mandatario, dell’affare per il quale è stato conferito;
2) per revoca da parte del mandante;
3) per rinunzia del mandatario;
4) per la morte, l’interdizione o l’inabilitazione (414 e seguenti) del mandante o del mandatario. Tuttavia il mandato che ha per oggetto il compimento di atti relativi all’esercizio di un’impresa non si estingue, se l’esercizio dell’impresa è continuato, salvo il diritto di recesso delle parti o degli eredi (att. 184).
art. 1724 c.c. revoca tacita
la nomina di un nuovo mandatario per lo stesso affare o il compimento di questo da parte del mandante importano revoca del mandato, e producono effetto dal giorno in cui sono stati comunicati al mandatario (1334 e seguente).
art. 2260 c.c. diritti e obblighi degli amministratori
i diritti e gli obblighi degli amministratori sono regolati dalle norme sul mandato (1710 e seguenti).
Gli amministratori sono solidalmente responsabili verso la società (1292 e seguenti) per l’adempimento degli obblighi ad essi imposti dalla legge e dal contratto sociale. Tuttavia la responsabilità non si estende a quelli che dimostrino di essere esenti da colpa.
art. 1710 c.c. diligenza del mandatario
il mandatario è tenuto a eseguire il mandato (2392-1, 2407-1) con la diligenza del buon padre di famiglia (1176); ma se il mandato è gratuito, la responsabilità per colpa è valutata con minor rigore.
Il mandatario è tenuto a rendere note al mandante le circostanze sopravvenute che possono determinare la revoca o la modificazione del mandato.
Si è posto il problema in dottrina e non solo se l’art. 1717 c.c. possa essere applicato alle società semplici.
A) sostituzione autorizzata il mandatario è responsabile soltanto per culpa in eligendo –
B) sostituzione non autorizzata – risponde dell’operato della persona sostituita
art. 1717 c.c. sostituto del mandatario
il mandatario che, nell’esecuzione del mandato, sostituisce altri a se stesso, senza esservi autorizzato o senza che ciò sia necessario per la natura dell’incarico, risponde dell’operato della persona sostituita.
Se il mandante aveva autorizzato la sostituzione senza indicare la persona, il mandatario risponde soltanto quando è in colpa nella scelta.
Il mandatario risponde delle istruzioni che ha impartite al sostituto.
Il mandante può agire direttamente contro la persona sostituita dal mandatario.
In base al principio generale che l’amministrazione e la rappresentanza sono poteri correlati, ma non necessariamente connessi e coincidenti, per determinare se è possibile o meno per l’amministratore della società sostituire altri a se stesso, bisogna fare un preliminare approccio metodologico secondo il quale il sostituente non può attribuire al sostituito poteri ulteriori a quelli che ha.
Esempio – la società semplice Alfa ha 4 soci (A,B,C,D), i quali sono tutti amministratori, ma soltanto A è rappresentante legale della società.
Partendo dal presupposto secondo il quale l’art. 1717 c.c. riguarda soltanto il rapporto gestorio (rectius amministrativo) tutti i soci amministratori potranno farsi sostituire nell’ambito di tale rapporto, ma soltanto il socio A potrà autorizzare, mediante procura, il mandatario a rappresentare la società nei rapporti con i terzi.
Problema – se è possibile o meno una sostituzione integrale nei poteri amministrativi;
– secondo la giurisprudenza non è ammissibile in quanto la sostituzione integrale nella sostanza finisce per annullare il principio secondo il quale l’amministratore deve necessariamente essere nominato dai soci, mentre in questo caso la nomina è compiuta soltanto da un socio.
Tra i poteri che non possono essere delegati rientrano ad es. il diritto di veto nell’ambito dell’amministrazione disgiunte e l’obbligo del rendiconto.
art. 1718 c.c. custodia delle cose e tutela dei diritti del mandante
il mandatario deve provvedere alla custodia delle cose che gli sono state spedite per conto del mandante e tutelare i diritti di quest’ultimo di fronte al vettore, se le cose presentano segni di deterioramento o sono giunte con ritardo.
Se vi è urgenza, il mandatario può procedere alla vendita delle cose a norma dell’art. 1515 (att. 83).
Di questi fatti, come pure del mancato arrivo della merce, egli deve dare immediato avviso al mandante.
Le disposizioni di questo articolo si applicano anche se il mandatario non accetta l’incarico conferitogli dal mandante, sempre che tale incarico rientri nell’attività professionale del mandatario.
art. 1719 c.c. mezzi necessari per l’esecuzione del mandato
il mandante, salvo patto contrario, è tenuto a somministrare al mandatario i mezzi necessari per l’esecuzione del mandato e per l’adempimento delle obbligazioni che a tal fine il mandatario ha contratte in proprio nome.
art. 1720 c.c. spese e compenso del mandatario
il mandante deve rimborsare al mandatario le anticipazioni, con gli interessi legali (1284) dal giorno in cui sono state fatte, e deve pagargli il compenso che gli spetta (2761).
Il mandante deve inoltre risarcire i danni che il mandatario ha subiti a causa dell’incarico.
3) Responsabilità
art. 2313 c.c. nozione
nella società in accomandita semplice i soci accomandatari rispondono solidalmente e illimitatamente (2740) per le obbligazioni sociali, e i soci accomandanti rispondono limitatamente alla quota conferita (salvo art. 2314 2 co).
Le quote di partecipazione dei soci non possono essere rappresentate da azioni.
E’ opportuno subito segnalare, secondo una pronuncia della S.C.[31] che l’accertamento tributario (nella specie, in materia di IVA), se inerente a crediti i cui presupposti si siano determinati prima della dichiarazione di fallimento del contribuente o nel periodo d’imposta in cui tale dichiarazione è intervenuta, deve essere notificato non solo al curatore – in ragione della partecipazione di detti crediti al concorso fallimentare o, comunque, della loro idoneità ad incidere sulla gestione dei beni e delle attività acquisiti al fallimento – ma anche al contribuente e, quindi, qualora quest’ultimo abbia la forma di una società in accomandita semplice, al socio accomandatario in carica, alla data della notifica; l’accertamento va, altresì notificato al socio accomandatario cessato in precedenza dalla carica, con riferimento ai crediti insorti durante il periodo della sua amministrazione, se l’Ufficio intenda agire anche nei suoi confronti come coobbligato solidale con la società, ai sensi dell’art. 2313 c.c..
art. 2317 c.c. mancata registrazione
fino a quando la società non è iscritta nel registro delle imprese (att. 99 e seguenti), ai rapporti fra la società e i terzi si applicano le disposizioni dell’art. 2297.
Tuttavia per le obbligazioni sociali i soci accomandanti rispondono limitatamente alla loro quota, salvo che abbiano partecipato alle operazioni sociali.
Per la Cassazione[32] la disposizione dell’art. 2317 c.c. il quale, nelle società in accomandita irregolari, fissa il principio della responsabilità illimitata per le obbligazioni sociali del socio accomandante ove egli abbia partecipato alle operazioni sociali, ancorché vada interpretata in correlazione con l’art. 2320 c.c. il quale nelle società in accomandita regolari sanziona con la perdita della limitazione della responsabilità alla quota di partecipazione la violazione da parte del socio accomandante del divieto di trattare o concludere affari per conto della società e di compiere atti di amministrazione, comporta testualmente che la perdita del beneficio della responsabilità limitata non richiede un atto di autonoma iniziativa negli affari sociali ma può derivare anche dalla partecipazione ad un atto di gestione intrapreso dagli accomandatari, sia con riguardo ad atti di amministrazione interna, sia ad atti di rappresentanza esterna, in funzione del momento in cui l’atto viene ad esistenza, prescindendo dall’affidamento incolpevole del terzo sull’atto di gestione.
Inoltre[33] la illimitata responsabilità del socio accomandatario per le obbligazioni sociali, ai sensi dell’ art. 2313 c.c., trae origine dalla sua qualità di socio e si configura pertanto come personale e diretta, anche se con carattere di sussidiarietà in relazione al preventivo obbligo di escussione del patrimonio sociale, in sede di esecuzione individuale, di cui all’art. 2304 c.c., richiamato dal successivo art. 2318.
Il socio illimitatamente responsabile non può, quindi, essere considerato terzo rispetto all’obbligazione sociale, ma debitore al pari della società per il solo fatto di essere socio tenuto a rispondere senza limitazioni.
Tale situazione di identità debitoria emerge con evidenza in sede fallimentare, ove il fallimento della società di persone produce con effetto automatico, ai sensi dell’art. 147 l.f., il fallimento dei soci illimitatamente responsabili e il credito dichiarato dai creditori sociali nel fallimento della società si intende dichiarato per l’intero anche nel fallimento dei singoli soci (art. 148, comma terzo, l.f.). Alla stregua di tali postulati, l’atto con cui il socio accomandatario rilascia garanzia ipotecaria per un debito della società non può essere considerato costitutivo di garanzia per un’obbligazione altrui, ma va qualificato quale atto di costituzione di garanzia per una obbligazione propria con la conseguenza che il creditore che, in relazione a un credito verso la società, in seguito fallita, sia titolare di garanzia ipotecaria prestata dal socio accomandatario, ha diritto di insinuarsi in via ipotecaria nel passivo del fallimento di quest’ultimo, assumendo egli la veste di creditore ipotecario del fallito, non già di mero titolare d’ipoteca rilasciata dal fallito quale terzo garante di un debito altrui.
Particolare risulta anche un’altra pronuncia della S.C.[34] secondo la quale l’azione civile per il risarcimento del danno, nei confronti di chi è tenuto a rispondere dell’operato dell’autore del fatto che integra una ipotesi di reato, è ammessa – tanto per i danni patrimoniali che per quelli non patrimoniali – anche quando difetti una identificazione precisa dell’autore del reato stesso e purché questo possa concretamente attribuirsi ad alcune delle persone fisiche del cui operato il convenuto sia civilmente responsabile in virtù di rapporto organico; pertanto, ove il legale rappresentante di una società in accomandita semplice abbia commesso un reato nello svolgimento dell’attività sociale, del relativo danno rispondono civilmente anche la società ed i soci illimitatamente responsabili.
