Recesso ed esclusione nelle società semplici
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A) Introduzione
Il rapporto di società può sciogliersi rispetto ad uno soltanto dei soci e persistere per gli altri.
L’istituto in esame viene ricondotto alla figura generale di recesso prevista dall’art. 1373 2 co, però, viene precisato dalla dottrina che soltanto l’ipotesi prevista al primo comma dell’art. 2285 è ricondotta alla figura generale prevista dall’art. 1373.
art. 1373 c.c. recesso unilaterale: se a una delle parti è attribuita la facoltà di recedere dal contratto, tale facoltà può essere esercitata finché il contratto non abbia avuto un principio di esecuzione.
Nei contratti a esecuzione continuata o periodica , tale facoltà può essere esercitata anche successivamente, ma il recesso non ha effetto per le prestazioni già eseguite o in corso di esecuzione.
Qualora sia stata stipulata la prestazione di un corrispettivo per il recesso, questo ha effetto quando la prestazione è eseguita.
E’ salvo in ogni caso il patto contrario.
Infatti, il contratto di società è un contratto plurilaterale ed il venir meno del vincolo particolare di uno dei soci non provoca lo scioglimento della società, salvo che la partecipazione di questo debba, secondo le circostanze (si pensi al caso di un socio d’opera, famoso chirurgo, all’interno di una società sanitaria, oppure al caso di un socio che si è obbligato a conferire un macchinario fondamentale nello svolgimento dell’attività suddetta), considerarsi essenziale per il raggiungimento dell’oggetto sociale, in questo caso, ex art. 2272 , n. 2, il contratto sociale si scioglierà essendo, il rapporto, strumentale rispetto al raggiungimento dello scopo sociale.
Per la S.C.[1], inoltre, la volontà del socio di recedere dalla società per giusta causa ai sensi dell’art. 2285 c.c. determina lo scioglimento del singolo rapporto sociale, con il conseguente diritto alla liquidazione della quota a favore del socio uscente, che risponde soltanto dei debiti sociali già sorti.
Pertanto, contrariamente a quanto avviene nei contratti a prestazioni corrispettive in relazione alla risoluzione per mutuo dissenso, la dichiarazione di recesso dal contratto di società (in cui i contraenti perseguono uno scopo comune), non può costituire adesione o consenso allo scioglimento della società, proposta, ai sensi dell’art. 2272 lett. c) c.c., dagli altri soci, in quanto l’accordo sullo scioglimento della società ha contenuto ed effetti diversi, dando luogo alla liquidazione della medesima, con differimento del soddisfacimento del diritto sulla quota all’esito dell’integrale estinzione dei debiti sociali esistenti.
Infine, è bene anche sottolineare alcuni profili processuali in merito alla legittimazione passiva nel caso di opposizione in forza di alcune pronunce della Corte di Legittimità.
Secondo un primo orientamento[2], più restrittivo, nelle società di persone lo scioglimento del vincolo sociale limitatamente ad un socio opera una modificazione della struttura del rapporto sociale nella quale viene in primo piano la persona del socio, con la conseguenza che, nelle controversie relative, sia nel caso di esclusione del socio sia in quello di recesso, la legittimazione passiva spetta a tutti gli altri soci, ai quali lo scioglimento del rapporto rispetto ai soci recedenti impone direttamente il pagamento del valore della quota loro spettante.
Mentre per altro orientamento della stessa Corte[3] l’opposizione del socio di una società di persone, avverso la delibera di esclusione (art. 2287 cod. civ.), va proposta nei confronti della società, in persona del legale rappresentante, ovvero, in via equipollente, nei confronti di tutti gli altri soci, la cui presenza in giudizio configura presenza della società, difettando questa di distinta personalità. Pertanto, ove detta domanda sia stata proposta tanto nei confronti della società, quanto nei confronti degli altri soci, l’estromissione dal giudizio della società, disposta dal giudice di primo grado, non incide sull’integrità del contraddittorio, né può far insorgere necessità di integrazione del medesimo in sede di gravame, a norma dell’art. 331 cod. proc civ.
Ultimo orientamento[4] si allinea al precedente con la previsione secondo cui nel giudizio di opposizione avverso l’espulsione del socio di una società di persone, la legittimazione passiva compete esclusivamente alla società, anche se è consentita, come modalità equipollente d’instaurazione del contraddittorio, la citazione di tutti i soci, notificata nel termine di decadenza previsto dall’art. 2287 c.c. Ne consegue che la citazione tempestiva soltanto ad alcuni dei soci non impedisce la decadenza dell’azione, non essendo ravvisabile un’ipotesi di litisconsorzio necessario.
Senza poi dimenticare, anche in forza di ultimissima pronuncia (Corte di Cassazione, Sezione Tributaria civile Ordinanza 3 agosto 2012, n. 14002), la perdita della qualita’ di socio nella societa’ di persone (in conseguenza di recesso, esclusione, cessione della partecipazione) integrando modificazione dell’atto costitutivo della societa’ (cfr. per la societa’ in nome collettivo: articolo 2295 c.c.), e’ soggetta ad iscrizione nel registro delle imprese a pena di inopponibilità ai terzi, a meno che si provi che questi ne fossero a conoscenza (articolo 2300 c.c.). Tale regime, applicabile alle societa’ in accomandita in forza del richiamo di cui all’articolo 2315 c.c. in forza del quale il socio di una societa’ illimitatamente responsabile che (anteriore) in cui il terzo sia venuto a conoscenza della medesima, e’ di generale applicazione, non riscontrandosi alcuna disposizione di legge che ne circoscriva la portata al campo delle obbligazioni di origine negoziale con esclusione di quelle che trovano la loro fonte nella legge, quale, nella specie, l’obbligazione di versamento dell’IVA (cfr. Cass. n. 20447 del 2011; n. 2215 del 2006, in riferimento alle obbligazioni sociali sorte dopo la cessione della quota, da parte del socio illimitatamente responsabile, con la precisazione che l’adempimento dell’onere pubblicitario, quale fatto impeditivo di tale responsabilita’, deve essere allegato e provato dal socio che opponga la cessione).
B) I caratteri del recesso
A) è un diritto potestativo, esercitato nelle ipotesi previste dalla legge o dal contratto;
B) è un diritto personale:
1) sia nel senso che non può venire esercitato in via surrogatoria dai creditori del socio;
2) sia nel senso che il suo esercizio non può essere subordinato alla preventiva autorizzazione degli altri soci;
C) è un diritto indivisibile, investe l’intero vincolo;
D) integra una dichiarazione di volontà, oltre che unilaterale, recettizia;
Riguardo alla recettizietà, applicabile anche ai casi previsti dal secondo comma dell’art. 2285, in dottrina è sorta una questione a quali soggetti deve essere indirizzata, ovvero soltanto alla società, o a tutti i soci?
La dottrina è incerta nel dare una risposta, e in tale incertezza, secondo una parte della dottrina[5] è preferibile, in assenza di pronunce giurisprudenziali, comunicare il recesso sia alla società che a tutti i soci.
E) forma libera, pertanto, è ammessa la forma orale ed anche la forma tacita (il comportamento concludente);
1) secondo una lontana pronuncia giurisprudenziale[6] è ammissibile un comportamento concludente (es il socio non partecipa più alle assemblee) come forma di comunicazione;
2) invece, secondo un’autorevole opinione[7] è inammissibile, poiché determina un’incertezza assoluta, in quanto il silenzio, se non in alcuni casi quando è espressamente previsto, non assume alcuna forma di manifestazione.
C) Il recesso del singolo socio
Implica la risoluzione, nei confronti del socio recedente, del rapporto sociale, con efficacia solo per l’avvenire (ex nunc) a seguito di una volontà unilaterale del recedente stesso.
art. 2285 c.c. recesso del socio:
ogni socio può recedere dalla società quando
1) questa è contratta a tempo indeterminato o
2) per tutta la vita di un socio:
2 co – Può inoltre recedere
3) nei casi previsti nel contratto sociale (c.d. recesso convenzionale efficacia immediata) ovvero
4) quando sussiste una giusta causa (2900). (efficacia immediata)
Nei casi previsti nel primo comma il recesso deve essere comunicato agli altri soci con un preavviso di almeno tre mesi.
