Corte di Cassazione, sezione quinta penale, Sentenza 5 marzo 2019, n. 9710.
La massima estrapolata:
In caso di fallimento per potersi ritenere integrato il reato di bancarotta patrimoniale per distrazione assume rilievo qualsiasi depauperamento della società consistente nell’aver rimpiegato risorse per scopi estranei all’attività perché l’imprenditore è sempre tenuto ad evitare condotte in grado di esporre a possibile pregiudizio i propri creditori. Ciò avviene non tanto evitando comportamenti che possano possedere margini di potenziale perdita economica, quanto piuttosto che comportino diminuzione patrimoniale senza avere giustificazione nella fisiologica gestione dell’impresa.
Sentenza 5 marzo 2019, n. 9710
Data udienza 3 ottobre 2018
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE QUINTA PENALE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. BRUNO Paolo Antonio – Presidente
Dott. ZAZA Carlo – Consigliere
Dott. SCOTTI Umberto Luigi C. – Consigliere
Dott. MICCOLI Grazia – Consigliere
Dott. MICHELI Paolo – rel. Consigliere
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
(OMISSIS), nato a (OMISSIS);
avverso la sentenza emessa il 22/11/2016 dalla Corte di appello di Genova;
visti gli atti, la sentenza ed il ricorso;
udita la relazione svolta dal Consigliere Dott. MICHELI Paolo;
udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.ssa FILIPPI Paola, che ha concluso chiedendo dichiararsi l’inammissibilita’ del ricorso;
udito per il ricorrente l’Avv. (OMISSIS), la quale ha concluso chiedendo l’accoglimento del ricorso e l’annullamento della sentenza impugnata.
RITENUTO IN FATTO
Il difensore di (OMISSIS) ricorre avverso la pronuncia indicata in epigrafe, recante la parziale riforma (in punto di determinazione del trattamento sanzionatorio) della sentenza emessa nei confronti del suo assistito, il 24/03/2011, dal Gup del Tribunale di Savona; il (OMISSIS) e’ stato condannato a pena ritenuta di giustizia per due condotte distinte di bancarotta per distrazione, correlate alla gestione della “(OMISSIS)” s.r.l., societa’ dichiarata fallita nel (OMISSIS) e della quale egli era stato amministratore unico. Le distrazioni, in particolare, avevano riguardato:
– la somma di 10.000,00 Euro, oggetto di un finanziamento erogato nel maggio 2005 in favore della ” (OMISSIS)” s.r.l., avvenuto (secondo l’ipotesi accusatoria) senza giustificazioni economico/finanziarie e quando la “(OMISSIS)” gia’ versava in stato di avanzata decozione;
– il valore relativo alla locazione di un immobile di cui la fallita godeva in forza di contratto stipulato con l’Autorita’ Portuale, concesso in comodato d’uso ad una associazione sportiva dilettantistica malgrado l’espresso divieto di sublocazione (cio’ accadeva nell’aprile 2007, con la “(OMISSIS)” gia’ da tempo morosa nel versare i canoni alla locatrice, nonche’ richiedendo alla suddetta associazione sportiva un corrispettivo irragionevolmente esiguo, peraltro onorato solo nelle prime mensilita’).
La difesa lamenta:
– vizi della motivazione della sentenza impugnata e violazione dell’articolo 43 c.p., L. Fall., articoli 216 e 217.
Nell’interesse del ricorrente si fa rilevare che, sul piano della riferibilita’ psicologica dei fatti a chi se ne assume autore, potrebbero al piu’ ravvisarsi a carico del (OMISSIS), nel caso di specie, i soli estremi della colpa. L’imputato, infatti, non ebbe mai coscienza di porre in essere comportamenti potenzialmente pregiudizievoli per i creditori della societa’, ma – al contrario – volle sempre perseguire la realizzazione di utilita’ economiche per la “(OMISSIS)”.