E’ utile, poi, riportare anche un’altra massima della Corte di Cassazione[35] secondo la quale la responsabilità del socio accomandatario per le obbligazioni sociali, prevista dall’art. 2313 c.c., è personale e diretta, anche se con carattere di sussidiarietà in relazione al preventivo obbligo del creditore di escutere il patrimonio sociale (artt. 2304 e 2318 c.c.).
Pertanto, l’atto con cui il socio accomandatario di una s.a.s. rilascia garanzia ipotecaria per un debito della società non può considerarsi costitutivo di garanzia per un’obbligazione altrui, ma per un’obbligazione propria, con la conseguenza che il creditore il quale, in relazione ad un credito verso la società, sia titolare di garanzia ipotecaria prestata dal socio accomandatario, ha diritto di insinuarsi in via ipotecaria nel passivo del fallimento di quest’ultimo, assumendo egli la veste di creditore ipotecario del fallito, non già mero titolare d’ipoteca rilasciata dal fallito quale terzo garante di un debito.
Infine, secondo la Corte Partenopea (Corte d’Appello di Napoli, sentenza 1354 del 4 aprile 2016) il socio accomandante non può esercitare l’azione sociale di responsabilità nei confronti dell’amministratore della società in accomandita semplice.
Nel merito delle questioni, la Corte ha ribadito la carenza di legittimazione attiva dell’attore-accomandante. Infatti, nelle società di persone, l’azione diretta del socio contro gli amministratori è fondata sull’articolo 2043 del Codice civile. Di conseguenza, per ottenere il risarcimento non basta che il pregiudizio lamentato dal socio sia il mero riflesso dei danni eventualmente provocati al patrimonio sociale; è invece necessario – prosegue la Corte – che si siano verificati «danni direttamente causati al socio come conseguenza immediata del comportamento degli amministratori».
Né permettono di giungere a diversa conclusione gli ostacoli all’esercizio dell’azione sociale di responsabilità che si possono presentare in una compagine con pochi soci. Infatti, la costituzione e la disciplina delle società è rimessa all’autonomia dei privati; di conseguenza, i soggetti che formano una Sas con queste caratteristiche «devono essere consapevoli delle difficoltà che possono sorgere da una tale organizzazione».
Del resto, ammettere che ogni socio possa promuovere l’azione sociale di responsabilità nei confronti degli amministratori «significherebbe escludere del tutto la soggettività e l’autonomia patrimoniale, sia pure non perfette, delle società di persone». Non solo. Significherebbe anche consentire una sostituzione processuale, che l’articolo 81 del Codice di procedura civile permette solo nei casi espressamente previsti dalla legge.
4) La responsabilità illimitata per il socio accomandante in virtù del divieto di ingerenza
art. 2320 c.c. [36] soci accomandanti
i soci accomandanti non possono compiere atti di amministrazione (Divieto d’immistione interna), né trattare o concludere affari in nome della società (Divieto d’immistione esterna), se non in forza di procura speciale per singoli affari (attenua il divieto dell’immistione esterna). Il socio accomandante che contravviene a tale divieto assume responsabilità illimitata (2740) e solidale (1292) verso i terzi per tutte le obbligazioni sociali e può essere escluso a norma dell’art. 2286.
I soci accomandanti possono tuttavia prestare la loro opera sotto la direzione degli amministratori e, se l’atto costitutivo lo consente, dare autorizzazioni e pareri per determinate operazioni e compiere atti di ispezione e di sorveglianza.
Potere di controllo.
In ogni caso essi hanno diritto di avere comunicazione annuale del bilancio e del conto dei profitti e delle perdite, e di controllarne l’esattezza, consultando i libri e gli altri documenti della società.
Difatti per la S.C.[37] con riguardo alla domanda del socio accomandante di una società in accomandita semplice, rivolta ad ottenere la dichiarazione di nullità delle approvazioni di bilanci e dei rendiconti della società per non avere ricevuto comunicazione di tali atti, deve essere riconosciuta la legittimazione passiva della società, non dei soci-amministratori, in considerazione della riferibilità dei loro atti di gestione, secondo i principi della rappresentanza organica, direttamente alla società medesima, quale centro d’imputazione di situazioni giuridiche soggettive (ancorché priva della personalità giuridica).
Divieto d’ingerenza: o divieto d’immistione
duplice tutela:
a) effetti esterni == per la tutela dei terzi che entrano in rapporto con la società;
1) è la perdita del beneficio della responsabilità limitata
2) relativamente alla situazione giuridica degli atti compiuti dall’accomandante che agisce privo della procura speciale, si ritiene dalla dottrina[38] e dalla giurisprudenza[39] prevalenti che non si tratti di atti invalidi, ma inefficaci in quanto compiuti dal falsus procurator, i quali, potranno essere ratificati dalla società non potendo essere obbligata per gli atti compiuti dall’accomandante senza potere.
b) effetti interni == per la tutela degli accomandatari, i cui interessi potrebbero essere compromessi dall’azione dei consoci protetti e resi audaci dalla limitazione di responsabilità.
Conseguenza – il socio accomandante può essere escluso ai sensi dell’art. 2286 c.c. vi sono peraltro dei casi in cui l’esclusione non può aversi, e ciò avrebbe luogo nell’ipotesi in cui l’ingerenza dell’accomandante sia stata consentita dagli altri soci.
Per una pronuncia di merito[40] il fondamento giuridico il divieto per il socio accomandante di trattare affari in nome e per conto della società è ricollegabile sia all’esigenza di tutela della posizione dell’accomandatario nell’ambito della gerarchia societaria, sia a quella dell’effettiva rispondenza dell’organizzazione sociale al tipo prescelto e sul quale i terzi fanno affidamento.
Ne consegue che la sanzione dell’illimitata responsabilità per tutte le obbligazioni sociali presuppone che l’attività gestoria dell’accomandante abbia superato i limiti necessari per ritenersi sussistere il rischio di nocumento all’affidamento dei terzi sul tipo e compagine sociale oppure alla posizione dell’accomandatario all’interno della stessa.
È indiscusso[41] in realtà che, per aversi ingerenza dell’accomandante nell’amministrazione della società in accomandita semplice, – vietata dall’art. 2320 c.c. – non è sufficiente il compimento, da parte dell’accomandante, di atti riguardanti il momento esecutivo dei rapporti obbligatori della società, ma è necessario che l’accomandante svolga una attività gestoria che si concreti nella direzione degli affari sociali, implicante una scelta che è propria del titolare della impresa.
Ad esempio mentre la prestazione di garanzia attiene evidentemente al momento esecutivo delle obbligazioni, il prelievo di fondi dalle casse sociali per le esigenze personali del socio, quand’anche indebito o addirittura illecito, non costituisce certamente un atto di gestione della società.
Diverso trattamento – nel senso che non trattasi di un mero indice – ha ricevuto il caso di una garanzia rilasciata dall’accomandante sotto forma di fideiussione omnibus, in quanto è manifesta l’intenzione del socio di realizzare un continuativo e sistematico intervento di sostegno all’attività di impresa sovvenendo e finanziando la società affinché questa riesca ad ottenere credito verso terzi e quindi collaborando con il socio amministratore per il raggiungimento dello scopo sociale.
È stato altresì ritenuto che il rilascio di fideiussioni illimitate e la sottoscrizione di un contratto di affitto d’azienda, seppur valutati in un contesto complessivo e non atomistico, siano in concreto una violazione del divieto di immistione.
In altre parole, il socio accomandante senza una specifica procura non può compiere alcun atto gestorio, nemmeno il presenza del consenso da parte del socio accomandatario.
Con l’espressione singoli affari, il legislatore ha voluto affermare l’esigenza di un’individuazione specifica dell’attività delegata, sull’implicito – ma chiaro – presupposto che la genericità e indeterminatezza comportino, di per se stesse, l’attribuzione di poteri implicanti scelte che spettano esclusivamente all’accomandatario e si traducono, quindi, in un’indebita ingerenza nell’amministrazione societaria; più pragmaticamente, con l’attribuzione del potere di compiere singoli affari non si può delegare la gestione di un settore dell’attività societaria e pertanto, assume rilievo non tanto l’unicità o pluralità degli atti in cui l’affare può concretarsi, ovvero l’omogeneità degli atti plurimi, quanto la determinatezza dell’affare, nel senso di una specifica individuazione, al fine di verificare se i poteri conferiti non implichino un’ingerenza dell’accomandante nella gestione della società.
La situazione è differente, come già scritto in precedenza, nel caso in cui l’accomandante agisca come falsus procurator, ovvero senza procura.
In tale ipotesi, infatti, la società non rimarrà vincolata dall’atto stipulato dal suo socio, a meno che non provveda a ratificare l’atto dallo stesso compiuto (art. 1399 c. c.).
Per la S.C.[42] difatti nella società in accomandita semplice, l’art. 2320 c. c., il quale sanziona il comportamento del socio accomandante, che compia affari in nome delle società senza specifica procura, con la perdita del beneficio della responsabilità limitata verso i terzi, non introduce deroghe alla disciplina generale della rappresentanza senza potere, e, pertanto, se la società eccepisce l’inefficacia nei suoi confronti del negozio stipulato da quel falso procuratore, nessuna obbligazione sorge a suo carico, se il terzo non prova che la società medesima lo ha ratificato.
O ancora[43], l’accomandante falsus procurator assume responsabilità illimitata e solidale per tutte le obbligazioni sociali, poiché qualsiasi ingerenza nell’attività speciale costituisce un comportamento potenzialmente idoneo a determinare un mutamento del tipo sociale e quindi dannoso per la posizione di preminenza dell’accomandatario
In definitiva, è stato ritenuto che il comportamento del socio accomandante che si qualifichi direttore generale, institore o titolare dell’azienda configuri certamente un’ipotesi di ingerenza nell’amministrazione della società in violazione delle norme codicistiche regolatrici della materia.
Il socio occulto
La Cassazione[44] ha ribadito il proprio orientamento in merito alla figura del socio accomandatario occulto di società in accomandita semplice ed alle attività che possono consentire di attribuire tale natura e le conseguenti responsabilità al socio accomandante.