La summo divisio
A) il recesso a causa del tempo durevole (temporale)
La ratio[8] – l’ordinamento ripugna l’obbligo, di qualsiasi natura, che dura per un tempo particolarmente lungo (perpetuamente); nessuno può essere vincolato all’infinito.
1) questa è contratta a tempo indeterminato o
2) per tutta la vita di un socio:
B) il recesso per giusta causa
La ratio[9] – tutela del diritto c.d. di exit ovvero è tutelato quel diritto alla risoluzione la quale è un rimedio concesso ai contraenti al fine di sciogliere retroattivamente il vincolo contrattuale in alcune ipotesi nelle quali, ad opera di circostanze estranee e sopravvenute (causate dal comportamento delle parti o da eventi non imputabili, né prevedibili), non funziona più il sinallagma, vale a dire la corrispettività tra le due prestazione.
Valutazione della giusta causa– da ultimo a mente di una pronuncia di merito[10] in tema di società di persone, l’indagine concernente l’esistenza di una giusta causa di recesso (art. 2285 c.c.) deve necessariamente essere ricondotta alla altrui violazione di obblighi contrattuali, ovvero alla violazione dei doveri di fedeltà, lealtà, diligenza o correttezza inerenti alla natura fiduciaria del rapporto sottostante.
In senso conforme, la S.C.[11] ha affermato che vedi, la quale dal principio evince che il recesso del socio di una società di persone può ritenersi determinato da giusta causa solo quando esso costituisca legittima reazione ad un comportamento degli altri soci obiettivamente, ragionevolmente ed irreparabilmente pregiudizievole del rapporto fiduciario esistente tra le parti del rapporto societario.
In altre parole è la violazione degli obblighi di correttezza lealtà e fedeltà tale da far cadere quel rapporto fiduciario con gli altri soci e il recesso costituisce la reazione legittima ad un comportamento oggettivamente, ragionevolmente e definitivamente pregiudizievole del rapporto societario.
I casi
Per la dottrina e la giurisprudenza ipotesi di giusta causa sono:
1) dissidio insanabile tra i soci[12];
2) la perdita di una parte notevole dei conferimenti;
3) negli abusi o nella trascuratezza degli amministratori;
4) condotta immorale dei soci;
5) Omissione di ogni collaborazione nella conduzione dell’impresa; per il Tribunale Milanese[13] la condotta dei soci di una società di persone consistente nella omissione di ogni collaborazione nella conduzione dell’impresa sociale è gravemente contraria ai patti sociali e, come tale, legittimante l’esclusione dei soci inadempienti.
6) L’aggressione in danno di uno dei soci; secondo la Corte territoriale Fiorentina[14] costituisce una violazione dei doveri di correttezza inerenti al rapporto societario, come tale idonea a ledere il vincolo fiduciario che necessariamente deve sussistere tra i partecipanti al contratto di società, in special modo qualora la compagine sociale, nel cui ambito l’accadimento si verifichi, sia particolarmente ridotta (nella specie, una società di persone composta da tre soli soci) e la natura dell’attività svolta sia sostanzialmente artigianale; in presenza di siffatti presupposti il verificarsi di un simile episodio integra, pertanto, per il socio aggredito, una giusta causa di recesso ex art. 2285 c.c., con il conseguente diritto di costui alla liquidazione della propria quota.
7) occultamento degli utili, ovvero la non distribuzione di utili deliberati;
8) la violazione di rendere il conto nonostante ripetuti sollecitamenti da parte dei soci;
9) irregolare tenuta dei libri contabili, fiscali e civilistici.
10) Inadempimenti alle obbligazioni derivanti dal contratto sociale; per il tribunale milanese[15] in tema di società di persone, sussiste giusta causa di recesso ai sensi dell’art. 2285 c. c., quando quest’ultimo rappresenti reazione a inadempimenti alle obbligazioni derivanti dal contratto sociale posti in essere dagli altri soci ovvero comunque a comportamenti degli altri soci oggettivamente apprezzabili come incrinanti il rapporto fiduciario sotteso al vincolo sociale, non essendo invece idoneo a giustificare il recesso il mero disaccordo tra i soci, in particolare sulla necessità e sulle modalità di scioglimento della compagine, disaccordo che può semmai acquistare rilevanza in quanto determinante lo scioglimento dell’intera compagine ai sensi dell’art. 2272, n. 2, c. c.
11) Trasformazione della società qualora sia previsto nello statuto; ragionando a contrario in riferimento ad una pronuncia di merito[16] dove si è stabilito che nel caso di trasformazione di una società di persone in una società di capitali (nel caso di specie, s.n.c. trasformatasi in s.r.l.) non sussiste, nel silenzio dello statuto sociale, una giusta causa di recesso del socio.
La comunicazione del recesso
Deve essere motivata perché la società ha il diritto di contestarla davanti al tribunale e in caso di sentenza, avendo tale recesso effetti immediati, quest’ultima avrà efficacia dichiarativa, con effetti ex tunc.
Nel caso in cui concorrano due o più cause di scioglimento del rapporto sociale limitatamente ad un socio (nel caso in esame, concorso tra recesso ed esclusione) deve ritenersi operante quella che si è verificata in data anteriore.
C) il recesso convenzionale
Sono quelle ipotesi previsti espressamente dal contratto sociale.
Per la Corte di Piazza Cavour[17] la disposizione del secondo comma dell’art. 2285 cod. civ., relativa ai recessi dalle società a tempo indeterminato, non contiene alcun precetto cogente che escluda la possibilità di regolare con gli statuti, nell’autonomia che l’ordinamento giuridico riconosce agli enti sociali, le modalità e le condizioni per l’esercizio della facoltà di recesso.
Secondo una autore[18] sono clausole valide quelle che prevedono:
A) il recesso da parte dei soci nei casi in cui i bilanci si chiudono in passivo;
B) il recesso per i soci dissenzienti, nelle ipotesi di decisioni prese a maggioranza;
C) il recesso per i soci nel caso in cui si decide il trasferimento della sede o dell’unità produttive;
D) il recesso per i soci nel caso del raggiungimento di una certa età;
E) il recesso per i soci nel caso di assunzioni di cariche particolari;
F) il recesso per i soci alla scadenza di certe autorizzazioni amministrative.
È discussa in dottrina l’ipotesi del recesso convenzionale ad nutum, ovvero esercitatile senza far riferimento ad una causa predeterminata:
1) sempre per il medesimo autore[19] per è inammissibile poiché mina il rapporto fiduciario e per certi versi la natura del contratto sociale che ha la caratteristica di essere un contratto di durata;
2) invece, per altri autori[20], tale clausola è ammissibile, poiché nelle società di persone, a differenza di quelle di capitali, non vi sono ragioni per tutelare l’integrità del capitale sociale.
Secondo la dottrina[21] il termine previsto al terzo comma dell’art. 2285 (< Nei casi previsti nel primo comma il recesso deve essere comunicato agli altri soci con un preavviso di almeno tre mesi >) può essere modificato convenzionalmente soltanto nel senso di ampliarlo e non di restringerlo poiché s’incide sul diritto di difesa degli altri soci e soprattutto si andrebbe a limitare la possibilità di valutare la giusta causa.
È discussa soprattutto in dottrina la possibilità di applicare, in via analogica, o meno la revoca del recesso prevista dall’art. 2437 al 3 co, ovvero la possibilità per la società di inibire il diritto all’exit (di renderlo inefficace) se entro 90 giorni revochi la delibera (rectius la decisione) che ha legittimato il socio ad esercitare il recesso.
Secondo una teoria[22], essendo il sistema societario unico, tale disciplina è applicabile analogicamente.