Sul piano delle emergenze processuali, in particolare, nulla depone nel senso che il (OMISSIS) – come richiesto dalla giurisprudenza di legittimita’ per poter intendere ravvisabile il delitto in rubrica – si prefigurasse un qualsivoglia pericolo per le ragioni creditorie, in conseguenza delle proprie iniziative. Si legge nel ricorso, fra l’altro, che “la condotta omissiva di mancata, tempestiva riconsegna dei locali (…) era un’operazione sorretta da giustificazione economica e commerciale, che non puo’ essere configurata come distrattiva, e neppure lo era la concessione di porzione di locali a terzi, visto che era volta a recare un utile che e’ stato effettivamente arrecato alla societa’ in un momento in cui il locale non avrebbe potuto essere adibito ad altro diverso uso”. Tanto piu’ che, tra la societa’ poi fallita e l’Autorita’ Portuale erano in corso trattative per il rilascio dei locali e la compensazione delle rispettive pretese creditorie (la conduttrice aveva sostenuto costi per lavori di carattere strutturale): in quella situazione transitoria e contingente, la soluzione di concedere parte dell’immobile ad altro soggetto, comunque con carattere di precarieta’, mirava soltanto a garantire introiti. Ove il (OMISSIS) – peraltro, autore di plurimi conferimenti di denaro nelle casse sociali, attingendo a risorse personali – avesse inteso pregiudicare le aspettative dei creditori, avrebbe senz’altro utilizzato uno strumento contrattuale diverso.
Conclusivamente, ad avviso del difensore dell’imputato, nella fattispecie concreta si potrebbe discutere soltanto di operazioni di pura sorte o manifestamente imprudenti, che il legislatore sanziona a titolo di bancarotta semplice: reato, in ipotesi, oramai estinto per prescrizione vizi della motivazione della sentenza impugnata e violazione di legge, in punto di nesso di causalita’ fra le condotte contestate ed il successivo fallimento.
La difesa richiama la sentenza di questa Corte n. 47502/2012 (ric. Corvetta), per inferirne principi di diritto da intendersi validi in questa sede, anche per obiettive analogie tra le vicende sottese ai due processi: infatti, nel momento in cui la “(OMISSIS)” trasferi’ 10.000,00 Euro alla ” (OMISSIS)” (in assoluta trasparenza e con tanto di annotazione nelle scritture contabili), la prima societa’ non era in condizione di difficolta’ economica o finanziaria, mentre la seconda si palesava certamente in grado di far fronte alla restituzione della somma, come poi accaduto nella realta’. Inoltre, l’importo del finanziamento fu assai modesto, di certo non incisivo sulla decozione della fallita, prodottasi per cause del tutto diverse e indipendenti.
In ogni caso, la difesa sostiene che “per la sussistenza dell’elemento soggettivo, il dolo, anche laddove, secondo diversa interpretazione, si ritenga non doversi estendere alla dichiarazione di fallimento, dovra’ tuttavia comprendere la consapevolezza del danno, o almeno del possibile danno della condotta alle ragioni dei creditori: requisito che nel caso di specie non sembra ravvisabile, considerato che il signor (OMISSIS) aveva effettuato il versamento di denaro in un momento in cui la propria societa’ era in attivo e la societa’ che riceveva la somma era ed e’, a tutt’oggi, attiva e solvibile”.
Con atto depositato il 17/09/2018, la difesa ha curato motivi nuovi di ricorso insistendo nelle tesi gia’ spiegate: nell’atto si rappresenta che un modesto finanziamento di soli 10.000,00 Euro e la cessione in comodato dei locali sopra richiamati dovrebbero ritenersi non idonei a concretizzare condotte distrattive gia’ sul piano dell’elemento materiale. Si tratterebbe, piuttosto, di atti gestori dei beni aziendali per fini istituzionali, a prescindere dal rilievo se detta gestione fu o meno “caratterizzata da calcoli opinabili di convenienza o, comunque, imprudente”. Ne’ puo’ ritenersi corretta, costituendo – al contrario – il frutto di un vero e proprio travisamento, l’osservazione della Corte territoriale secondo cui le trattative fra l’Autorita’ Portuale e la locataria si porrebbero come un post factum non influente su un reato gia’ perfezionato.
In ordine all’elemento soggettivo, ribadendo quanto evidenziato nelle originarie doglianze, il difensore del (OMISSIS) segnala che “per la configurabilita’ del dolo di bancarotta patrimoniale e’ necessaria la rappresentazione da parte dell’agente della pericolosita’ della condotta distrattiva, da intendersi come probabilita’ dell’effetto depressivo sulla garanzia patrimoniale che la stessa e’ in grado di determinare e, dunque, la rappresentazione del rischio di lesione degli interessi creditori tutelati dalla norma incriminatrice”. Cio’ malgrado, la Corte di appello si sarebbe “limitata ad affermare come ad integrare il reato sia sufficiente un semplice dolo generico, senza svolgere analisi alcuna sulla rappresentazione da parte dell’agente della pericolosita’ della condotta distrattiva”.