Secondo la Corte la stessa situazione di socio occulto di una società in accomandita semplice – la quale è caratterizzata dall’esistenza di due categorie di soci che si diversificano a seconda del livello di responsabilità (illimitata per gli accomandatari e limitata alla quota conferita per gli accomandanti, ai sensi dell’art. 2312 c.c.) – non è idonea a far presumere la qualità di accomandatario, essendo necessario, a tal fine, accertare di volta in volta la posizione in concreto assunta da detto socio, il quale, di conseguenza, assume responsabilità illimitata per le obbligazioni sociali, ai sensi dell’art. 2320 c.c., solo ove contravvenga al divieto di compiere atti di amministrazione (intesi questi ultimi quali atti di gestione, aventi influenza decisiva o almeno rilevante sull1arnrninistrazione della società, non già di atti di mero ordine o esecutivi) o di trattare o concludere affari in nome della società.
5) Assoggettabilità al fallimento
Occorre evidenziare che dottrina e giurisprudenza sono concordi nel sostenere l’assoggettabilità al fallimento del socio accomandante che sia decaduto dal beneficio della responsabilità limitata per le obbligazioni sociali, nel caso in cui fallisca la società in accomandita di cui lo stesso fa parte.
E’ stato confermato il consolidato orientamento[45] in base al quale l’art. 147 l.f. si applica non solo nei confronti dei soci con responsabilità illimitata ab origine, ma anche nei confronti di coloro che siano divenuti illimitatamente responsabili per tutte le obbligazioni sociali.
Se la pronuncia in commento conferma l’orientamento secondo il quale sono preclusi all’accomandante atti sia di gestione interna, sia di rappresentanza esterna, i quali ultimi possono concernere sia la conclusione di negozi giuridici, sia la preparazione alla loro conclusione, è evidente che il carattere di specialità della procura conferita dall’accomandatario va rapportato alla determinazione degli atti che, in virtù di detta procura, l’accomandante è legittimato a compiere.
Con altra pronuncia la S.C.[46] aveva stabilito che nella società in accomandita semplice, il socio accomandante che, avvalendosi di procura conferente ampio ventaglio di poteri, compie atti di amministrazione, interna od esterna, ovvero tratta o conclude affari della gestione sociale, incorre, a norma dell’art. 2320 c.c., nella decadenza dalla limitazione di responsabilità, la quale, in attuazione del principio di tipicità di cui all’art. 2249 c.c., è volta ad impedire che sia perduto il connotato essenziale di tale società, costituito dalla spettanza della sua amministrazione, ai sensi dell’art. 2318 c.c., al solo socio accomandatario; ne consegue che il fallimento della predetta società va esteso, ex art. 147 l.f., anche all’accomandante cui siano state conferite due procure, denominate speciali ma talmente ampie da consentire la effettiva sostituzione all’amministratore nella sfera delle delibere di competenza di questi.
In tema, per ultima Cassazione[47], invece è stato affermato che ad esempio il socio accomandante di una S.a.s. non può essere dichiarato fallito unitamente alla società se effettua prelievi dalle casse sociali e copre con i propri beni i debiti dell’ente
Particolare, poi, risulta altra sentenza della S.C. secondo la quale non può invocarsi la disciplina in materia di protezione dei dati personali, né può configurare una ipotesi di diffamazione, la divulgazione e pubblicazione della notizia concernente la qualifica di socio accomandante di società dichiarata fallita successivamente alla cessazione della carica per avvenuto recesso.
Invero, potendo il socio accomandante essere chiamato ex artt. 2313 e 2320 c.c. a rispondere per le obbligazioni sociali, nei limiti della quota conferita, anche se receduto dalla carica prima della dichiarazione di fallimento, uninformazione di tal tipo non solo risulta utile agli operatori commerciali, ma non è neanche idonea a ledere l’onore ed il decoro dell’ex socio poiché rispondente a dati veritieri[48].
6) Escussione sul patrimonio dell’accomandante
Infine si discute se, qualora l’accomandante non abbia ancora adempiuto la prestazione del conferimento, i creditori possano agire direttamente sul suo patrimonio, ovvero se possono farlo solamente in via surrogatoria (esercitando cioè i diritti che competono in via originaria solo alla società).
1) teoria dell’azione diretta – i sostenitori di questa tesi[49] affermano che la quota di conferimento del socio accomandante equivale ad una garanzia a favore dei creditori sociali e, in quanto tale, è in suscettibile di modificazioni da parte dei soci. L’obbligo di prestazione da parte dell’accomandante, quindi, garantisce in primo luogo i creditori.
2) La teoria dell’azione in via surrogatoria[50] – sembra preferibile[51], anche a parere di chi scrive, questa seconda opinione la quale parte dal presupposto che l’adempimento da parte dell’accomandante all’obbligazione di eseguire il proprio conferimento, priva la società e i creditori sociali di qualunque azione nei suoi confronti.
Le conseguenza che derivano dall’eventuale inadempimento non sono diverse da quelle che dipendono dalla mancata esecuzione di un obbligo.
Il soggetto legittimato ad agire per ottenere l’esecuzione coattiva sui beni del socio debitore, infatti, è la società e, solo in via surrogatoria (2900 c.c.) i creditori sociali; l’azione di quest’ultimi è però diretta alla formazione del fondo sociale perché solo su quest’ultimo il creditore può soddisfarsi.
G) Divieto di concorrenza
art. 2301 c.c. divieto di concorrenza
il socio non può, senza il consenso degli altri soci, esercitare per conto proprio o altrui una attività concorrente con quella della società, né partecipare come socio illimitatamente responsabile ad altra società concorrente.
Il consenso si presume, se l’esercizio dell’attività o la partecipazione ad altra società preesisteva al contratto sociale, e gli altri soci ne erano a conoscenza.
In caso d’inosservanza delle disposizioni del primo comma la società ha diritto al risarcimento del danno, salva l’applicazione dell’art. 2286 c.c.
art. 2390 c.c. divieto di concorrenza
gli amministratori non possono assumere la qualità di soci illimitatamente responsabili in società concorrenti, né esercitare un’attività concorrente per conto proprio o di terzi, né essere amministratori o direttori generali in società concorrenti, salvo autorizzazione dell’assemblea.
Per l’inosservanza di tale divieto l’amministratore può essere revocato dall’ufficio e risponde dei danni.
La ratio di tale divieto è stata individuata[52] nello scopo di impedire che il socio si avvalga delle notizie acquisite all’interno della società per fini extrasociali (in termini di mercato si parlerebbe di insider trading).
È controverso se il divieto sia applicabile anche al socio che abbia alienato la sua quota nei casi in cui ciò sia possibile; in particolare è discusso se sia applicabile al socio che aliena la disciplina prevista dall’art. 2557 c.c.
A) la tesi positiva[53] si basa sul presupposto di un’equivalenza di quota sociale e quota d’azienda, interpreta estensivamente la norma contenuta nel citato art. 2557 c.c., aggiungendo la considerazione che lo stesso pericolo di concorrenza sussiste anche nel caso di alienazione di quota sociale.
B) La tesi[54] negatrice, che è preferibile, sostenuta anche in giurisprudenza, rileva:
1) innanzitutto che l’art. 2557 c.c., come ogni norma che impone un divieto, non può essere estesa per analogia e,
2) in secondo luogo, il socio, alienando la quota sociale, non compie certo un atto di disposizione su una quota di azienda, in quanto questa appartiene esclusivamente alla società (e non ai singoli soci) tenuto conto dell’autonomia patrimoniale e soggettività di ogni società, compresa quella di persone.
È stato osservato[55], che l’identità dell’oggetto sociale non determina sempre una posizione di concorrenza (si pensi, ad esempio, all’albergo di lusso e a quello per modesti viaggiatori; a due industrie che fabbricano i medesimi prodotti destinandoli l’una esclusivamente all’importazione e l’altra all’esportazione.
E vi può essere concorrenza anche se hanno attività con un oggetto diverso ma si riferiscono alla stessa clientela (come accade ad es. per le ferrovie, gli autotrasporti e la navigazione fluviale su percorsi equivalenti).
Si afferma, pertanto, che si ha concorrenza fra due attività quando entrambe sono diretta a produrre beni o servizi per la stessa categoria di consumatori, in modo che l’aumento di una di esse vada a detrimento dell’altra.
La norma si estende anche alla società in accomandita semplice.
Essa colpisce soltanto i soci illimitatamente responsabili e, pertanto, non si applica ai soci accomandanti.
Questo si giustifica in considerazione del fatto che, partecipando in vario modo all’attività della società, ognuno dei soci illimitatamente responsabili è in condizione di entrare in possesso di notizie e dati che potrebbero essere utilizzati in danno della società.
E’ fondata l’opposizione proposta dal socio accomandante della società in accomandita semplice, avverso la delibera di esclusione dello stesso dalla società, adottata alla luce dell’asserita violazione del divieto di concorrenza, di cui all’art. 2301, per avere lo stesso, senza il consenso degli altri soci, esercitato per conto proprio ed altrui un’attività concorrente con quella della società.
Orbene, ritenuto che l’art. 2315 c.c. statuisce l’applicabilità alla s.a.s., delle disposizioni relative alla s.n.c. in quanto compatibili con le specifiche norme disciplinanti la s.a.s. e che ai sensi dell’art. 2318 c.c., nella s.a.s. solo i soci accomandatari sono soggetti agli obblighi propri della s.n.c., ne consegue che l’attore, quale socio accomandante, non può ritenersi assoggettato al divieto di concorrenza che vincola solo gli accomandatari[56].
H) La ripartizione degli utili e partecipazione alle perdite
art. 2321 c.c. utili percepiti in buona fede
i soci accomandanti non sono tenuti alla restituzione degli utili riscossi in buona fede secondo il bilancio regolarmente approvato.
Questa norma viene spiegata dalla dottrina con riferimento alla posizione di maggiore estraneità alla gestione sociale assunta dagli accomandanti rispetto agli accomandatari, per cui i primi non sono, almeno normalmente, in grado di accertare se gli utili distribuiti sono stati regolarmente conseguiti.
Deve perciò respingersi l’opinione secondo la quale la norma riguarderebbe anche gli accomandatari che non siano amministratori.