La pubblicità del recesso
Essendo il recesso una modifica dei patti sociali è necessaria la richiesta da parte degli amministratori nel termine di 30 giorni all’ufficio del registro delle imprese l’iscrizione delle modificazioni dell’atto ex art. 2300 c.c..
Difatti per il Tribunale meneghino[23] il recesso dalla compagine societaria di un socio illimitatamente responsabile inizia a produrre effetti solo allorquando l’atto è reso conoscibile a terzi, quindi dall’iscrizione nel registro delle imprese. Non può, pertanto, essere affermato il principio per cui il venir meno della qualità di imprenditore, anche nella veste di socio amministratore di società, è un atto che produce erga omnes effetti, se resta conosciuto esclusivamente dalle persone che ne sono direttamente interessate. Tale interpretazione, infatti, impedirebbe di fatto ai terzi in buona fede, e tra essi i creditori, di contestare l’efficacia dell’atto ovvero di agire per la tutela dei propri diritti.
È sorto un problema riguardo alla legittimazione per i soci a promuovere tale pubblicità nel caso di omissione da parte degli amministratori.
L’art. 2330 c.c. a differenza dell’art. 2296 2 co c.c. (Pubblicazione dell’atto costitutivo) non prevede la possibilità per i soci di provvedere al deposito della decisione in merito al recesso di un socio.
Questo vacatio legislativa è giustificata, secondo un autore[24], dal fatto che la vicenda modificativa realizza un interesse esclusivo della società, a differenza di quella costitutiva che, invece, realizza un interesse congiunto dei soci e della società.
Per altra teoria[25] tale ratio è criticabile, poiché è previsto un principio generale di sostituzione, nell’ambito dell’ordinamento pubblicitario (confermato da una sentenza della Cassazione la n. 2812 del 2002) a favore dei soggetti che un hanno un determinato interesse alla pubblicità di un atto.
Allorquando un socio di una società composta da due soli soci receda dalla società adducendo una giusta causa e sulla legittimità o meno del recesso sorga controversia tra i due soci, secondo la S.C.[26] il giudice del merito, con accertamento di fatto, come tale insuscettibile di sindacato in sede di legittimità se congruamente e correttamente motivato, è tenuto a verificare l’esistenza o meno della giusta causa e ad adottare i provvedimenti conseguenti all’esito dell’accertamento svolto. Ove, poi, a giustificazione del recesso venga addotto un insanabile dissidio imputabile all’altro socio, l’accertamento dell’imputabilità o meno del dissidio, e conseguentemente della sussistenza o meno di una giusta causa di recesso, non può ritenersi precluso, giacché il dissidio insanabile tra soci non può costituire di per sé causa di scioglimento della società. Deve comunque escludersi che, nell’una e nell’altra situazione, il giudice del merito possa ritenere irrilevanti gli accertamenti inerenti alla sussistenza della dedotta giusta causa di recesso ovvero all’idoneità del dissidio a rendere impossibile il perseguimento dei fini sociali.
Infine, ai fini prettamente procedurali, è bene riportare anche la massima della Corte nomofilattica[27] secondo la quale nella società semplice la dichiarazione di recesso per giusta causa del socio (art. 2285 c.c.) può essere contenuta nell’atto di citazione con il quale viene instaurata la lite tendente alla liquidazione della quota sociale appartenente al recedente. In tal caso il giudice (il cui accertamento sfugge al controllo della Corte di legittimità, se congruamente e logicamente motivato) deve prima valutare l’efficacia della predetta dichiarazione e poi la sussistenza della giusta causa di recesso (ricondotta alla violazione degli obblighi contrattuali e di fedeltà, diligenza e correttezza incidenti sulla natura fiduciaria del rapporto). Tale valutazione – che deve investire la dichiarazione di recesso così come formulata e motivata dal socio recedente, a nulla rilevando che questi deduca e chieda di provare, in corso di giudizio, fatti e circostanze precedentemente non dedotti che, solo in astratto, potrebbero integrare una giusta causa di recesso – deve avere ad oggetto l’atto di citazione nella sua complessità, individuando i limiti ed il contenuto della dichiarazione attraverso un`interpretazione che tenga conto di tutte le parti di cui l’atto stesso si componga e giunga all’identificazione della concreta volontà del dichiarante.
Ai fini processuali è sulle dinamiche del recesso si segnala quest’ultima pronuncia della S.C.
Corte di Cassazione, sezione sesta civile, ordinanza 11 settembre 2017, n. 21036
il recesso da una societa’ di persone e’ un atto unilaterale recettizio, e, pertanto, la liquidazione della quota non e’ una condizione sospensiva del medesimo, ma un effetto stabilito dalla legge, con la conseguenza che il socio, una volta comunicato il recesso alla societa’, perde lo “status socii” nonche’ il diritto agli utili, anche se non ha ancora ottenuto la liquidazione della quota”.
Come e’ noto infatti, trattandosi di una dichiarazione recettizia, a cui si rende applicabile l’articolo 1334 c.c., la dichiarazione di recesso del socio produce i suoi effetti nel momento in cui la volonta’ del socio di sciogliersi dal vincolo societario viene portata a conoscenza della societa’ (Cass., Sez. 1, 24/09/2009, n. 20544), di modo che a seguito di essa, il rapporto sociale si scioglie limitatamente alla posizione del recedente, che perde la qualifica di socio, cessa di essere obbligato in relazione alle future obbligazioni che dovessero gravare sulla societa’ (articolo 2290 c.c.) e diviene titolare nei confronti di questa di un diritto di credito alla liquidazione della quota (Cass., Sez. 1, 23/10/2001, n. 22574).
La circostanza, dunque, che per effetto della comunicazione di recesso il rapporto sociale tra il socio e la societa’ si sciolga hinc et inde e che si caduca percio’ a far tempo dalla sua conoscenza da parte della societa’ ogni vincolo nascente dal rapporto pregresso, con eccezione dei soli rapporti obbligatori sorti fino al giorno in cui si verifica lo scioglimento, rende inopponibili al recedente tutte le successive vicende che dovessero interessare la societa’, sicche’ sono conseguentemente irrilevanti nei suoi confronti, tra l’altro, i mutamenti che abbiano ad oggetto il suo assetto organizzativo e, segnatamente, il fatto che la societa’ originariamente di persone si trasformi, come qui e’ avvenuto, in una societa’ di capitali.
Rispetto a cio’ il socio receduto e’ un terzo estraneo o, piu’ esattamente, un creditore della societa’ risultante dalla trasformazione, a cui vengono infatti trasferiti in forza della mera mutazione formale che ha luogo all’esito del relativo procedimento, senza soluzione di continuita’, i crediti ed i debiti che la societa’ aveva contratto in precedenza.
Egli non e’ percio’ piu’ parte del rapporto societario che continua nella diversa forma scaturita dalla trasformazione e non gli sono per questo opponibili le clausole statutarie – e dunque anche la clausola compromissoria – che governano il funzionamento della societa’ nella mutata veste formale.
Pertanto, competente a conoscere della lite in questione sia quindi il giudice ordinario e non il collegio arbitrale previsto dallo statuto della societa’ trasformata
Infine, come da ultima Cassazione,
Corte di Cassazione, sezione prima civile, Ordinanza 19 febbraio 2020, n. 4260.
in ordine alla quantificazione della quota, nel caso di scioglimento del rapporto sociale limitatamente al socio la prova in ordine al valore della quota spettante al medesimo grava sulla società, disponendo essa delle fonti documentali contabili in base alle quali poter procedere alla determinazione della situazione patrimoniale utilizzabile a questo fine. Ne consegue che, ove il rapporto sociale si estingua nei confronti di un socio, è compito degli amministratori, in ciò obbligati dal combinato disposto degli artt. 2261 e 2289 cod. civ., quello di rendere il conto della gestione al fine di consentire la formazione, in nome e per conto della società, di una situazione patrimoniale straordinaria aggiornata ai fini dell’assolvimento dell’onere della società di provare il valore della quota.
