Procura ad litem e differenza dal contratto di patrocinio

Corte di Cassazione, civile, Ordinanza|4 settembre 2024| n. 23722.

Procura ad litem e differenza dal contratto di patrocinio

In tema di attività professionale svolta da avvocati, mentre la procura ad litem costituisce un negozio unilaterale soggetto a forma scritta, con il quale il difensore viene investito del potere di rappresentare la parte in giudizio, il mandato sostanziale o contratto di patrocinio costituisce un negozio bilaterale, con il quale il professionista viene incaricato, secondo lo schema negoziale che è proprio del mandato e del contratto d’opera, di svolgere la sua opera professionale in favore della parte, sicché, ai fini della conclusione del contratto di patrocinio, non è indispensabile il rilascio di una procura ad litem, essendo questa necessaria solo per lo svolgimento dell’attività processuale, né è richiesta la forma scritta, vigendo per il mandato il principio di libertà di forma.

Ordinanza|4 settembre 2024| n. 23722. Procura ad litem e differenza dal contratto di patrocinio

Data udienza 12 giugno 2024

Integrale

Tag/parola chiave: AVVOCATO – Procura ad litem – Differenza dal contratto di patrocinio – Necessità per quest’ultimo della forma scritta – Esclusione. (Cc, articolo 2729)

REPUBBLICA ITALIANA

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta da

Dott. FALASCHI Milena – Presidente

Dott. PAPA Patrizia – Consigliere

Dott. GIANNACCARI Rossana – Consigliere

Dott. BESSO MARCHEIS Chiara – Consigliere

Dott. PIRARI Valeria – Consigliere-Relatore

ha pronunciato la seguente
ORDINANZA

sul ricorso iscritto al n. 6823/2019 R.G. proposto da

Pe.An. rappresentata e difesa dall’avv. An.Ve. ed elettivamente domiciliata in Roma, via (…), presso lo studio legale Conte;

– ricorrente –

contro

Le.Ug., rappresentato e difeso dall’avv. Li. ed elettivamente domiciliato in Roma, via (…), presso lo studio dell’avv. Ma.;

-controricorren te –

Avverso la sentenza n. 1955/2018 della Corte d’Appello di Bologna, depositata il 17/7/2018 e non notificata;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 12 giugno 2024 dalla dott.ssa Valeria Pirari.

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RILEVATO CHE:

1. Pe.An. propose opposizione davanti al Tribunale di Bologna avverso il decreto ingiuntivo n. 3782/10 chiesto e ottenuto dall’avv. Le.Ug. per il pagamento delle proprie competenze professionali nella misura di Euro 8.692,53, eccependo la propria carenza di legittimazione passiva, in quanto ogni onere connesso all’incarico difensivo svolto dal predetto difensore avrebbe dovuto essere assunto dall’organizzazione sindacale di categoria alla quale essa era iscritta.

Con sentenza n. 20981/12, il Tribunale di Bologna accolse l’opposizione ritenendo rilevante uno schema di convenzione tra l’organizzazione sindacale e l’avv. Le.Ug. privo di sottoscrizione, nel quale si affermava che il sindacato avrebbe provveduto al pagamento delle spese legali per la tutela dei propri iscritti. Il giudizio d’appello, incardinato dall’avv. Le.Ug., si concluse, nella resistenza di Pe.An., con sentenza n. 1955/18, pubblicata il 17 luglio 2018, con la quale la Corte d’Appello di Bologna accolse l’appello e, in riforma della sentenza impugnata, respinse l’opposizione a decreto ingiuntivo.

Per quanto qui rileva, i giudici d’appello ritennero che le due prove addotte dall’opponente al fine di dimostrare che la prestazione professionale del difensore rientrava nell’ambito di un accordo intercorso tra questi e il sindacato al quale essa era iscritta, in virtù del quale le attività professionali svolte dal primo in favore degli iscritti sarebbero state pagate dallo stesso sindacato, non fossero all’uopo idonee, non essendolo né lo schema di convenzione inviato dal difensore al sindacato, in quanto non recava la firma di quest’ultimo e si inseriva nell’ambito di una trattativa, né la richiesta di pagamento del difensore al sindacato con richiamo a non meglio precisate intese pregresse, in quanto seguito dalla corresponsione, mediante vaglia, di un importo inferiore al dovuto e dal rifiuto del legale di riceverlo, e che la notula del difensore fosse stata redatta in conformità all’attività svolta e nel rispetto della tariffa professionale all’epoca vigente, sicché non vi erano ragioni per disattendere il parere di congruità dell’ordine di appartenenza. 2. Contro la predetta sentenza, Pe.An. propone ricorso per cassazione sulla base di tre motivi, illustrati anche con memoria. Le.Ug. resiste con controricorso.