In sintesi la buona fede è esclusa solo qualora, seguendo il controllo con la normale diligenza, l’accomandante sarebbe stato in grado di accorgersi della mancanza di utili.
Per una pronuncia della Corte di Cassazione[57], nella società in accomandita semplice il diritto del singolo socio a percepire gli utili è subordinato, ai sensi dell’art. 2262 c.c. (applicabile in forza del duplice richiamo di cui agli artt. 2315 e 2293 c.c.), alla sola approvazione del rendiconto, situazione contabile che equivale, quanto ai criteri fondamentali di valutazione, a quella di un bilancio, il quale è la sintesi contabile della consistenza patrimoniale della società al termine di un anno di attività.
Dovendo formare oggetto di riparto gli utili realmente conseguiti ed essendo necessario evitare una sopravvalutazione del patrimonio sociale in danno dei creditori e dei terzi (oltre che degli stessi soci), è legittimo il comportamento dell’amministratore che si uniformi a quanto viene praticato nelle società per azioni e, in applicazione dei principi di verità e di prudenza nel momento della valutazione delle poste, inserisca nel passivo i costi per gli ammortamenti e le spese necessarie per il rinnovamento degli impianti obsoleti.
In merito alla partecipazione alle perdite, secondo una pronuncia della Cassazione[58], poiché nella società in accomandita semplice, caratterizzata dalla presenza di due categorie di soci (gli accomandatari – che possono essere investiti del potere amministrativo – illimitatamente responsabili per le obbligazioni sociali; gli accomandanti – privi di potere amministrativo responsabili solo nei limiti della quota di capitale conferito), il regime della partecipazione alle perdite, per il richiamo compiuto dall’art. 2315 c.c. alla disciplina relativa alla società in nome collettivo, che, ai sensi dell’art. 2293 c.c., a sua volta rinvia all’art. 2280 c.c. in materia di società semplice, è correlato alla responsabilità per le obbligazioni sociali.
È nulla la clausola statutaria che nei rapporti interni fra i soci preveda la partecipazione degli accomandanti alle perdite oltre la quota di capitale conferito, atteso che l’art. 2249 c.c., nel prevedere che le società aventi ad oggetto l’esercizio di attività commerciali devono costituirsi secondo i tipi di legge, deroga in materia societaria al principio di cui all’art. 1322 c.c. – che consente di porre in essere anche contratti non appartenenti ai tipi legali – vietando all’autonomia privata, che è libera di esplicarsi limitatamente alla disciplina contenuta in norme di natura dispositiva o suppletiva, pattuizioni statutarie che, modificando l’assetto organizzativo o il regime della responsabilità, siano incompatibili con il tipo di società prescelto.
I) La rappresentanza della società
Si applica anche alla società in accomandita semplice la norma contenuta nell’art. 2266 c.c. (che viene richiamata dall’art. 2293 c.c. per la società in nome collettivo).
Il potere di rappresentanza è, normalmente, ma non necessariamente, connesso e coincidente con quello di amministrazione.
L’amministrazione, infatti, va distinta dalla rappresentanza.
Anche se tale distinzione non è stata espressamente prevista dal legislatore, quest’ultimo comunque percepisce una certa differenza dogmatica tra l’amministrazione e la rappresentanza, in quanto la prima è disciplinata nella sez. II (artt. 2257 – 58 – 59 c.c.) la quale è intitolata dei rapporti tra i soci, mentre la seconda è situata nella sez. III (art. 2266 c.c.) denominata dei rapporti con i terzi.
Tali poteri determinano una fattispecie complessa distinta in due fasi:
1) processo delibativo di un atto – inerente alla fase volitiva – meramente interna;
2) rappresentanza del medesimo atto mediante l’agere con i terzi – momento esplicativo della volontà – meramente esterno.
La rappresentanza sociale
compete a chi, agendo in nome della società, determina l’acquisto di diritti o l’assunzione di obbligazioni per la società;
art. 2266 c.c. rappresentanza della società
la società acquista diritti e assume obbligazioni per mezzo dei soci che ne hanno la rappresentanza e sta in giudizio nella persona dei medesimi.
In mancanza di diversa disposizione del contratto, la rappresentanza spetta a ciascun socio amministratore e si estende a tutti gli atti che rientrano nell’oggetto sociale.
Le modificazioni e l’estinzione dei poteri di rappresentanza sono regolate dall’art. 1396.
In materia societaria il problema del rapporto rappresentativo va ripartito nei seguenti sottoproblemi, tutti rilevanti per l’attività del notaio:
1) individuazione dei soggetti cui spetta per legge la rappresentanza della società;
2) individuazione di eventuali organi societari cui spetti condizionarne la nomina;
3) limitazioni eventuali al potere rappresentativo;
4) influenza delle eventuali limitazioni sugli effetti negoziali nei confronti dei terzi.
In materia societaria la rappresentanza legale è la regola:
1) l’art. 2384 c.c. attribuisce il potere rappresentativo agli amministratori indicati nell’atto costitutivo e
2) l’art. 2204 c.c. all’institore, che va valutato come l’alter ego dell’imprenditore per un ramo di azienda oppure per un settore decentrato dell’azienda: ad entrambi il potere rappresentativo è attribuito per legge come elemento dell’ampio potere gestorio che loro compete.
Allorquando si tratti di rappresentanza legale occorre preoccuparsi non di cercare l’atto costitutivo della rappresentanza, la quale nasce per legge e non richiede accertamenti, ma semmai:
a) vedere se la rappresentanza legale sia stata limitata all’ambito di legge suo proprio, allo scopo di apporre correttamente i limiti entro i quali la rappresentanza legale opera;
b) accertare quali siano i soggetti persone fisiche cui è attribuito in concreto il compito di rappresentare la società: l’art. 2328 n. 9 c.c. dispone che gli amministratori hanno la rappresentanza, lasciando all’atto costitutivo l’individuazione di quelli ai quali essa è devoluta, senza che ciò sia qualificabile come procura, ma non specifica quali persone fisiche abbiano la qualità di amministratori.
I rappresentanti possono essere anche soggetti estranei alla società,
fermo restando, peraltro, che ad essi non può mai essere attribuita la rappresentanza generale della società privandone contemporaneamente gli amministratori. Infatti la rappresentanza ad altri soggetti può aggiungersi a quella degli amministratori, ma mai integralmente sostituirsi ad essa, perché l’organo amministrativo della società non può essere interamente svuotato del potere rappresentativo[59].
Va in proposito chiarito che l’opinione che gli amministratori non possano dismettere interamente con procura generale i propri poteri deriva soprattutto dalla giurisprudenza[60], mentre parte della dottrina è portata a non escludere completamente la possibilità di rilasciare procura generale, ma soltanto a distinguerne i contenuti allo scopo di evitare che la procura generale si ponga in contrasto con il disegno codicistico sulle competenze degli amministratori e sulla loro responsabilità[61].
Se il procuratore sia persona estranea all’organizzazione societaria, oppure egli, pur facendo parte di detta organizzazione, non rivesta in seno alla società la veste di amministratore, poiché siamo al di fuori della rappresentanza legale, la persona può rappresentare la società soltanto per procura, salvo quanto si dirà più avanti per gli institori, i procuratori e i commessi dell’imprenditore.
Il fatto che questa persona sia indicata nell’atto costitutivo o nello statuto non cambia la natura di rappresentanza di costui, che può trovare il suo fondamento solo in una valida procura.
Discorso parzialmente diverso va fatto per l’institore, il procuratore e il commesso, la cui attività rappresentativa viene qualificata come “rappresentanza commerciale”, in bilico tra la rappresentanza legale e la rappresentanza volontaria[62], e fermo restando che per l’institore e per il commesso l’esistenza di una rappresentanza legale sembra prevalere in dottrina[63].
Occorre, comunque, dare atto di una tendenza dottrinale che mira a sganciare del tutto le fattispecie di rappresentanza commerciale (institore, procuratore, commesso) dal fenomeno giuridico legato alla rappresentanza volontaria e che porta a concludere che tutte le volte che ci si trova di fronte ad una fattispecie di rappresentanza commerciale, non si avrà mai procura. Le regole sopra enunciate possono essere così sintetizzate:
1) se si tratta di rappresentanza legale organica non si ha procura e pertanto non occorre allegare all’atto posto in essere alcun documento recante fonte costituiva del rapporto di rappresentanza;
2) peraltro in materia societaria la rappresentanza legale organica è prevista soltanto in capo agli amministratori e certamente all’institore, qualificabile quest’ultimo come una sorta di amministratore per ambito territoriale o di settore limitato;
3) qualunque altro soggetto, non amministratore o institore e fermo quanto è stato sopra chiarito per la rappresentanza commerciale, cui sia affidata la rappresentanza della società pretende la procura; essa in tal caso non può qualificarsi come rappresentanza organica, bensì come rappresentanza volontaria ed in tal caso il documento che ne costituisce la fonte, appunto la procura, va allegato all’atto notarile ex art. 51 n. 3 legge notarile;
4) nel silenzio dell’atto costitutivo o dello statuto, ad ogni componente del consiglio di amministrazione va riconosciuto potere rappresentativo ex lege; se peraltro lo statuto stabilisce regole diverse attribuendo ad uno solo o a pochi amministratori potere rappresentativo, in tal caso la rappresentanza, sempre organica, non richiede obblighi di allegazione;
5) in quest’ultimo caso i soggetti con potere rappresentativo (di solito amministratore delegato o presidente del consiglio di amministrazione) sono pur sempre amministratori e quindi rappresentanti legali organici.
Ciò comporta il non obbligo di allegazione ex art. 51 n. 3 legge notarile, non trattandosi di procura negoziale, ma il notaio ha il compito professionale di accertare quali siano i soggetti con potere rappresentativo ed eventualmente i limiti statutari di questi poteri;
6) può accadere che il rappresentante legale della società (l’intero consiglio di amministrazione o il singolo amministratore con potere rappresentativo) affidino a terzi parte dei loro compiti rappresentativi (si avrebbe in tal caso una subdelega); se questo terzo non è componente del consiglio di amministrazione, perché operi la subdelega è necessaria la procura, con tutti gli obblighi di allegazione previsti dalla legge notarile.