La valutazione della quota del socio d’opera uscente da una società di persone, pur se sia da effettuarsi con metodo equitativo, non può prescindere dalla redazione della situazione patrimoniale della società al momento dello scioglimento del rapporto tra il socio e la società. Inoltre, l’onere di provare il valore della quota del socio uscente incombe agli amministratori della società.
D)L’esclusione
Produce la risoluzione del rapporto sociale nei riguardi del socio escluso, ma, al contrario del recesso, non avviene per volontà del socio, ma per deliberazione degli altri soci
art. 2286 c.c. esclusione: l’esclusione di un socio può avere luogo (Cause di esclusione c.d. facoltative)
1) per gravi inadempienze delle obbligazioni che derivano dalla legge o dal contratto sociale (2301, 2320), nonché
2) per l’interdizione, l’inabilitazione del socio (414 e seguente, att. 208) o per la sua condanna ad una pena che importa l’interdizione, anche temporanea, dai pubblici uffici.
3) 2 co – Il socio che ha conferito nella società la propria opera o il godimento di una cosa può altresì essere escluso per la sopravvenuta inidoneità a svolgere l’opera conferita o per il perimento della cosa dovuto a causa non imputabile agli amministratori[28].
4) 3 co – Parimenti può essere escluso il socio che si è obbligato con il conferimento a trasferire la proprietà di una cosa, se questa è perita prima che la proprietà sia acquistata dalla società (1465, att. 208).
art. 2287 c.c. procedimento di esclusione : l’esclusione è deliberata dalla maggioranza (eccezione al principio dell’unanimità) dei soci, non computandosi nel numero di questi il socio da escludere, ed ha effetto decorsi trenta giorni[29] dalla data della comunicazione al socio escluso.
Entro questo termine (2964) il socio escluso può fare opposizione davanti al tribunale, il quale può sospendere l’esecuzione.
Se la società si compone di due soci, l’esclusione di uno di essi è pronunciata dal tribunale, su domanda dell’altro (la c.d. esclusione giudiziaria)[30].
Per la Corte di Piazza Cavour[31] in tema di società di persone, il ricorso all’autorità giudiziaria per ottenere una pronuncia di esclusione del socio è ammissibile, a norma dell’art. 2287 terzo comma, c.c., nel solo caso in cui la società sia composta soltanto da due soci, mentre in ogni altro caso trova applicazione l’art. 2287 primo comma, c.c., ai sensi del quale l’esclusione del socio può essere deliberata a maggioranza, senza che assuma alcun rilievo la circostanza che all’interno della compagine sociale siano eventualmente configurabili due gruppi di interesse omogenei e tra loro contrapposti, e che l’esclusione possa in tal caso rivelarsi impossibile, in virtù del conflitto d’interessi che impedisce di computare nella maggioranza il socio da escludere: la posizione del socio che non possa avvalersi né del procedimento di cui primo comma, né del ricorso all’autorità giudiziaria, ai sensi del terzo comma, non resta infatti priva di tutela, essendo sempre possibile il recesso per giusta causa, ai sensi dell’art. 2285 secondo comma, cod. civ., il quale rappresenta una forma di tutela reputata adeguata dal legislatore, senza che possa al riguardo prospettarsi alcun dubbio di legittimità costituzionale, in riferimento agli artt. 3 e 24 Cost.
È bene anche sottolineare, in virtù anche di molte pronunce[32], che il cumulo delle qualifiche di socio e di amministratore non impedisce che le irregolarità o le illiceità commesse dall’amministratore determinino non solo la revoca del mandato e l’esercizio dell’azione di responsabilità, ma anche l’esclusione da socio per violazione dei doveri previsti dallo statuto a tutela delle finalità e degli interessi dell’ente.
Sempre per la medesima Corte[33] in merito alla S.a.s., in virtù del rinvio dell’art. 2315 c.c. alla disciplina delle società in nome collettivo, e, per il tramite dell’art. 2293 c.c., anche a quella delle società semplici, sono applicabili gli artt. 2286 e 2287 c.c., i quali prevedono che, in caso di gravi inadempienze del socio, l’esclusione dello stesso è deliberata dalla maggioranza dei soci, non computandosi nel relativo numero il socio da escludere. Tale disciplina, è applicabile anche all’esclusione del socio accomandatario, indipendentemente dai riflessi che può avere sull’amministrazione della società, in quanto le norme richiamate nulla hanno a che fare con la disciplina della revoca per giusta causa dalla carica di amministratore, non incidente sul perdurare del rapporto sociale, dettata dall’art. 2319 c.c. Infatti, se è vero che amministratori di una società in accomandita possono essere solo i soci accomandatari, è altrettanto vero che non necessariamente l’accomandatario è anche amministratore (art. 2318 c.c.). Ne consegue che revoca del socio e revoca degli amministratori sono provvedimenti non comparabili, per effetti e presupposti, ai fini del giudizio costituzionale di ragionevolezza delle differenti discipline. Inoltre, una volta ammessa l’applicabilità dell’art. 2287 c.c. all’esclusione dell’accomandatario, ne deriva che, spirato il termine di trenta giorni stabilito a pena di decadenza per opporsi all’esclusione, gli eventuali vizi del provvedimento non possono essere più dedotti dal socio o rilevati dal giudice.
Il fondamento giuridico
A) Per alcuni autori[34] tale esclusione ha la natura di una sanzione privata a carattere disciplinare la quale sembrerebbe presupporre un interesse pubblicistico;
B) per la dottrina prevalente[35] tale fondamento è ricondotto all’istituto generale della risoluzione è più precisamente alla risoluzione per inadempimento (nelle ipotesi di gravi inadempienze ex 2286 1 co) ovvero alla risoluzione per impossibilità sopravvenuta della prestazione (per le ipotesi previste nei casi d’interdizione, inabilitazione o per la sua condanna ad una pena che importa l’interdizione, anche temporanea, dai pubblici uffici);
C) per una dottrina autorevole[36] è preferibile la teoria eclettica perché in realtà il fondamento dell’esclusione si trova sia nell’elemento contrattuale che in quello organizzativo;
D) secondo una terza tesi[37] la disciplina dell’esclusione è una risoluzione tipica delle società e se i casi non sono espressamente previsti si potrebbe ricorrere alla disciplina generale in tema di risoluzione soltanto in via analogica.
E) Per la Corte di Piazza Cavour[38] nelle società di persone, le norme sull’esclusione del socio “per gravi inadempienze”, di cui agli artt. 2286 e 2287 c.c., hanno carattere speciale e sostituiscono quelle generali sulla risoluzione per inadempimento dei contratti con prestazioni corrispettive, di cui agli artt. 1453 e segg. c.c., le quali ultime non sono applicabili al contratto di società sia per la mancanza di interessi contrapposti tra il socio e l’ente sociale, sia per le diverse finalità cui esse sono preposte. Infatti, la risoluzione mette nel nulla il rapporto contrattuale nei confronti della parte inadempiente, con gli effetti restitutori di cui all’art. 1458 c.c., e, nel caso le parti in contratto siano soltanto due, elimina del tutto il rapporto con i reciproci obblighi restitutori delle parti di cui alla citata disposizione di legge; l’esclusione del socio comporta, invece, soltanto lo scioglimento del vincolo sociale limitatamente al socio inadempiente, con il diritto di quest’ultimo esclusivamente ad una somma di danaro che rappresenti il valore della quota, ma non anche, di per sè, lo scioglimento della società, neppure nel caso in cui i soci siano soltanto due, perchè, in tale ipotesi, la società si scioglie solo se, nel termine di sei mesi, non venga ripristinata la pluralità di soci.
Per quanto riguarda l’ipotesi prevista al 1 co dell’art 2286 < per gravi inadempienze delle obbligazioni che derivano dalla legge o dal contratto sociale > il carattere della gravità, in base alla disciplina generale, si rileva in base sia all’interesse del creditore che al mancato o la resa particolarmente difficile del raggiungimento dello scopo sociale[39].