Infine, la difesa evidenzia che i giudici di merito non avrebbero svolto una compiuta disamina degli elementi emergenti da una relazione di consulenza tecnica di parte, versata in atti, secondo cui:
– il finanziamento soci descritto al punto 1) della rubrica era stato effettuato in un periodo nel quale i bilanci della societa’ erano in attivo; l’imputato aveva conferito alla fallita risorse proprie, per importi rilevanti; sull’immobile sopra ricordato erano stati realizzati interventi indispensabili per consentirne l’uso;
– esistevano trattative avanzate con la proprietaria del bene, onde compensare le rispettive ragioni creditorie.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. Il ricorso non puo’ trovare accoglimento.
2. La censura afferente la possibile ravvisabilita’ di una mera colpa in capo al ricorrente, in vero, risulta gia’ chiaramente trattata (e motivatamente disattesa) nella sentenza di primo grado, dove espressamente si legge che “ai fini del dolo e’ sufficiente che il (OMISSIS) abbia posto in essere il finanziamento con la coscienza di effettuare un atto distrattivo potenzialmente lesivo dell’interesse patrimoniale dei creditori, non essendo necessario alcun intento o previsione specifica di arrecare un pregiudizio economico al patrimonio dell’impresa in maniera tale da provocarne la decozione. Irrilevante e’, infatti, che all’epoca si rappresentasse gia’ un possibile fallimento ed agisse al fine di recare pregiudizio ai creditori. In sostanza, in tema di bancarotta per distrazione, per verificare la sussistenza del dolo appare sufficiente accertare che l’atto dispositivo che ha comportato diminuzione patrimoniale sia privo di sinallagma rispondente al fine istituzionale dell’impresa. E detto sinallagma, come si e’ gia’ rilevato, non e’ ravvisabile nel caso di specie” (quest’ultimo inciso, in particolare, si ricollega alla circostanza che il finanziamento di 10.000,00 Euro in favore della ” (OMISSIS)” non appariva in alcun modo giustificabile sul piano economico: tanto che la somma de qua, non appena richiesta indietro dal curatore, era stata immediatamente restituita).
Nel contesto appena descritto, dunque, non ha alcuno spessore l’osservazione difensiva secondo cui il (OMISSIS) ritenne di non aver mai posto in pericolo le aspettative dei creditori della societa’: da un lato, il finanziamento richiamato da ultimo si risolveva in una operazione di segno puramente negativo per la “(OMISSIS)”; nel contempo, ha valore di mera asserzione la tesi che la sublocazione di una parte dei locali ad una associazione sportiva mirasse a consentire alla societa’ poi fallita di ottenere una qualche utilita’ economica, se e’ vero – e nessun argomento difensivo mira in concreto a confutare tale assunto – che il canone fu prima pattuito per una cifra irrisoria e poi onorato solo per le primissime mensilita’.
Quanto ora precisato vale altresi’ a confutare la decisivita’ dell’orientamento giurisprudenziale cui la difesa del ricorrente ha manifestato di aderire.
In vero, fino al 2012 questa Corte ebbe piu’ volte ad affermare che nel reato di bancarotta fraudolenta “i fatti di distrazione, una volta intervenuta la dichiarazione di fallimento, assumono rilevanza penale in qualunque tempo essi siano stati commessi, e quindi anche se la condotta si e’ realizzata quando ancora l’impresa non versava in condizioni di insolvenza. Tutte le ipotesi alternative previste dalla norma si realizzano mediante condotte che determinano una diminuzione del patrimonio, diminuzione pregiudizievole per i creditori: per nessuna di queste ipotesi la legge richiede un nesso causale o psichico tra la condotta dell’autore e il dissesto dell’impresa, sicche’ ne’ la previsione dell’insolvenza come effetto necessario, possibile o probabile, dell’atto dispositivo, ne’ la percezione della sua preesistenza nel momento del compimento dell’atto, possono essere condizioni essenziali ai fini dell’antigiuridicita’ penale della condotta. E del resto, quando il legislatore ha ritenuto necessaria