Nomina sulla base di disposizioni statutarie
La rappresentanza legale della società semplice, a norma dell’art. 2266, secondo comma, c.c., spetta a ciascun socio amministratore, in mancanza di diversa disposizione del contratto; con la conseguenza che le parti possono pattiziamente derogare a tale disciplina, affidando l’indicata rappresentanza a persone che non possiedano la qualità di socio[64].
1) Nelle società di persone il compito rappresentativo spetta in linea di principio ad ogni amministratore disgiuntamente, ma è possibile che l’atto costitutivo disponga diversamente (ex artt. 2266, 2° comma, 2295, n. 3, 2298, 2318, 2° comma c.c.)[65].
2) Nelle società di capitali la dissociazione tra potere gestorio (affidato solitamente ad un organo collegiale) e potere rappresentativo (affidato solitamente ad uno o a pochi amministratori) è sostanzialmente adombrata dal legislatore negli artt. 2328, n. 9 e 2384 c.c. e può affermarsi che, a differenza del potere di gestione che spetta inderogabilmente a tutti gli amministratori, la rappresentanza può essere attribuita soltanto ad alcuni di essi[66].
Pertanto nell’ipotesi di società di capitali vi è la possibilità di una scissione tra potere gestorio e potere di rappresentanza degli amministratori: il primo in tal caso compete al consiglio di amministrazione o al comitato esecutivo ed è esercitato collegialmente, con delibere prese a maggioranza; il secondo, sempre nell’ipotesi di scissione, spetta invece ad uno o più amministratori e può essere esercitato disgiuntamente o congiuntamente, tenuto conto soprattutto delle disposizioni statutarie[67].
La dottrina ha chiarito che la rappresentanza è logicamente collegata alla competenza gestoria, perché essa costituisce l’aspetto esterno ma consequenziale alla decisione gestoria.
Pertanto, se l’atto costitutivo non dispone nulla, si deve ritenere che gli amministratori abbiano ad un tempo competenza gestoria e competenza rappresentativa.
Nel silenzio dell’atto costitutivo, quindi, la competenza rappresentativa va esercitata dall’intero consiglio di amministrazione[68].
Si discute, in proposito, fermo restando che la rappresentanza andrà svolta dall’intero consiglio di amministrazione, se questo, come opera a maggioranza per l’attività gestoria, debba analogamente operare a maggioranza per l’espressione del potere rappresentativo.
1) Lo esclude una parte della dottrina[69], sulla base della riflessione che come tutti gli amministratori sono chiamati a partecipare alla fase deliberativa, così tutti gli amministratori, e non soltanto la maggioranza di essi, debbono partecipare all’esercizio della funzione di rappresentanza della società; anche perché la rappresentanza congiunta di tutti gli amministratori garantisce in modo più certo che la volontà sociale che viene manifestata all’esterno sia conforme a quella formatasi nell’esercizio del potere gestorio.
2) Altra dottrina[70], invece, afferma che anche il potere rappresentativo richieda l’espressione a maggioranza (esclusi cioè gli amministratori di minoranza), ad evitare maggiore intralcio alla vita societaria.
Fin qui l’ipotesi che lo statuto nulla disponga in ordine al potere rappresentativo.
Nell’ipotesi, invece, che lo statuto stabilisca norme in proposito, può accadere:
a) che esso si limiti ad attribuire la rappresentanza ad un solo amministratore;
b) che esso indichi più amministratori dotati di potere rappresentativo.
Il caso sub a) non fa sorgere problemi, mentre nel caso sub b) sorgono alcuni problemi.
Non vi è alcun dubbio che in tal caso esiste una scissione tra potere gestorio (esercitato da tutti gli amministratori) e potere rappresentativo (esercitato soltanto da alcuni amministratori espressamente indicati).
Ma si pone subito il problema se, nel silenzio dello statuto, il potere rappresentativo attribuito a più amministratori possa essere esercitato congiuntamente, oppure disgiuntamente.
La dottrina[71] più comune si esprime nel senso che esso vada svolto disgiuntamente, cioè nel senso che ognuno degli amministratori con potere rappresentativo sia in grado di rappresentare la società.
E si pone altresì l’altro problema se, nel silenzio dello statuto, possa provvedersi diversamente a stabilire se il potere vada esercitato disgiuntamente o congiuntamente; si risponde affermativamente precisando che il potere di disciplinare il modo di espressione del potere rappresentativo possa essere svolto sia dal consiglio di amministrazione che dall’assemblea[72].
E non si è mancato di rilevare[73] che nelle società dotate di un organo amministrativo collegiale, il potere di rappresentanza è di regola affidato al presidente, mentre il compito gestorio è di regola esercitato dall’intero consiglio di amministrazione.
Oppure che in genere negli statuti il potere rappresentativo viene attribuito al presidente del consiglio di amministrazione o, se è previsto il consigliere delegato, ad uno o più consiglieri delegati, singolarmente o congiuntamente; ed anzi è stato precisato che la rappresentanza spetta al consigliere delegato anche se nello statuto manchi una clausola che glielo riconosca, ed anche nell’ipotesi che nell’atto di delega nulla si dica in proposito[74].
Effetti negoziali delle limitazioni del potere rappresentativo
In materia societaria esistono regole ben distinte:
1) Per le società di persone regolari (cioè iscritte nel registro delle imprese) vale la regola dell’iscrizione;
2) le limitazioni al potere rappresentativo degli amministratori nei confronti dei terzi hanno effetto se iscritte nel registro delle imprese, oppure se si provi che il terzo ne aveva effettiva conoscenza; ciò ex art. 2298, ultima parte, il quale dispone che “le limitazioni non sono opponibili ai terzi, se non sono iscritte nel registro delle imprese, o se non si prova che questi ne erano a conoscenza”.
Difatti secondo la Cassazione[75] per il disposto dell’art. 2298 c.c. — riguardante le società in nome collettivo, ma applicabile anche alla società in accomandita semplice in forza del richiamo contenuto nell’art. 2315 dello stesso codice — le limitazioni dei poteri di rappresentanza del socio accomandatario risultanti dall’atto costitutivo non sono opponibili ai terzi se non siano iscritte nei registri di cancelleria presso il tribunale — che a norma dell’art. 100 disp. att. c.c. sostituiscono il registro delle imprese sino alla sua attuazione — non essendo all’uopo sufficiente il deposito dell’atto costitutivo presso la cancelleria a norma dell’art. 2296 c.c., salvo che la società provi che il terzo conosceva dette limitazioni (nella specie, l’atto costitutivo di una società in accomandita semplice limitava il potere di rappresentanza del socio accomandatario richiedendo per le vendite immobiliari la firma congiunta di entrambi gli accomandatari e il preventivo consenso scritto del socio accomandante. La S.C., nell’affermare il principio di cui in massima, ha confermato la sentenza di merito che aveva respinto l’eccezione della società di difetto di rappresentanza).
3) Per le società di persone irregolari (cioè non iscritte nel registro delle imprese) trova applicazione l’art. 2297, 2° comma ultima parte, per cui “i patti che limitano i poteri di rappresentanza non sono opponibili ai terzi, a meno che si provi che questi ne hanno avuto conoscenza”.
4) Per le società di capitali valgono gli artt. 2384 e 2384-bis c.c., le cui norme un autorevole Autore[76] ha così riassunto:
a)inopponibilità ai terzi di buona fede della mancanza di potere rappresentativo dovuto ad invalidità dell’atto di nomina;
b) vincolo della società nei confronti dei terzi di buona fede quand’anche si tratti di atti estranei all’oggetto sociale;
c) vincolo della società verso i terzi anche se gli amministratori hanno violato eventuali limiti posti dall’atto costitutivo ai loro poteri di rappresentanza[77].
Nei compiti dell’organo gestionale di una società di persone, ai sensi degli artt. 2266, 2298 e 2318 c.c., sono compresi (in mancanza di espressa limitazione) non solo gli atti di ordinaria amministrazione, ma anche quelli dispositivi, se configurano strumenti per la realizzazione degli scopi perseguiti dalla società e siano di conseguenza riconducibili all’oggetto sociale.
In tema di attività di impresa, il criterio discretivo tra “ordinaria” e “straordinaria” amministrazione non può ritenersi quello del carattere cosiddetto “conservativo” dell’atto posto in essere (valido, invece, in relazione all’amministrazione del patrimonio dell’incapace), essendo, al contrario, necessariamente sotteso alle vicende imprenditoriali il compimento di atti di disposizione di beni; in conseguenza l’indicata distinzione va fondata sulla relazione in cui l’atto si pone con la gestione ” normale ” (e, quindi, “ordinaria”) del tipo di impresa di cui si tratta (ed in considerazione delle dimensioni in cui essa viene esercitata).
Se si tratta di società di fatto, invece, va chiarito che l’onere della prova della sussistenza di un rapporto sociale non formalizzato incombe su colui che lo allega quale fatto costitutivo di una sua pretesa.
Va comunque precisato che anche nell’ipotesi di rappresentanza sociale è necessaria la contemplatio domini, per cui se il rappresentante di una società non ne spende il nome, il negozio dallo stesso concluso non spiega effetti nei confronti della predetta società.
Gli amministratori con rappresentanza hanno il potere di compiere gli atti che rientrano nell’oggetto sociale, salve le limitazioni che risultano dalla legge o dall’atto costitutivo (art. 2384, 1° comma c.c.).
J) Il Trasferimento della quota sociale
art. 2322 c.c. trasferimento della quota
la quota di partecipazione del socio accomandante è trasmissibile per causa di morte.
Salvo diversa disposizione dell’atto costitutivo, la quota può essere ceduta, con effetto verso la società, con il consenso dei soci che rappresentano la maggioranza del capitale.
Bisogna subito distinguere il trasferimento della quota dell’accomandatario (con il consenso unanime degli altri soci – trattandosi di modificazione del contratto sociale) dal trasferimento della quota dell’accomandante (consenso della maggioranza), non operando l’intuitus personae con uguale intensità nei riguardi delle due categorie.
Salvo diversa disposizione dell’atto costitutivo può avere vari significati:
1) ampliare il numero dei consensi;
2) prevedere una quota minore dei consensi;
3) stabilire un diritto di prelazione a favore degli altri soci;
In merito poi al concetto di quota si rinvia al saggio in merito al concetto di capitale e quota nelle società di persona [78].