Sul tema specifico della valutazione è intervenuto anche il Tribunale della Mole secondo il quale la delibera di esclusione deve contenere una specifica enunciazione dei fatti addebitati a sostegno dell’esclusione, al fine di rendere possibile al socio escluso la difesa davanti al giudice, e nel giudizio di opposizione all’esclusione ex art. 2287 c.c. non si può tener conto di motivi di esclusione diversi da quelli enunciati nella delibera a maggioranza dei soci[40]; inoltre, si continua a leggere nella sentenza che, secondo la giurisprudenza[41], “la gravità delle inadempienze del socio che, ai sensi dell’art. 2286 c.c., può giustificare l’esclusione dello stesso dalla società, ricorre non soltanto quando le dette inadempienze siano tali da impedire del tutto il raggiungimento dello scopo sociale, ma anche quando esse, secondo l’incensurabile apprezzamento del giudice del merito, abbiano inciso negativamente sulla situazione economica dell’ente, rendendone meno agevole il perseguimento dei fini”.
I casi
Ipotesi di grave inadempienze sono:
1) il mancato o ritardato conferimento promesso;
2) il mancato assolvimento degli obblighi di garanzia relativamente al conferimento;
3) l’uso illegittimo delle cose sociali;
4) la contravvenzione rispetto al divieto di concorrenza;
5) Il prelievo di somme di denaro dal conto corrente bancario solo quando non trovano giustificazione alcuna; secondo il Tribunale Capitolino[42] il prelievo di somme di denaro dal conto corrente bancario intestato alla società da parte di soci che non siano formalmente autorizzati a farlo non costituisce di per sé un’appropriazione di somme di pertinenza sociale integrante una violazione dell’obbligo di fedeltà dei soci al patto sociale e, pertanto, idonea a giustificare il provvedimento di esclusione ai sensi dell’art. 2287 c.c. Simili comportamenti possono considerarsi sintomatici dei gravi inadempimenti richiesti dalla legge ai fini dell’esclusione del socio solo se non trovano giustificazione alcuna e non quando, ad esempio, siano dipesi dalla forma semplificata di gestione della società, da sempre conosciuta e consentita da tutti i soci, e si siano risolti nel compimento di atti posti in essere nell’interesse della società medesima, che non hanno comportato alcun impedimento del raggiungimento dello scopo sociale, né inciso negativamente sulla situazione economica dell’ente, rendendone meno agevole il perseguimento dei fini.
6) L’emissione di assegni per soddisfare scopi personali su un conto corrente intrattenuto dalla società presso un istituto di credito; anche nelle società di persone il patrimonio sociale e quello personale dei soci devono essere tenuti ben distinti; ne consegue che l’indebita commistione tra gli stessi costituisce grave inadempienza, ai sensi e per gli effetti di cui all’art. 2286 cc, come nel caso in cui un socio coamministratore di una s.n.c. emetta assegni per soddisfare scopi personali su un conto corrente intrattenuto dalla società presso un istituto di credito[43].
7) Il comportamento del socio il quale nei rapporti con i terzi (nella specie con l’invio alle banche di una lettera) disconosca in toto l’operato dei soci amministratori, incidendo così negativamente sulle attività della società[44].
8) Qualunque inadempienza di un patto previsto dal contratto sociale.
Mentre secondo il Tribunale Milanese[45] non rientra nella nozione di gravi inadempienze, di cui all’art. 2286 c.c. (norma richiamata dallo statuto dell’associazione professionale), il comportamento del professionista che, nell’ambito di una struttura associativa regolata dal principio assembleare, si opponga alle determinazioni della maggioranza senza eccedere gli opportuni limiti legali e statutari.
Ancora secondo la Corte Territoriale Milanese[46], in difetto di diversa previsione contenuta nell’atto costitutivo, il rifiuto manifestato dal socio di una società di persone alla modifica dell’atto costitutivo non costituisce una legittima causa di esclusione dalla compagine sociale ai sensi dell’art. 2286, primo comma, c.c. Tale comportamento, tuttavia, può assumere rilevanza quale causa di scioglimento della società ove si risolva in un ostacolo al conseguimento dell’oggetto sociale.
Le clausole che ampliano le ipotesi di esclusione
Per alcuni autori[47] vi è soltanto un limite di carattere generale, che è il mero arbitrio, ovvero la possibilità di esclusione di un socio al mero gradimento degli altri, quindi tali clausole devono avere contorni ben definiti tali da escludere l’arbitrio.
Ma secondo altra dottrina[48], quella che fa riferimento alla sanzione privata di carattere disciplinare, tali clausole arbitrarie sono valide poiché tutelerebbero comunque l’interesse generale della società.
Invece, secondo la teoria della natura risolutaoria[49] dell’esclusione, è inammissibile prevedere un’esclusione ad nutum, poiché, in base ai principi generali in tema di risoluzione, la risoluzione è sempre connessa ad una giusta causa.
Il procedimento e l’opposizione
A) esclusione decisa a maggioranza per capi (per teste) e non per quote;
B) per la S.C.[50] nella disciplina legale delle società di persone manca la previsione dell’organo e del metodo assembleare, con la conseguenza che, dovendosi adottare la delibera di esclusione di un socio (per la quale è richiesta la maggioranza dei soci non computandosi tra questi quello da escludere), non è necessario che siano consultati tutti i soci, nè che essi manifestino contestualmente la propria volontà attraverso una delibera unitaria, essendo sufficiente raccogliere le singole volontà idonee a formare la richiesta maggioranza e comunicare la delibera di esclusione al socio escluso, affinché egli sia posto in condizione di esercitare la facoltà di opposizione dinanzi al tribunale, pertanto;
1) può essere prevista una maggioranza diversa (per quota) o addirittura l’unanimità attraverso il contratto sociale; proprio in merito all’unanimità secondo una sentenza di merito[51] a recesso del socio di una società di fatto, avvenuto in maniera illegittima per non aver rispettato la norma statutaria che richiedeva il consenso scritto di tutti i soci, non può conseguire la perdita del diritto alla percezione degli utili sociali maturati e tanto meno del valore della propria quota. Invero, l’esercizio illegittimo del recesso potrebbe eventualmente essere fonte di responsabilità risarcitoria per il recedente ma non potrebbe far venir meno il suo diritto di credito verso la società relativo agli utili sociali ovvero alla liquidazione del valore della propria quota.
2) è sorto il problema se può essere demandata tale decisione agli amministratori, alla minoranza dei soci oppure a terzi;
– riguardo alla possibilità di demandare tale potere ai terzi, secondo gli autori che riconducono il fondamento dell’esclusione alla sanzione privata deve essere data al quesito una risposta negativa – poiché legittimato è il titolare dell’interesse leso – ovvero gli altri soci;
– secondo, altra dottrina[52], per il principio generale ex art. 1349 la risposta è positiva.
Sulla comunicazione è bene riportare alcuni orientamenti della S.C.:
1) Ai fini dell’esclusione del socio di società di persone, l’art. 2287 cod. civ. non prevede la convocazione dell’assemblea dei soci, ma stabilisce soltanto che tale esclusione deve essere deliberata «dalla maggioranza dei soci, non comprendendosi nel numero di questi il socio da escludere». Pertanto la legittimità della delibera di esclusione prescinde non solo dalla convocazione dell’assemblea, ma anche dalla preventiva convocazione del socio, che ha soltanto il diritto di ricevere comunicazione della deliberazione stessa al fine di poter proporre opposizione[53];
2) la comunicazione al socio escluso della deliberazione di esclusione dalla società (artt. 2287 e 2527 c.c.) non richiede l’adozione di specifiche formalità o mezzi di trasmissione, essendo sufficiente un qualsiasi atto o fatto idoneo a portare a conoscenza dell’interessato la deliberazione medesima, mentre l’eventuale incompletezza di tale comunicazione non incide sulla validità ed operatività del provvedimento, ma può spiegare rilievo solo al diverso fine di consentire una opposizione tardiva o non specifica, ove giustificata da detta incompletezza[54];
3) La comunicazione al socio escluso della delibera di esclusione, che l’art. 2287 c.c. prevede per fissare il dies a quo del termine di trenta giorni per proporre opposizione, si concretizza in un atto o fatto che porti a conoscenza dell’interessato la deliberazione medesima, e non richiede l’adozione di specifiche formalità o mezzi di trasmissione. Ne consegue che la presenza del socio escluso all’assemblea che ha emesso la delibera in questione, in condizioni tali da assicurargli la percezione della volontà maggioritaria degli altri soci, integra gli estremi di quella comunicazione, e fa iniziare il decorso del termine per l’apposizione[55].