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CONSIDERATO CHE:

1. Con il primo motivo di ricorso si lamenta la violazione o falsa applicazione degli artt. 115, 116, cod. proc. civ. e 2729 cod. civ., per mancato utilizzo delle prove a fondamento della decisione e per la disapplicazione dell’articolo 2729 cod. civ., in relazione all’art. 360, n. 3, cod. proc. civ., perché la Corte d’Appello, pur ammettendo la possibilità che il rapporto di mandato professionale possa far capo ad un terzo, con assunzione dell’obbligo al compenso, rispetto al patrocinato, aveva ritenuto che, stante l’eccezionalità della figura, andasse fornita all’uopo una prova rigorosa e aveva così frazionato le prove offerte, analizzandone alcune, trascurandone altre ed evidenziando l’inidoneità probatoria dell’ipotesi di convenzione inviata dal primo al secondo e non sottoscritta da quest’ultimo e della richiesta di pagamento inoltrata al sindacato dal difensore. Ad avviso della ricorrente, i giudici non avevano considerato che la proposta di collaborazione professionale per un periodo di tre mesi era stata inviata dal difensore il 24/3/2004, che lo scambio di mail tra il vecchio difensore del sindacato e l’opposto era avvenuto, quanto alla posizione della ricorrente, tra il 14 e il 16/4/2004, che lo scambio di mail tra entrambi e il sindacato per il passaggio di consegne era avvenuto il 16/4/2004, che l’incarico professionale era stato conferito il 6/5/2004, che la prima richiesta di pagamento era stata inviata dal legale al solo sindacato, probabilmente perché considerato debitore esclusivo, che il sindacato aveva provveduto al pagamento, ancorché non accettato dal difensore, e che erano intercorse, in tempo non sospetto, varie interlocuzioni tra l’opposto e il legale che gli era subentrato nel sindacato, elementi questi che, se considerati unitariamente, avrebbero condotto a ritenere sussistente un rapporto contrattuale tra il predetto difensore e il sindacato medesimo.

2. Con il secondo motivo di ricorso si lamenta la nullità della sentenza, la violazione e falsa applicazione dell’art. 132 cod. proc. civ., la motivazione inesistente e comunque apparente con riguardo all’esclusione del rapporto di mandato con il sindacato, in relazione all’art. 360, n. 4, cod. proc. civ., per avere i giudici di merito fondato la decisione sulla base della natura eccezionale del conferimento di mandato difensivo da soggetto diverso dal sottoscrittore della procura e avere escluso, nella specie, detta situazione in quanto il difensore aveva rifiutato il pagamento effettuato dal sindacato, senza, invece, considerare le prove acquisite nella loro unitarietà, ma parcellizzandole e rendendo una motivazione apparente in quanto inidonea a far comprendere l’iter logico seguito per discostarsi dal ragionamento del giudice di primo grado, oltreché insanabilmente viziata e contraddittoria.