K) Lo scioglimento della società e l’estinzione
art. 2323 c.c. cause di scioglimento
la società si scioglie, oltre che per le cause previste nell’art. 2308 (2322), quando rimangono soltanto soci accomandanti o soci accomandatari, sempreché nel termine di sei mesi non sia stato sostituito il socio che è venuto meno (2711).
Se vengono a mancare tutti gli accomandatari, per il periodo indicato dal comma precedente gli accomandanti nominano un amministratore provvisorio per il compimento degli atti di ordinaria amministrazione. L’amministratore provvisorio non assume la qualità di socio accomandatario.
art. 2324 c.c. diritti dei creditori sociali dopo la liquidazione
salvo il diritto previsto dal secondo comma dell’art. 2312 nei confronti degli accomandatari e dei liquidatori, i creditori sociali che non sono stati soddisfatti nella liquidazione della società possono far valere i loro crediti anche nei confronti degli accomandanti, limitatamente alla quota di liquidazione.
Deve ritenersi integrato il c.d. eventus damni nel caso di conferimento di beni in società in accomandita semplice atteso che, con tale operazione, viene resa particolarmente gravosa per il creditore la possibilità di ottenere il soddisfacimento del proprio credito in quanto per il combinato disposto di cui agli artt. 2315 e 2305 c.c., il creditore particolare del socio, finché dura la società (nella fattispecie il termine di durata era previsto fino al 2070) non può chiedere la liquidazione della quota del socio debitore[79].
1A FASE DELLA CESSAZIONE DELLA SOCIETÀ
Scioglimento della società: art. 2272 c.c. cause di scioglimento: la società si scioglie:
1) per il decorso del termine
2) per il conseguimento dell’oggetto sociale o per la sopravvenuta impossibilità di conseguirlo;
3) quando viene a mancare la pluralità dei soci, se nel termine di sei mesi questa non è ricostituita;
4) per le altre cause previste dal contratto sociale.
Avvenuto lo scioglimento, l’ente sociale non viene ad estinguersi senz’altro.
Cessa l’attività sociale rivolta al conseguimento dello scopo sociale, ma la società permane sino a che gli affari in corso non siano sistemati, non siano soddisfatti i creditori, e ripartito il residuo attivo tra i soci.
Infatti per la S.C.[80] l’atto formale di cancellazione di una società in accomandita semplice dal registro delle imprese (che ha solo funzione di pubblicità) così come il suo scioglimento con conseguente instaurazione della fase di liquidazione non determinano l’estinzione della società stessa ove non siano esauriti tutti i rapporti giuridici facenti capo alla medesima, a seguito della procedura di liquidazione.
Inoltre[81], l’atto formale di cancellazione della società dal registro delle imprese ha solo funzione di pubblicità, ma non ne determina l’estinzione, ove non siano ancora esauriti tutti i rapporti giuridici facenti capo alla società stessa a seguito della procedura di liquidazione.
Ne consegue che, fino a tale momento, permane la legittimazione processuale in capo alla società che la esercita a mezzo del legale rappresentante, mentre deve escludersi che, intervenuta la cancellazione, il processo eventualmente già iniziato prosegua nei confronti delle persone fisiche che la rappresentavano in giudizio. (Nella specie, la S.C. ha ritenuto che, intervenuta la cancellazione dal registro delle imprese, ma non ancora la liquidazione di tutti i rapporti pendenti, di una società in accomandita semplice, già parte di un giudizio nel quale era stata rappresentata dall’amministratore accomandatario, essa aveva conservato la legittimazione, esercitata mediante il medesimo rappresentante, anche in relazione al ricorso per cassazione).
In definitiva[82] alla cancellazione della società dal registro delle imprese ed ai relativi adempimenti previsti dall’art. 2312 c.c. (cui rinvia l’art. 2315 c.c. per le società in accomandita semplice) non consegue anche la sua estinzione, che è determinata, invece, soltanto dalla effettiva liquidazione dei rapporti giuridici pendenti che alla stessa facevano capo, e dalla definizione di tutte le controversie giudiziarie in corso con i terzi per ragioni di dare ed avere. Ne consegue che una società costituita in giudizio non perde la legittimazione processuale in conseguenza della sua sopravvenuta cancellazione dal registro delle imprese, e che la rappresentanza sostanziale e processuale della stessa permane, per i rapporti rimasti in sospeso e non definiti, nei medesimi organi che la rappresentavano prima della formale cancellazione.
Vi è, appunto, anche un mutamento dello scopo sociale, che non persegue più lo scopo di lucro mediante l’esercizio di un’attività imprenditoriale, ma tende a definire i rapporti in corso, sorti nella fase precedente.
Questo mutamento di scopo comporta anche una differenza di effetti rispetto alla fase del normale esercizio sociale.
Questi effetti riguardano l’attività sociale, gli organi sociali e i soci:
1) quanto all’attività sociale: possono compiersi solo gli atti necessari alla liquidazione (vedi 2A fase), cioè alla conversione in denaro dei beni sociali e al pagamento dei debiti.
2) Quanto agli organi sociali, essi cambiano a seguito dello scioglimento, gli amministratori devono cedere il posto ai liquidatori e conservano il potere di amministrare limitatamente agli affari urgenti e fino a che siano presi i provvedimenti necessari per la liquidazione.
1) Quanto ai soci gli effetti si riproducono:
A) sia rispetto ai loro obblighi; è da ricordare che i soci che non hanno eseguito i conferimenti, possono essere ancora costretti ad eseguirlo nel caso in cui i fondi disponibili risultino insufficienti al pagamento dei debiti sociali.
B) Sia rispetto ai loro diritti; i soci dovranno ricevere in restituzione i beni conferiti in godimento (art.2281) e, estinti i debiti sociali, potranno ottenere la ripartizione dell’attivo secondo quanto stabilito dagli artt. 2282 – 2283 c.c.
art. 2273 c.c. proroga tacita
la società è tacitamente prorogata a tempo indeterminato quando, decorso il tempo per cui fu contratta, i soci continuano a compiere le operazioni sociali.
art. 2274 c.c. poteri degli amministratori dopo lo scioglimento
avvenuto lo scioglimento della società, i soci amministratori conservano il potere di amministrare, limitatamente agli affari urgenti, fino a che siano presi i provvedimenti necessari per la liquidazione.
2A FASE DELLA CESSAZIONE DELLA SOCIETÀ
È questo lo stato di Liquidazione
Alla liquidazione possono procedere i soci omettendo le formalità previste dalla legge; ma di regola la liquidazione viene affidata a 1 o + liquidatori ex 2275 e seguenti.
Il passaggio dalla fasi di scioglimento a quella della liquidazione si verifica ipso iure, senza quindi che all’uopo sia necessaria alcuna deliberazione assembleare o alcuna pronuncia del giudice le quali pertanto, ove intervengano, hanno efficacia non già costitutiva bensì meramente dichiarativa dell’avvenuto passaggio della società alla fase liquidatoria.
Il relativo procedimento ha appunto lo scopo di rendere disponibile il patrimonio della società al fine di pagare i creditori sociali e di consentire la divisione fra i soci dell’eventuale residuo.
Il procedimento si divide in 7 fasi:
1) la nomina dei liquidatori;
2) il reperimento dei fondi;
3) il pagamento dei creditori sociali;
4) la restituzione dei beni conferiti in godimento;
5) il bilancio finale; per una sentenza di merito[83] ai fini della cancellazione dal registro delle imprese di una società in liquidazione è necessario e sufficiente che si sia provveduto all’approvazione del bilancio finale di liquidazione;
6) il riparto dell’attivo;
7) il pagamento dei soci.
art. 2275 c.c. liquidatori
se il contratto non prevede il modo di liquidare il patrimonio sociale e i soci non sono d’accordo nel determinarlo, la liquidazione è fatta da uno o più liquidatori, nominati con il consenso di tutti i soci o, in caso di disaccordo, dal presidente del tribunale.
I liquidatori possono essere revocati per volontà di tutti i soci e in ogni caso dal tribunale per giusta causa su domanda di uno o più soci (2259).
La nomina del liquidatore di una società di persone (nella specie, società in accomandita semplice) da parte del Presidente del Tribunale, in sede di volontaria giurisdizione, ex art. 2275 c.c., è possibile, allo scopo di supplire all’inattività dell’assemblea, esclusivamente quando tra i soci non sia in contestazione lo scioglimento della società.
Pertanto, nel caso in cui sia controverso tra i soci il verificarsi di una causa di scioglimento, la nomina del liquidatore spetta al giudice adito in sede contenziosa, anche se il relativo giudizio sia definito con una pronunzia che dichiari cessata la materia del contendere, a seguito del sopravvenuto passaggio in giudicato della sentenza che, in un separato giudizio, ha dichiarato sciolta la società per insanabile contrasto tra i soci e per l’impossibilità di conseguire l’oggetto sociale[84].
art. 2276 c.c. obblighi e responsabilità dei liquidatori
gli obblighi e la responsabilità dei liquidatori sono regolati dalle disposizioni stabilite per gli amministratori (2260), in quanto non sia diversamente disposto dalle norme seguenti o dal contratto sociale (2452).
art. 2277 c.c. inventario
gli amministratori devono consegnare ai liquidatori i beni e i documenti sociali e presentare ad essi il conto della gestione relativo al periodo successivo all’ultimo rendiconto.
I liquidatori devono prendere in consegna i beni e i documenti sociali, e redigere, insieme con gli amministratori, l’inventario dal quale risulti lo stato attivo e passivo del patrimonio sociale. L’inventario deve essere sottoscritto dagli amministratori e dai liquidatori (2452).
art. 2278 c.c. poteri dei liquidatori
i liquidatori possono compiere gli atti necessari per la liquidazione e, se i soci non hanno disposto diversamente, possono vendere anche in blocco i beni sociali e fare transazioni e compromessi (2452).
Essi rappresentano la società anche in giudizio (vedi art. 75 c.p.c.).