C) l’escluso non può partecipare a tale decisione;
D) tale decisione deve essere motivata, poiché vi è la possibilità da parte dell’escluso di opporsi;
E) l’esclusione non produce alcun effetto immediato;
F) l’escluso ha il diritto di opposizione
G) Avverso la delibera di esclusione del socio, l’opposizione prevista dall’art. 2527, terzo comma, c.c. rappresenta l’unico rimedio accordato al socio escluso per far valere l’illegittimità del provvedimento, anche nel caso in cui se ne contesti la regolarità; spirato il termine, di trenta giorni dalla comunicazione, stabilito a pena di decadenza per l’esperimento di tale mezzo di tutela, eventuali vizi del provvedimento non possono essere più dedotti dalla parte o rilevati dal giudice[56].
H) Resta applicabile, durante la fase di liquidazione, l’articolo 2286 del c.c. nei confronti del socio che, essendosi reso colpevole di gravi inadempienze, può essere escluso dalla compagine sociale, anche se si è verificato un fatto che ha determinato lo scioglimento della società. Se così non fosse, egli dovrebbe essere ammesso a partecipare alla vita della società, pur versando in una delle situazioni di cui all’articolo 2286 del c.c., e questo appare irragionevole e contrario ai principi che reggono l’esecuzione del contratto di società, il quale dà vita alla costituzione di una comunione di interessi, la cui esistenza, se giustifica la subordinazione dell’interesse del singolo socio a quello della maggioranza, certamente esclude che possano essere assunti legittimamente comportamenti in danno di altri soci o della società nel suo complesso[57].
I) E’ ammissibile il reclamo ex art. 669 terdecies c.p.c. contro il provvedimento di sospensione della delibera sociale adottato in corso di causa ai sensi dell’art. 2287 c. c., che ha natura cautelare[58].
J) L’annullamento della deliberazione di esclusione di un socio (nell’ipotesi, accomandatario di una società in accomandita semplice), in esito ad opposizione proposta a norma dell’art. 2287, secondo comma, cod. civ., opera ex tunc e comporta la reintegrazione del socio stesso nella sua posizione anteriore e nella pienezza dei diritti da essa derivanti. Pertanto, in pendenza della opposizione avverso la delibera di esclusione, sussiste l’interesse del socio escluso ad agire (e a resistere) in giudizio per l’accertamento di una causa di scioglimento della società (quale la sopravvenuta impossibilità di conseguire l’oggetto sociale)[59]. Inoltre l’annullamento determina anche il risarcimento danni eventuale in favore del socio escluso. Tale risarcimento, secondo la S.C.[60], per il potenziale pregiudizio conseguente all’estromissione dall’attività societaria, non trova ostacolo nella circostanza che la società si trovi in fase di liquidazione, perché anche a prescindere dalla eventualità che la liquidazione sia revocata, pure in tale situazione si verifica quella estromissione, con riguardo alle attività inerenti alla definizione della situazione patrimoniale della società, sulla cui base va liquidata la quota del socio escluso, nonché alla approvazione del bilancio di liquidazione con il piano di riparto.
Ai fini prettamente procedurali per il Tribunale Milanese[61], in caso di contrasto insanabile tra due soci con potere di amministrazione disgiunto della società derivante dalle modalità di gestione separata del patrimonio sociale, che sia sfociato nella proposizione diretta e riconvenzionale rispettivamente di una domanda di esclusione del socio contrapposta ad una richiesta di scioglimento della società deve prendersi atto dell’impossibilità di tenere in vita il sodalizio dichiarando lo scioglimento della società. L’accoglimento di tale domanda deve ritenersi assorbente di quella relativa all’esclusione del socio.
Ancora, ai fini processuali,
Corte di Cassazione, sezione prima civile, Ordinanza 24 febbraio 2020, n. 4779.
in tema di società di persone, nell’ambito del giudizio pendente fra i due unici soci, la decisione sulla ricorrenza di una causa di esclusione dell’uno è pregiudiziale rispetto a quella sull’avvenuto scioglimento della società, considerato che l’eventuale pronuncia di esclusione, di natura costitutiva, spiega effetto dal passaggio in giudicato e che da tale momento il socio superstite ha sei mesi per ricostituire la pluralità dei soci, così evitandone appunto lo scioglimento.
Il ricorso ex art. 700 c.p.c.
In generale, in virtù anche della richiamata sentenza della Cassazione, avverso la delibera di esclusione del socio, l’opposizione prevista dall’art. 2527, terzo comma, c.c. rappresenta l’unico rimedio accordato al socio escluso per far valere l’illegittimità del provvedimento stante il carattere residuale del rimedio ex art. 700 c.p.c.[62].
Anche se in un caso particolare è stato concesso tale rimedio, ovvero: una socia accomandataria di una s.a.s. (avente come oggetto sociale la creazione e l’esercizio di centri di dimagrimento) con ricorso ex art. 700 c.p.c., chiedeva la sospensione della delibera assembleare, con la quale era stata esclusa dalla compagine sociale per asserite sue inadempienze in ordine alla gestione dell’attività sociale.
Instauratosi il contraddittorio, l’amministratore nonché il socio accomandante, contestavano quanto dedotto dalla ricorrente ed eccepivano, appunto, l’inammissibilità del ricorso cautelare atipico, sussistendo la tutela specificamente prevista dall’art. 2287 c.c.
Orbene il Tribunale investito su tale decisione in ordine all’inammissibilità del ricorso per asserita mancanza di residualità della tutela invocata, evidenziando l’esistenza di pronunce giurisprudenziali di segno opposto circa l’ammissibilità o meno del ricorso ex art. 700 c.p.c. in ordine alla sospensione delle delibere assembleari di cui all’art. 2287 c.c., deduceva che, nel caso concreto, la tutela tipica prevista dall’art. 2287 c.c. comportava sì la devoluzione della controversia ad un arbitro nominato dal Presidente del Tribunale (ex art. 35, V comma, d.lgs. 5/2003 e clausola compromissoria) ma, aggiungeva il Giudicante, sino a quando l’arbitro non era in grado di provvedere alla sospensione della delibera, permaneva la competenza del giudice ordinario.
Pertanto, posto che la ricorrente aveva già depositato l’istanza di nomina dell’arbitro ma quest’ultimo, pur nominato, non aveva ancora accettato, sussisteva proprio l’ipotesi che legittima il ricorso alla tutela residuale ex art. 700 c.p.c., non potendo l’arbitro ancora provvedere alla sospensione della delibera assembleare. Difatti, diversamente opinando, si sarebbe corso il rischio di veder privata la parte della istanza di tutela, nelle more della comunicazione di nomina all’arbitro o ancora nell’ipotesi di rinuncia all’incarico.
E) Esclusione di diritto
art. 2288 c.c. esclusione di diritto: è escluso di diritto il socio che sia dichiarato fallito.
Parimenti è escluso di diritto il socio nei cui confronti un suo creditore particolare abbia ottenuto la liquidazione della quota a norma dell`art. 2270.