l’esistenza di un tal nesso lo ha previsto espressamente nell’ambito della L. Fall., all’articolo 223, distinguendo le condotte previste dall’articolo 216 (L. Fall., articolo 223, comma 1) da quelle specificamente volte a cagionare il dissesto economico della societa’ (articolo 223, comma 2), per modo che solo in tali ultime fattispecie delittuose e’ previsto un nesso causale o psichico tra condotta ed evento” (Cass., Sez. 5, n. 39546 del 15/07/2008, Bonaldo). Ancor piu’ analiticamente, gli stessi principi furono ribaditi nel 2011, quando si rilevo’ che “il delitto di bancarotta fraudolenta per distrazione e’ reato di pericolo, ed e’ pertanto irrilevante che al momento della consumazione l’agente non avesse consapevolezza dello stato d’insolvenza dell’impresa per non essersi lo stesso ancora manifestato” (Cass., Sez. 5, n. 44933 del 26/09/2011, Pisani, Rv 251214). Nella motivazione di quest’ultima pronuncia, si sostenne che “il reato di bancarotta fraudolenta patrimoniale non richiede il dolo specifico, ma si perfeziona con il dolo generico, ossia con la consapevolezza di dare al patrimonio sociale una destinazione diversa da quella di garanzia delle obbligazioni contratte”, precisandosi che non puo’ intendersi rilevante la circostanza che all’epoca della distrazione non si fosse ancora manifestato uno stato d’insolvenza: “infatti, ad integrare il reato non e’ richiesta la conoscenza dello stato d’insolvenza dell’impresa, in quanto ogni atto distrattivo viene ad assumere rilevanza ai sensi della L. Fall., articolo 216, in caso di fallimento, indipendentemente dalla rappresentazione di quest’ultimo. Qualora, poi, la deduzione debba intendersi rapportata alla asserita insussistenza del dissesto all’epoca dei fatti, cosi’ implicitamente evocandosi la teoria c.d. della zona di rischio penale (…), ugualmente deve essere disattesa in quanto, per la speciale configurazione del precetto, la protezione penale degli interessi creditori e’ assicurata mediante la sua connotazione di reato di pericolo. L’offesa penalmente rilevante e’ conseguente anche all’esposizione dell’interesse protetto alla probabilita’ di lesione, onde la penale responsabilita’ sussiste non soltanto in presenza di un danno attuale ai creditori, ma anche nella situazione di messa in pericolo dei loro interessi. Conseguentemente, il delitto di bancarotta non impone contestualita’ tra l’azione antidoverosa ed il pregiudizio derivante dalla stessa, ma ammette anche uno sfasamento temporale, se esso non elide il portato dannoso dell’azione: sicche’ la tutela penale dispiega la sua efficacia retroattivamente, risalendo a ritroso, a far data dalla dichiarazione di fallimento, ricapitolando ogni passaggio della gestione dell’impresa fallita nel pregiudizio che viene accertato al momento della dichiarazione di insolvenza con la verifica delle passivita’ gravanti sulla stessa”.
L’indirizzo ora illustrato risulta contraddetto da altra pronuncia di questa stessa Sezione, richiamata nell’odierno ricorso, secondo cui “nel reato di bancarotta fraudolenta per distrazione lo stato di insolvenza che da luogo al fallimento costituisce elemento essenziale del reato, in qualita’ di evento dello stesso, e pertanto deve porsi in rapporto causale con la condotta dell’agente e deve essere, altresi’, sorretto dall’elemento soggettivo del dolo” (Cass., Sez. 5, n. 47502 del 24/09/2012, Corvetta, Rv 253493). L’impianto motivazionale di quest’ultima sentenza muove dal presupposto che “non puo’ da un lato ritenersi che qualsiasi atto distrattivo sia di per se’ reato, dall’altro che la punibilita’ sia condizionata ad un evento” (la dichiarazione di fallimento, di cui viene diffusamente discussa la natura all’interno della struttura della fattispecie incriminatrice) “che puo’ sfuggire totalmente al controllo dell’agente, e dunque ritorcersi a suo danno senza una compartecipazione di natura soggettiva e, ancor peggio, senza che sia necessaria una qualche forma di collegamento eziologico tra la condotta e il verificarsi del dissesto”.