In merito all’ultimo comma secondo la S.C.[85] nel caso di sentenza pronunziata nei confronti di una società in accomandita semplice bene viene dichiarato inammissibile dal giudice del gravame l’appello proposto da un singolo socio in proprio e senza alcun riferimento alla detta società, in quanto questa anche se sprovvista di personalità giuridica costituisce pur sempre un distinto centro di interessi dotato di una sua propria sostanziale autonomia e quindi di una propria capacità processuale, non rilevando in contrario che si tratti di società posta in liquidazione, posto chè in tale ipotesi la legittimazione ad impugnare appartiene al liquidatore cui spetta la rappresentanza della società ai sensi degli articoli 2315 e 2310 c.c. e senza che inoltre possa configurarsi ratifica dell’impugnazione mediante la successiva impugnazione in sede di legittimità, atteso per un verso che la possibilità di ratifica presuppone una impugnazione proposta senza potere in nome della società e non riguarda le ipotesi in cui la stessa sia stata proposta dal socio come tale, e che, per altro verso, l’effetto retroattivo della ratifica rispetto alle nullità conseguenti al difetto di legittimazione processuale non può esplicarsi in detta ipotesi stante la pronunziata inammissibilità dell’appello.
art. 2279 c.c. divieto di nuove operazioni
i liquidatori non possono intraprendere nuove operazioni. Contravvenendo a tale divieto, essi rispondono personalmente (2740) e solidalmente (1292 e seguenti) per gli affari intrapresi (2452).
A) Parte della dottrina[86] afferma che il divieto previsto dall’art. 2279 c.c., comporta l’applicazione dell’art. 1398 c.c.; il liquidatore, cioè, sarebbe un falsus procurator e, in quanto tale, gli atti sarebbero inefficaci (salvo ratifica) nei confronti della società e non vincolanti neanche per il liquidatore il quale sarebbe, però, responsabile del danno che i terzi contraenti hanno sofferto per aver confidato senza loro colpa sulla validità del contratto.
B) Secondo la dottrina[87] preferibile il divieto non incide sulla capacità giuridica, ma solo sui poteri dei liquidatori: la società conserva la sua capacità generale, per cui gli atti compiuti da questi ultimi sono pur sempre riferibili alla società con i soli limiti, dell’opponibilità ai terzi della fase della liquidazione e della “novità” dell’operazione qualora si provi che tale circostanza era nota a costoro.
Non si potrà, ad esempio[88], definire <operazione nuova> l’esecuzione di un contratto di fornitura merci stipulato prima dello scioglimento o anche il compimento di attività utile ai fini della realizzazione dell’attivo.
art. 2280 c.c. pagamento dei debiti sociali
i liquidatori non possono ripartire tra i soci, neppure parzialmente, i beni sociali, finché non siano pagati i creditori della società o non siano accantonate le somme necessarie per pagarli (2452, 2625).
Se i fondi disponibili risultano insufficienti per il pagamento dei debiti sociali, i liquidatori possono chiedere ai soci i versamenti ancora dovuti sulle rispettive quote e, se occorre, le somme necessarie, nei limiti della rispettiva responsabilità e in proporzione della parte di ciascuno nelle perdite. Nella stessa proporzione si ripartisce tra i soci il debito del socio insolvente.
La Cassazione[89] ha affermato la tesi della derogabilità, rispetto alla ripartizione dei beni sociali prima del pagamento dei debiti sociali, in quanto i creditori sociali sono già ampiamente garantiti dalla responsabilità illimitata e solidale dei soci.
art. 2281 c.c. restituzione dei beni conferiti in godimento
i soci che hanno conferito beni in godimento hanno diritto di riprenderli nello stato in cui si trovano. Se i beni sono periti o deteriorati per causa imputabile agli amministratori, i soci hanno diritto al risarcimento del danno a carico del patrimonio sociale, salva l’azione gli contro amministratori (2740).
art. 2282 c.c. ripartizione dell’attivo
estinti i debiti sociali, l’attivo residuo è destinato al rimborso dei conferimenti (2253). L’eventuale eccedenza è ripartita tra i soci in proporzione della parte di ciascuno nei guadagni (2265).
L’ammontare dei conferimenti non aventi per oggetto somme di danaro è determinato secondo la valutazione che ne è stata fatta nel contratto o, in mancanza, secondo il valore che essi avevano nel momento in cui furono eseguiti.
art. 2283 c.c. ripartizione di beni in natura
se è convenuto che la ripartizione dei beni sia fatta in natura, si applicano le disposizioni sulla divisione delle cose comuni (719 e seguenti, 1111 e seguenti).
3A FASE DELLA CESSAZIONE DELLA SOCIETÀ
Cancellazione dal registro delle imprese.
Ma dato che la costituzione della società semplice resta comunque improntata alla massima semplicità formale e sostanziale, anche perché la registrazione non incide né sull’esistenza (come per le società di capitali), né sulla disciplina (come per le altre società di persone) della società.
Può, perciò, in sentesi affermarsi che l’estinzione della società semplice non è subordinata ad un formale provvedimento di cancellazione.
L’estinzione, cioè, interviene quando non formalmente ma in fatto siano estinti tutti i rapporti che alla società facevano capo.
L’atto formale di cancellazione della società dal registro delle imprese ha solo funzione di pubblicità, ma non ne determina l’estinzione, ove non siano ancora esauriti tutti i rapporti giuridici facenti capo alla società stessa a seguito della procedura di liquidazione.
Ne consegue che, fino a tale momento, permane la legittimazione processuale in capo alla società che la esercita a mezzo del legale rappresentante, mentre deve escludersi che, intervenuta la cancellazione, il processo eventualmente già iniziato prosegua nei confronti delle persone fisiche che la rappresentavano in giudizio[90].
Poi sempre per la medesima Corte[91] in caso di cancellazione di una società di persone dal registro delle imprese, intervenuta nel corso di un giudizio iniziato nei confronti della società, singoli soci possono essere legittimati a proseguire il giudizio stesso solo se risulti che agiscano in qualità di soci abilitati a succedere nel processo alla società estinta e sempre che non risulti che la società, sciogliendosi e facendosi cancellare dal registro, abbia scelto di non coltivare il processo stesso
Per ultima sentenza della S.C. a sezioni Unite[92] qualora all’estinzione della società, conseguente alla sua cancellazione dal registro delle imprese, non corrisponda il venir meno di ogni rapporto giuridico facente capo alla società estinta, si determina un fenomeno di tipo successorio, in virtù del quale:
a) le obbligazioni si trasferiscono ai soci, i quali ne rispondono, nei limiti di quanto riscosso a seguito della liquidazione o illimitatamente, a seconda che essi fossero o meno illimitatamente responsabili per i debiti sociali;
b) si trasferiscono del pari ai soci, in regime di con titolarità o di comunione indivisa, i diritti ed i beni non compresi nel bilancio di liquidazione della società estinta, ma non anche le mere pretese, ancorché azionate o azionabili in giudizio, né i diritti di credito ancora incerti o illiquidi la cui inclusione in detto bilancio avrebbe richiesto una attività ulteriore (giudiziale o extragiudiziale) il cui mancato espletamento da parte del liquidatore consente di ritenere che la società vi abbia rinunciato.
La cancellazione volontaria dal registro delle imprese di una società, a partire dal momento in cui si verifica l’estinzione della società medesima, impedisce che essa possa ammissibilmente agire o essere convenuta in giudizio. Se l’estinzione della società cancellata dal registro intervenga in pendenza di un giudizio del quale la società è parte, si determina un evento interruttivo del processo, disciplinato dagli artt. 299 e segg. c.p.c., con possibile successiva eventuale prosecuzione o riassunzione del medesimo giudizio da parte o nei confronti dei soci.
Ove invece l’evento estintivo non sia stato fatto constare nei modi previsti dagli articoli appena citati o si sia verificato quando il farlo constare in quei modi non sarebbe più stato possibile, l’impugnazione della sentenza pronunciata nei riguardi della società deve provenire o essere indirizzata, a pena d’inammissibilità, dai soci o nei confronti dei soci succeduti alla società estinta.
riprendendo tali principi, ultima sentenza della S.C.
Corte di Cassazione, sezione III, sentenza n. 18923 dell’8 agosto 2013
ha formulato il seguente principio di diritto: la cancellazione della società dal registro delle imprese, a partire dal momento in cui si verifica l’estinzione della società cancellata, priva la società stessa della capacità di stare in giudizio (con la sola eccezione della fictio iuris contemplata dalla L. Fall., art. 10). Pertanto, qualora l’estinzione intervenga nella pendenza di un giudizio del quale la società è parte, si determina un evento interruttivo, disciplinato dall’art. 299 c.p.c. e segg., con eventuale prosecuzione o riassunzione da parte o nei confronti dei soci, successori della società, ai sensi dell’art. 110 cod. proc. civ.; qualora l’evento si sia verificato quando si sia definitivamente formato il titolo esecutivo giudiziale nei confronti della società, il titolo esecutivo contro quest’ultima ha efficacia contro i soci, ai sensi dell’art. 477 cod. proc. civ.. Nei confronti dei soci l’azione esecutiva può essere intrapresa, nei limiti di quanto riscosso a seguito della liquidazione o illimitatamente, a seconda che, pendente societate, fossero limitatamente o illimitatamente responsabili per i debiti sociali; nel caso di società in accomandita semplice cancellata dal registro delle imprese dopo la formazione del titolo esecutivo, l’azione esecutiva da parte del creditore sociale potrà essere direttamente intrapresa, sulla base del medesimo titolo, contro i soci accomandanti nei limiti della quota di liquidazione.
L) Lo scioglimento del singolo rapporto sociale
Si rinvia (aprire il seguente collegamento on-line Lo scioglimento del singolo rapporto nelle società semplici ) a quanto si è detto trattando l’argomento per la società semplice e la società in nome collettivo ricordando che anche nella società in accomandita semplice lo scioglimento del singolo rapporto sociale rappresenta un atto (recesso ed esclusione del socio) ovvero un fatto (morte) modificativo dell’atto costitutivo.
Sarà perciò necessaria la pubblicità prevista dall’art. 2300 c.c.
Ai fini processuali è sulle dinamiche del recesso si segnala quest’ultima pronuncia della S.C.