Per la Suprema Corte[63] in una nota sentenza la decorrenza del termine annuale per la dichiarazione di fallimento del socio occulto illimitatamente responsabile di una società di fatto, in estensione del fallimento sociale, non può farsi risalire alla data del suo recesso, ma deve essere ricondotta, in ossequio al principio di certezza delle situazioni giuridiche, alla data in cui lo scioglimento del rapporto del socio con la società sia portato a conoscenza dei terzi con mezzi idonei. A tal proposito, non può invocarsi, in contrario, la sentenza della Corte costituzionale n. 319 del 2000 – dichiarativa dell’illegittimità costituzionale del primo comma dell’art. 147 della legge fallimentare nella parte in cui non prevede, ai fini della dichiarazione di fallimento del socio illimitatamente responsabile, il termine annuale dalla perdita di tale qualità – giacché la stessa Corte costituzionale ha chiarito (ordinanza n. 321 del 2002) come detta sentenza abbia considerato esclusivamente l’ipotesi in cui la perdita della qualità di socio sia stata regolarmente pubblicizzata, non essendo tra loro equiparabili – proprio in relazione alla necessità di dare certezza alle situazioni giuridiche – la situazione del socio receduto di una società regolarmente costituita e registrata e quella del socio di una società irregolare, perché non iscritta nel registro delle imprese o addirittura occulta.
Nella motivazione la Corte precisa che il principio espresso nella massima trova applicazione in tutti i casi che si riferiscono ad un socio illimitatamente responsabile di una società irregolare, senza che rilevi la circostanza che tale socio sia occulto o meno. Infatti, posto che la società irregolare non iscritta al registro delle imprese non usufruisce del regime di pubblicità che tale registro assicura, ogni atto che viene compiuto tramite la società stessa ed i suoi soci, per potere essere opponibile ai terzi, deve essere adeguatamente portato a conoscenza di questi con idonee forme di comunicazione. Infine, anche secondo altra pronuncia[64], la quale, nel ribadire il principio, ha espressamente affermato che la decorrenza del termine annuale entro cui può dichiararsi il fallimento del socio occulto illimitatamente responsabile di società di persone non può, per il principio di certezza delle situazioni giuridiche, farsi risalire alla data del suo recesso, né, tantomeno, a quella della dichiarazione di fallimento della società (dato che l’evento fallimentare non scioglie il vincolo societario), ma deve essere ricondotta alla data in cui lo scioglimento del rapporto societario sia stato portato a conoscenza dei terzi con mezzi idonei.
NOTE
[1] Corte di Cassazione Sezione III civile, sentenza 15 ottobre 2002, n. 14655
[2] Corte di Cassazione Sezione I civile, sentenza 24 novembre 1995, n. 12172. In senso conforme anche Corte di Cassazione Sezione I civile, sentenza 24 aprile 1993, n. 4821; nella società di persone lo scioglimento del vincolo sociale limitatamente ad un socio – sia esso dovuto a morte o ad esclusione o a recesso – determina una modificazione della struttura del rapporto sociale per effetto della quale passivamente legittimati, nelle controversie attinenti alla liquidazione della quota dovuta al socio uscente o ai suoi aventi causa, sono tutti gli altri soci che rimangono nella società e che sono direttamente obbligati per il pagamento del valore di tale quota.
[3] Corte di Cassazione, sentenza del 9 maggio 1977, n. 1781.
[4] Corte di Cassazione, sentenza n. 8570 dell’8 aprile 2009.
[5] Trimarchi
[6] Corte di Cassazione del 1962
[7] Ghidini
[8] Di Sabato
[9] Ghidini
[10] Tribunale di Lucera civile, sentenza 11 gennaio 2005, n. 9
[11] Corte di Cassazione, Sezione I, sentenza 14 febbraio 2000, n. 1602
[12] Corte di Cassazione Sezione I civile, sentenza 10 settembre 2004, n. 18243. Perchè l’insanabile dissidio tra i soci comporti lo scioglimento di una società di persone composta da due soli soci è necessario che il conflitto tra essi sia tale da rendere impossibile il conseguimento dell’oggetto sociale, in difetto della quale circostanza potrà solo sussistere una giusta causa di recesso dalla società.
[13] Tribunale di Milano civile, sentenza 10 giugno 1999
[14] Corte d’Appello di Firenze Sezione II civile, sentenza 23 marzo 2009, n. 418
[15] Tribunale di Milano Sezione VIII civile, sentenza 17 febbraio 2004, n. 1870
[16] Tribunale di Trento civile, sentenza 02 dicembre 2002
[17] Corte di Cassazione, sentenza del 29 maggio 1972, n. 1667.
[18] Ghidini
[19] Ghidini
[20] Ferrara – Corsi
[21] per tutti Ghidini
[22] Trimarchi
[23] Tribunale di Milano Sezione II civile, sentenza 11 aprile 2007, n. 4355
[24] Angieloni
[25] Trimarchi
[26] Corte di Cassazione Sezione I civile, sentenza 10 settembre 2004, n. 18243
[27] Corte di Cassazione Sezione I civile, sentenza 10 giugno 1999, n. 5732
[28] L’ipotesi di esclusione dalla società, prevista dal 2° c., art. 2286 c.c., per la sopravvenuta inidoneità del socio che ha conferito la propria opera a svolgerla, presuppone la presenza di cause oggettive che precludano in via definitiva la prestazione dell’opera personale del socio e prescinde dalla colposità dell’inadempimento, che invece caratterizza l’ipotesi di esclusione (per gravi inadempienze delle obbligazioni che derivano dalla legge o dal contratto sociale) prevista dal comma precedente; pertanto, al socio che per sua colpa abbia solo temporaneamente omesso la prestazione della propria opera personale nella società, cui sia obbligato in base alle nome statutarie, è applicabile la disposizione del 1° c., art. cit., e non quella del 2° c., con la conseguenza che egli può essere escluso dalla società qualora il suo inadempimento, pur sfornito del carattere della definitività, risulti grave. Corte di Cassazione Sezione I civile, sentenza 01 giugno 1991, n. 6200
[29] Nell’ambito di una società semplice, la validità della clausola compromissoria con la quale le parti demandano ad arbitri la decisione relativa alla legittimità del provvedimento di esclusione di un socio, determina l’inapplicabilità del termine di trenta giorni previsto per la proposizione dell’opposizione contro la delibera assembleare davanti al tribunale, in quanto incompatibile con la struttura del procedimento arbitrale. Tribunale di Bologna Sezione III civile, sentenza 21 marzo 2008, n. 719
[30] La previsione di cui all’art. 2287 comma terzo cod. civ., secondo la quale nelle società di persone composte da due soli soci l’esclusione di uno di essi può essere disposta solo dal tribunale a conclusione di un ordinario giudizio di cognizione, è previsione eccezionale, come tale insuscettibile di applicazione analogica, con la conseguenza che resta applicabile la regola generale di cui al comma primo del citato art. 2287 in tutti i casi in cui i soci siano più di due, anche se all’interno della compagine sociale siano configurabili due gruppi di interessi omogenei e fra loro contrapposti. (Il suesposto principio è stato affermato in relazione ad una società di persone con quattro soci legati da rapporto di coniugio, di modo che ciascuna coppia era titolare del 50% delle quote societarie; sussistendo in ogni caso la pluripersonalità. Corte di Cassazione Sezione I penale, sentenza 10 gennaio 1998, n. 153
[31] Corte di Cassazione Sezione I civile, sentenza 19 settembre 2006, n. 20255
[32] Tribunale di Torre Annunziata Sezione II civile, sentenza 30 aprile 2008, n. 634. Dal principio espresso – sul quale, in particolare, confronta, Cassazione civile, Sez. I, sentenza 9 marzo 1995, n. 2736 – si evince, secondo la decisione in esame, che anche comportamenti legati alla carica di amministratore ed ai conseguenti obblighi possono essere presi in considerazione ai fini della valutazione complessiva dell’operato del socio che sia amministratore, qualora tale operato si ripercuota negativamente sulla società, ostacolando o rendendo meno agevole il perseguimento dei fini sociali. In argomento, citata anche nella pronuncia, vedi, Tribunale di Napoli, sentenza 17 ottobre 1986, in Giur. Comm., 1988, II, 654, secondo cui in una società in nome collettivo in regime di amministrazione congiuntiva affidata solo ad alcuni soci, l’attribuzione arbitraria da parte di un socio della qualità di amministratore, sia nei rapporti interni (con diffide ai soci ed al direttore) sia nei rapporti esterni (con intimazioni alle banche di non concludere operazioni con la società senza il suo consenso scritto e lasciando dubitare alle banche stesse dell’effettiva solidità patrimoniale della società), nonché l’opposizione a qualsiasi soluzione idonea alla nomina degli amministratori, violano l’obbligo di collaborazione per il conseguimento dell’oggetto sociale e rappresentano una legittima causa di esclusione.