Nella sentenza Corvetta si evidenzia quindi che se il fallimento e’ “il risultato di un’azione dell’imprenditore, da cui la legge (o, meglio, la giurisprudenza conforme) fa dipendere l’esistenza stessa del delitto”, lo stesso fallimento, “o meglio il suo presupposto di fatto, cioe’ lo stato di insolvenza, deve essere dall’agente preveduto e voluto, quantomeno a titolo di dolo eventuale. Il soggetto, cioe’, deve prefigurarsi che il suo comportamento depauperativo portera’ verosimilmente al dissesto (il cui risvolto e’ la lesione del diritto di credito, che costituisce l’interesse principale protetto dalla norma penale) ed accettare tale rischio. Ogni diversa soluzione in punto di dolo costituisce una violazione dei principi generali di cui agli articoli 42 e 43 c.p., che costituiscono l’ossatura della responsabilita’ penale personale del nostro ordinamento”. Ne deriverebbe l’opzione interpretativa secondo cui “la bancarotta e’ un reato di evento e tale evento consiste nella insolvenza della societa’, che trova riconoscimento formale e giuridicamente rilevante nella dichiarazione di fallimento. Questa e’ la unica ricostruzione strutturale del reato coerente con le premesse; il fallimento e’ elemento costitutivo dell’illecito in qualita’ di evento e si pone quale conseguenza (esclusiva o concorrente) della condotta distrattiva dell’imprenditore. L’interesse protetto dalla norma, dunque, non e’ solo il potenziale pregiudizio del ceto creditorio, ma la lesione definitiva dei diritti di credito che si determina con il fallimento; tanto e’ vero che, occorre ribadirlo, per quanto siano consistenti e ripetuti gli atti di spoliazione del patrimonio dell’impresa, l’imprenditore non e’ punito se non viene successivamente dichiarato il fallimento”.
La giurisprudenza di questa Sezione, successiva alla sentenza Corvetta, risulta pero’ tornata a sposare l’orientamento precedente, ritenendo che “ai fini della sussistenza del reato di bancarotta fraudolenta patrimoniale non e’ necessaria l’esistenza di un nesso causale tra i fatti di distrazione ed il successivo fallimento” (Cass., Sez. 5, n. 7545 del 25/10/2012, Lanciotti, Rv 254634; v. anche Cass., Sez. 5, n. 27993 del 12/02/2013, Di Grandi). In una quasi coeva decisione, identicamente massimata (Rv 254061) si e’ precisato che “anche dopo l’entrata in vigore del Decreto Legislativo 11 aprile 2002, n. 61, ad integrare il reato di bancarotta fraudolenta per distrazione non si richiede l’esistenza di un nesso causale tra i fatti di distrazione e il successivo fallimento (…). Al riguardo vale la pena di rimarcare che il rapporto eziologico fra la condotta vietata e il dissesto della societa’ e’ richiesto dalla L. Fall., articolo 223, comma 2, n. 1, nel testo novellato, con esclusivo riferimento alle ipotesi di bancarotta da reato societario, il cui elemento oggettivo – nel modello descrittivo recato dagli articoli 2621, 2622, 2626, 2627, 2628, 2629, 2632, 2633 e 2634 c.c., richiamati dalla norma incriminatrice – e’ del tutto diverso da quello che caratterizza le condotte vietate dall’articolo 216 della stessa legge, richiamato invece dal citato articolo 223, comma 1” (Cass., Sez. 5, n. 232 del 09/10/2012, Sistro).
L’elaborazione si e’ completata con il decisivo avallo del massimo organo di nomofilachia (Cass., Sez. U, n. 22474 del 31/03/2016, Passarelli, secondo cui, ai fini della sussistenza del reato di bancarotta fraudolenta patrimoniale, non e’ necessaria l’esistenza di un nesso causale tra i fatti di distrazione ed il successivo fallimento, essendo sufficiente che l’agente abbia cagionato il depauperamento dell’impresa, destinandone le risorse ad impieghi estranei alla sua attivita’; sicche’, una volta intervenuta la dichiarazione di fallimento, i fatti di distrazione assumono rilievo in qualsiasi momento siano stati commessi e, quindi, anche se la condotta si e’ realizzata quando ancora l’impresa non versava in condizioni di insolvenza. Il quadro di riferimento, sul piano dell’approccio esegetico agli istituti di cui si discute, deve infine tenere conto di ancor piu’ recenti interventi della giurisprudenza di questa Corte, in base ai quali – escludendosi a fortiori la condivisibilita’ delle argomentazioni sviluppate dall’odierno ricorrente – dovrebbe financo ritenersi che “la dichiarazione di fallimento costituisca, rispetto al reato di bancarotta patrimoniale pre-fallimentare, condizione obiettiva (estrinseca) di punibilita’, ai sensi dell’articolo 44 c.p.” (Cass., Sez. 5, n. 19910 dell’08/03/2017, Santoro).