Corte di Cassazione, sezione sesta civile, ordinanza 11 settembre 2017, n. 21036
il recesso da una societa’ di persone e’ un atto unilaterale recettizio, e, pertanto, la liquidazione della quota non e’ una condizione sospensiva del medesimo, ma un effetto stabilito dalla legge, con la conseguenza che il socio, una volta comunicato il recesso alla societa’, perde lo “status socii” nonche’ il diritto agli utili, anche se non ha ancora ottenuto la liquidazione della quota”.
Come e’ noto infatti, trattandosi di una dichiarazione recettizia, a cui si rende applicabile l’articolo 1334 c.c., la dichiarazione di recesso del socio produce i suoi effetti nel momento in cui la volonta’ del socio di sciogliersi dal vincolo societario viene portata a conoscenza della societa’ (Cass., Sez. 1, 24/09/2009, n. 20544), di modo che a seguito di essa, il rapporto sociale si scioglie limitatamente alla posizione del recedente, che perde la qualifica di socio, cessa di essere obbligato in relazione alle future obbligazioni che dovessero gravare sulla societa’ (articolo 2290 c.c.) e diviene titolare nei confronti di questa di un diritto di credito alla liquidazione della quota (Cass., Sez. 1, 23/10/2001, n. 22574).
La circostanza, dunque, che per effetto della comunicazione di recesso il rapporto sociale tra il socio e la societa’ si sciolga hinc et inde e che si caduca percio’ a far tempo dalla sua conoscenza da parte della societa’ ogni vincolo nascente dal rapporto pregresso, con eccezione dei soli rapporti obbligatori sorti fino al giorno in cui si verifica lo scioglimento, rende inopponibili al recedente tutte le successive vicende che dovessero interessare la societa’, sicche’ sono conseguentemente irrilevanti nei suoi confronti, tra l’altro, i mutamenti che abbiano ad oggetto il suo assetto organizzativo e, segnatamente, il fatto che la societa’ originariamente di persone si trasformi, come qui e’ avvenuto, in una societa’ di capitali.
Rispetto a cio’ il socio receduto e’ un terzo estraneo o, piu’ esattamente, un creditore della societa’ risultante dalla trasformazione, a cui vengono infatti trasferiti in forza della mera mutazione formale che ha luogo all’esito del relativo procedimento, senza soluzione di continuita’, i crediti ed i debiti che la societa’ aveva contratto in precedenza.
Egli non e’ percio’ piu’ parte del rapporto societario che continua nella diversa forma scaturita dalla trasformazione e non gli sono per questo opponibili le clausole statutarie – e dunque anche la clausola compromissoria – che governano il funzionamento della societa’ nella mutata veste formale.
Pertanto, competente a conoscere della lite in questione sia quindi il giudice ordinario e non il collegio arbitrale previsto dallo statuto della societa’ trasformata.
In riferimento, poi, ad un caso particolare di esclusione la Cassazione
Corte di Cassazione, civile, Sentenza|27 luglio 2021| n. 21550
ha affermato che in tema di amministrazione nella società in accomandita semplice, per effetto della regola per cui l’amministratore non può che essere un socio accomandatario, l’eventuale esclusione di questi dalla società, non diversamente da qualsiasi altra causa di scioglimento del rapporto sociale a lui facente capo, ne comporta “ipso iure” anche la cessazione dalla carica di amministratore, mentre non è predicabile il contrario, ben potendo sussistere, in tale compagine, anche soci accomandatari che non siano amministratori, come desumibile dall’art. 2318 cod. civ.; ne consegue che le questioni dell’esclusione del socio e della revoca dell’amministratore per giusta causa restano distinte e non sovrapponibili, per disciplina legale e presupposti differenti, essendo l’eventuale revoca dalla carica di amministratore non incidente sulla qualità di socio dello stesso.
Infine, come da ultima Cassazione,
Corte di Cassazione, sezione prima civile, Ordinanza 19 febbraio 2020, n. 4260.
in ordine alla quantificazione della quota, nel caso di scioglimento del rapporto sociale limitatamente al socio la prova in ordine al valore della quota spettante al medesimo grava sulla società, disponendo essa delle fonti documentali contabili in base alle quali poter procedere alla determinazione della situazione patrimoniale utilizzabile a questo fine. Ne consegue che, ove il rapporto sociale si estingua nei confronti di un socio, è compito degli amministratori, in ciò obbligati dal combinato disposto degli artt. 2261 e 2289 cod. civ., quello di rendere il conto della gestione al fine di consentire la formazione, in nome e per conto della società, di una situazione patrimoniale straordinaria aggiornata ai fini dell’assolvimento dell’onere della società di provare il valore della quota.
La valutazione della quota del socio d’opera uscente da una società di persone, pur se sia da effettuarsi con metodo equitativo, non può prescindere dalla redazione della situazione patrimoniale della società al momento dello scioglimento del rapporto tra il socio e la società. Inoltre, l’onere di provare il valore della quota del socio uscente incombe agli amministratori della società.
M) Morte del Socio
In generale, nelle società di persone (società semplice, società in nome collettivo, società in accomandita semplice) la morte del socio determina, in primis, lo scioglimento del rapporto sociale tra il socio deceduto e la società, la quale, pertanto, in via di principio continua tra i soci superstiti, con l’obbligo da parte della società di liquidare entro 6 mesi la quota agli eredi (art. 2284 c.c.).
Si rinvia al seguente collegamento on-line Gli effetti in virtù della morte del socio nelle società semplici e le clausole di continuazione
Nella società in accomandita semplice, soltanto la quota di partecipazione del socio accomandante è trasmissibile per causa di morte, ai sensi dell’art. 2322 c.c., mentre in caso di morte del socio accomandatario trova applicazione l’art. 2284 c.c., in virtù del quale gli eredi non subentrano nella posizione del defunto nell’ambito della società, e non assumono quindi la qualità di soci accomandatari a titolo di successione mortis causa, ma hanno diritto soltanto alla liquidazione della quota del loro dante causa, salvo diverso accordo con gli altri soci in ordine alla continuazione della società, e fermo restando che in tal caso l’acquisto della qualifica di socio accomandatario non deriva dalla posizione di erede del socio accomandatario defunto, ma dal contenuto del predetto accordo[93].
art. 2322 c.c. trasferimento della quota
la quota di partecipazione del socio accomandante è trasmissibile per causa di morte.
Salvo diversa disposizione dell’atto costitutivo, la quota può essere ceduta, con effetto verso la società, con il consenso dei soci che rappresentano la maggioranza del capitale.
Secondo una recente sentenza di merito[94] nella società in accomandita semplice è trasmissibile per causa di morte la sola quota di partecipazione del socio accomadante, ex art. 2322 c.c., mentre, in applicazione del dettato di cui all’art. 2284 c.c., gli eredi non subentrano nella posizione del defunto socio accomandatario, evento questo che produce come effetto ex lege lo scioglimento del rapporto tra tale socio e la società, con conseguente obbligo per i soci superstiti di liquidare la quota del defunto ai suoi eredi nel termine di sei mesi.
A questi ultimi residua, pertanto, unicamente un diritto alla liquidazione della quota del loro dante causa, fatto salvo diverso accordo con i soci ulteriori della medesima società in accomandita semplice circa la continuazione della società, nel qual caso essi possono acquistare la qualifica di socio accomandatario solo in forza del menzionato accordo e giammai in quanto eredi.
Quanto all’incidenza della morte di un accomandatario sulla posizione dei soci superstiti, ai quali non può essere imposta la presenza degli eredi del defunto, deve rilevarsi che questi possono decidere per lo scioglimento anticipato della società, nel qual caso verrà meno il diritto degli eredi alla liquidazione della quota nel termine anzidetto, dovendo attendere il termine delle relative operazioni, ovvero per la continuazione della compagine societaria con gli eredi del socio defunto, previo consenso di tutti i soci superstiti e di tutti gli eredi che in tal modo diventerebbero soci per atto tra vivi e non iure successionis. (Avuto riguardo al caso specifico, non avendo i soci superstiti optato per lo scioglimento della società, né per la prosecuzione della stessa con gli eredi del socio accomandatario deceduto, essi erano tenuti alla liquidazione della quota agli eredi, il cui diritto all’attualità risulta, tuttavia, prescritto).
E’ importante sottolineare che come nella società in nome collettivo anche nella società in accomandita semplice lo scioglimento del singolo rapporto sociale rappresenta un atto (recesso ed esclusione del socio) ovvero un fatto (morte) modificativo dell’atto costitutivo. Sarà perciò necessaria la pubblicità prevista dall’art. 2300 c.c.
art. 2300 c.c. (obblighi peculiari agli amministratori della società in nome collettivo) modificazioni dell’atto costitutivo
gli amministratori devono richiedere nel termine di trenta giorni all’ufficio del registro delle imprese (att. 99 e seguenti), l’iscrizione delle modificazioni dell’atto costitutivo e degli altri fatti relativi alla società, dei quali è obbligatoria l’iscrizione (2626).
Se la modificazione dell’atto costitutivo risulta da deliberazione dei soci, questa deve essere depositata in copia autentica (2626, 2703).
Le modificazioni dell’atto costitutivo, finché non sono iscritte, non sono opponibili ai terzi, a meno che si provi che questi ne erano a conoscenza (2193; att. 211).
art. 2323 c.c. cause di scioglimento
la società si scioglie, oltre che per le cause previste nell’art. 2308 (2322), quando rimangono soltanto soci accomandanti o soci accomandatari, sempreché nel termine di sei mesi non sia stato sostituito il socio che è venuto meno (2711).
Se vengono a mancare tutti gli accomandatari, per il periodo indicato dal comma precedente gli accomandanti nominano un amministratore provvisorio per il compimento degli atti di ordinaria amministrazione. L’amministratore provvisorio non assume la qualità di socio accomandatario.
art. 2324 c.c. diritti dei creditori sociali dopo la liquidazione
salvo il diritto previsto dal secondo comma dell’art. 2312 nei confronti degli accomandatari e dei liquidatori, i creditori sociali che non sono stati soddisfatti nella liquidazione della società possono far valere i loro crediti anche nei confronti degli accomandanti, limitatamente alla quota di liquidazione
Leave a Reply