[33] Corte di Cassazione Sezione I civile, sentenza 08 aprile 2009, n. 8570. In tema confronta, Cassazione civile, Sez. I, sentenza 29 novembre 2001, n. 15197, secondo cui alle società in accomandita semplice è applicabile, in virtù del rinvio, operato dall’art. 2315 c.c., alla disciplina concernente le società in nome collettivo, ivi comprese quelle semplici – rinvio subordinato dalla stessa norma codicistica alla compatibilità di detta disciplina con la particolare struttura delle società in accomandita semplice – la normativa di cui agli art. 286 e 2287 c.c., la quale prevede che, in caso di gravi inadempienze del socio, l’esclusione dello stesso è deliberata dalla maggioranza dei soci, non computandosi nel relativo numero il socio da escludere. Tale disposizione, infatti, non presenta profili di incompatibilità, neanche nella ipotesi in cui il socio da escludere sia l’unico accomandatario, con la struttura particolare della società in accomandita semplice, caratterizzata dalla presenza di due categorie di soci, e cioè gli accomandatari, che, in quanto illimitatamente responsabili possono assumerne l’amministrazione, e gli accomandanti, che tale amministrazione non possono assumere essendo la loro responsabilità limitata alla quota conferita, essendo la descritta disciplina conciliabile con i poteri di controllo di cui il socio accomandante dispone; Cassazione civile, Sez. I, sentenza 22 dicembre 2006, n. 22504, la quale ha affermato che alle società in accomandita semplice è applicabile la normativa dettata dagli articoli 2286 e 2287 c.c., la quale prevede che, in caso di gravi inadempienze del socio, l’esclusione dello stesso può essere deliberata dalla maggioranza dei soci, non computandosi nel relativo numero il socio da escludere. In tal senso, depone il rinvio operato dall’art. 2315 c.c. alla disciplina concernente le società in nome collettivo – e dunque per il tramite dell’art. 2293 c.c., anche a quella delle società semplici – rinvio subordinato unicamente alla compatibilità della citata disciplina con la particolare struttura della società in accomandita semplice. Ora, nessuna ragione di incompatibilità è riscontrabile tra le citate disposizioni, in materia di esclusione del socio, e la struttura particolare della società in accomandita semplice, neanche nell’ipotesi in cui il socio da escludere sia l’unico accomandatario. Infatti, la presenza di due categorie di soci, gli accomandatari, i quali soltanto possono assumere l’amministrazione sociale, e gli accomandanti, che tale amministrazione non possono invece assumere, essendo la loro responsabilità limitata alla quota conferita, è pienamente conciliabile con i poteri di controllo di cui i soci accomandanti dispongono ed al cui espletamento è consona l’eventuale deliberazione di esclusione dell’accomandatario.
[34] Calamandrei – Auletta
[35] per tutti Ghidini
[36] Capozzi
[37] Campobasso
[38] Corte di Cassazione Sezione II civile, sentenza 04 dicembre 1995, n. 12487
[39] Corte di Cassazione, sentenza 28 marzo 2005, n. 3669, la valutazione della gravità dell’inadempimento o del suo ritardo deve essere compiuta sulla base di un criterio relativo che consenta di coordinare la valutazione dell’elemento obiettivo (mancata o tardiva prestazione nel quadro dell’economia generale del contratto) con l’elemento subiettivo, ossia con il comportamento della controparte che è indice del suo interesse all’esatto o tempestivo adempimento
[40] v. massima e motivazione di Corte di Cassazione, sezione I, 16 giugno 1989 n. 2887
[41] Corte di Cassazione, sezione I, sentenza del 17 aprile 1982 n. 2344
[42] Tribunale di Roma Sezione III civile, sentenza 16 febbraio 2011, n. 3183
[43] Tribunale di Milano, sentenza 28 ottobre 1993
[44] Corte di Cassazione Sezione I civile, sentenza 02 aprile 1992, n. 4018. La norma dell’art. 2257 cod.civ. (dettata per la società semplice, ma applicabile anche a quella in nome collettivo attraverso il richiamo di cui all’art. 2293 cod.civ.), secondo cui, quando l’amministrazione spetti disgiuntamente a più soci, ciascuno può opporsi all’operazione che un altro voglia compiere, prima che essa sia compiuta, e sull’opposizione decide la maggioranza dei soci, va intesa nel senso che il contrasto può appuntarsi soltanto su singole operazioni e deve trovare soluzione nell’ambito del sodalizio societario; ne consegue che costituisce grave inadempienza, che giustifica l’esclusione dalla società a norma dell’art. 2286 cod. civ., il comportamento del socio il quale nei rapporti con i terzi (nella specie con l’invio alle banche di una lettera) disconosca in toto l’operato dei soci amministratori, incidendo così negativamente sulle attività della società.
[45] Tribunale di Milano civile, sentenza 13 dicembre 2001
[46] Corte d’Appello di Milano, sentenza 15 novembre 1996
[47] Per tutti Di Sabato
[48] Auletta
[49] Ghidini
[50] Corte di Cassazione, sentenza 10 gennaio 1998, n. 153
[51] Corte d’Appello di Roma Sezione II civile, sentenza 10 marzo 2011, n. 1053
[52] Di Sabato
[53] Corte di Cassazione, sentenza del 15 luglio 96, n. 6394.
[54] Corte di Cassazione, sentenza del 20 luglio 1982, n. 4254.
[55] Corte di Cassazione, sentenza del 9 maggio 1977, n. 1781.
[56] Corte di Cassazione Sezione I civile, sentenza 20 luglio 2004, n. 13407
[57] Corte di Cassazione Sezione I civile, sentenza 15 luglio 1996, n. 6410
[58] Tribunale di Torre Annunziata civile, sentenza 26 settembre 2002
[59] Corte di Cassazione, sentenza del 28 maggio 1993, n. 5958 e Corte di Cassazione, sentenza del 22 dicembre 2000, n. 16150.
[60] Corte di Cassazione, sentenza del 27 novembre 1982, n. 6425.
[61] Tribunale di Milano Sezione VIII civile, sentenza 18 Gennaio 2006, n. 626
[62] Tribunale di Avezzano civile, ordinanza 17 giugno 2004. Nella specie, l’interessato ne era decaduto per scadenza del termine di trenta giorni fissato dall’art. 2287 c.c.
[63] Corte di Cassazione Sezione I civile, sentenza 13 marzo 2009, n. 6199 In senso conforme, vedi, Cassazione civile, Sez. I, sentenza 19 settembre 2005, n. 18458 e Cassazione civile, Sez. I, sentenza 28 settembre 2005, n. 18927, secondo cui il principio di certezza delle situazioni giuridiche – la cui generale attuazione la Corte costituzionale ha inteso assicurare con la pronuncia di incostituzionalità del primo comma dell’art. 147 legge fallimentare, nella parte in cui non prevede l’applicazione del limite del termine annuale dalla perdita della qualità di socio illimitatamente responsabile (sentenza n. 319 del 2000) – impone che la decorrenza di detto termine per il socio occulto receduto non possa farsi risalire alla data del suo recesso, né, tanto meno, a quella della dichiarazione di fallimento della società, poiché l’evento fallimentare non scioglie il vincolo societario, ma piuttosto a quella in cui lo scioglimento del rapporto sia portato a conoscenza dei terzi con mezzi idonei: occorre pertanto, in concreto, tener conto della data della eventuale pubblicizzazione del recesso o di quella in cui i creditori ne abbiano avuto conoscenza o lo abbiano colpevolmente ignorato.
[64] Cassazione civile, Sezione I, sentenza 26 novembre 2004, n. 22347
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