Pur senza affrontare quest’ultima tematica, ultronea rispetto ai limiti di odierno interesse, e confermando le ragioni di adesione all’indirizzo ribadito dalle Sezioni Unite con la citata pronuncia del 2016, vanno qui sottolineate le divergenze strutturali tra la fattispecie disegnata dalla L. Fall., articolo 216, e quella risultante dalle varie ipotesi previste dal successivo articolo 223, comma 2: solo in queste ultime, infatti, il legislatore ha inteso conferire immediato rilievo a condotte che cagionino il fallimento, ovvero cagionino o concorrano a cagionare il dissesto della societa’. Ergo, laddove il legislatore ha inteso individuare la necessita’ di un nesso causale, prima ancora di una riferibilita’ psicologica, fra il comportamento del soggetto attivo del reato ed il successivo dissesto (od il fallimento che ne sia derivato), cio’ e’ espressamente prescritto.
Deve percio’ ritenersi che, cosi’ come segnalato dai giudici di merito nella fattispecie concreta oggi sub judice, la condotta sanzionata dalla L. Fall., articolo 216 – e, per le societa’, dall’articolo 223, comma 1 – non sia quella di avere cagionato lo stato di insolvenza o di avere provocato il fallimento, bensi’ – assai prima – quella di depauperamento dell’impresa, consistente nell’averne destinato le risorse ad impieghi estranei all’attivita’ dell’impresa medesima. La rappresentazione e la volonta’ dell’agente debbono percio’ inerire alla deminutio patrimonii (semmai, occorre la consapevolezza che quell’impoverimento dipenda da iniziative non giustificabili con il fisiologico esercizio dell’attivita’ imprenditoriale): tanto basta per giungere all’affermazione del rilievo penale della condotta, per sanzionare la quale e’ si’ necessario il successivo fallimento, ma non gia’ che questo sia oggetto di rappresentazione e volonta’ – sia pure in termini di accettazione del rischio di una sua verificazione – da parte dell’autore.
In sostanza, e in definitiva, l’imprenditore deve considerarsi sempre tenuto ad evitare l’assunzione di condotte tali da esporre a possibile pregiudizio i propri creditori, non nel senso di doversi astenere da comportamenti che abbiano in se’ margini di potenziale perdita economica, ma da quelli che comportino diminuzione patrimoniale senza trovare giustificazione nella fisiologica gestione dell’impresa. Il che e’ cio’ che, invece, appare chiaramente accaduto nel caso di specie, anche laddove si consideri che – alla luce della necessita’ di individuare elementi di concretezza del pericolo di pregiudizio per le ragioni creditorie (v. Cass., Sez. V, n. 38396 del 23/06/2017, Sgaramella, per la diffusa disamina della nozione di “indici di fraudolenza”) – le condotte contestate furono comunque compiute da una societa’ tutt’altro che in bonis, al di la’ degli apparenti risultati di bilancio ed a nulla rilevando la potenziale disponibilita’ di chi riceveva un finanziamento sine titulo a ripetere la somma senza troppe difficolta’.
Ne’, in difetto di specifici comportamenti di reintegro del patrimonio, speculari a quelli di segno depauperativo, possono assumere rilievo i pur comprovati finanziamenti operati dal (OMISSIS) a beneficio della “(OMISSIS)”, con risorse personali: condotte suscettibili di essere valutate, come in effetti accaduto, ai soli fini della concessione di eventuali circostanze attenuanti.
Fra l’altro, i giudici di merito (v. ancora una volta, piu’ diffusamente, la sentenza di primo grado) pongono in evidenza come il subaffitto all’associazione sportiva intervenne dopo che la societa’ facente capo al (OMISSIS) si era fatta carico di onerosi lavori di ristrutturazione, malgrado l’espressa previsione che quelle migliorie non sarebbero state rimborsate dall’ente proprietario: previsione inserita nel contratto di locazione costituente il presupposto della disponibilita’ dell’immobile, ma alla cui stesura si era addirittura proceduto a lavori ultimati. Si palesa pertanto ineccepibile l’assunto del Tribunale, ribadito dalla Corte territoriale, secondo cui l’avere intavolato e definito transattivamente ipotesi di accordo con l’Autorita’ Portuale, al fine di superare quella pur esplicita pattuizione contraria agli interessi della fallita, deve intendersi un post factum rispetto ad una fattispecie criminosa oramai perfezionata.
3. Il rigetto del ricorso comporta la condanna del (OMISSIS) al pagamento delle spese del presente giudizio di legittimita’.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.
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