3. Con il terzo motivo di ricorso, subordinato ai precedenti, si lamenta l’omesso esame di fatti del giudizio essenziali ai fini del giudizio e oggetto di discussione tra le parti e la pedissequa adesione alle richieste prospettate dal legale quanto alla quantificazione dei compensi, in relazione all’art. 360, n. 5, cod. proc. civ.; nonché la nullità della sentenza per violazione e falsa applicazione dell’art. 132 cod. proc. civ., per motivazione insussistente e comunque apparente in ordine alla quantificazione dei compensi per l’attività resa dall’avv. Le.Ug. e per la mancata decurtazione delle somme già messe a disposizione dal sindacato al professionista, in relazione all’art. 360, n. 5, cod. proc. civ., per avere i giudici di merito affermato che la parcella del difensore fosse stata redatta in conformità all’attività svolta e nel rispetto della tariffa professionale vigente, così da non doversi disattendere il parere di conformità reso dall’ordine professionale, senza considerare che detto parere non è vincolante per il giudice dell’opposizione, ma soltanto per il giudice del monitorio, in quanto non idoneo a provare l’effettiva esecuzione delle prestazioni indicate nella parcella, che alcune voci inserite non corrispondevano ad attività svolte, che le voci “studio della controversia” e “redazione dell’atto conclusivo” erano eccessive e quelle “consultazioni con il cliente” e “ricerca ed esame documenti” riguardavano attività non eseguite e che era altresì errato lo scaglione di riferimento utilizzato, indicato come di valore indeterminabile, prossimo ai massimi e incongruente con la difficoltà della causa di lavoro seguita, che aveva ad oggetto il riconoscimento alla ricorrente, in attuazione degli accordi sindacali in tema di mobilità, di scegliere il reparto cui essere assegnata e aveva visto liquidati dal giudice del lavoro compensi per Euro 2.000,00 oltre accessori. Infine, ad avviso della ricorrente, sarebbe spettato al difensore dimostrare e giustificare lo scaglione utilizzato, così come egli avrebbe potuto accettare in acconto quanto liquidatogli dal sindacato.

4.1 Il primo e il secondo motivo, da trattare congiuntamente in quanto afferenti al medesimo thema decidendum relativo all’utilizzo e valutazione delle prove presuntive, ora trattato in termini di violazione di legge, ora di difetto di motivazione, sono infondati.

Quanto al difetto di motivazione di cui alla seconda censura, si osserva come, dopo la riformulazione dell’art. 360, primo comma, n. 5), cod. proc. civ., disposta dall’art. 54 del D.L. 22 giugno 2012, n. 83, convertito dalla legge 7 agosto 2012, n. 134, non siano più ammissibili nel ricorso per cassazione le censure di contraddittorietà e insufficienza della motivazione della sentenza di merito impugnata, in quanto il sindacato di legittimità sulla motivazione resta circoscritto alla sola verifica della violazione del “minimo costituzionale” richiesto dall’art. 111, comma 6, Cost., individuabile nelle ipotesi – che si convertono in violazione dell’art. 132, comma 2, n. 4, c.p.c. e danno luogo a nullità della sentenza – di “mancanza della motivazione quale requisito essenziale del provvedimento giurisdizionale”, di “motivazione apparente”, di “manifesta ed irriducibile contraddittorietà” e di “motivazione perplessa od incomprensibile”, e dunque di totale carenza di considerazione della domanda e dell’eccezione sottoposta all’esame del giudicante, il quale manchi completamente perfino di adottare un qualsiasi provvedimento, quand’anche solo implicito, di accoglimento o di rigetto, invece indispensabile alla soluzione del caso concreto, al di fuori delle quali il vizio di motivazione può essere dedotto solo per omesso esame di un “fatto storico”, che abbia formato oggetto di discussione e che appaia “decisivo” ai fini di una diversa soluzione della controversia (Cass., Sez. 5, 6/5/2020, n. 8487; Cass., Sez. 2, 13/08/2018, n. 20721; Cass., Sez. 3, 12/10/2017, n. 23940; Cass., Sez. 6 – 3, 20/11/2015, n. 23828; Cass., Sez. 6 – 3, 08/10/2014, n. 21257; Cass., Sez. U, 07/04/2014, n. 8053).

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Orbene, i giudici di merito hanno chiaramente argomentato sulle ragioni per le quali hanno ritenuto di accogliere l’appello proposto dall’appellante, analizzando le prove documentali raccolte e valutandone la portata dimostrativa, alla luce delle deduzioni difensive delle parti, sicché deve escludersi che sussista il difetto di motivazione lamentato con la censura, la quale è, dunque, infondata.

4.2 Quanto al vizio di violazione di legge di cui alla prima censura, occorre innanzitutto rigettare l’eccezione di inammissibilità della stessa per difetto di specificità correlato all’omessa descrizione dei documenti in esso richiamati, atteso che il n. 6 dell’art. 366 cod. proc. civ., impone di indicare specificamente gli atti processuali e i documenti sui quali il ricorso si fonda (vedi Cass., Sez. 5, 18/11/2015, n. 23575; Cass., Sez. 5, 15/01/2019, n. 777), mediante la riproduzione diretta o indiretta del contenuto che sorregge la censura, precisando, in quest’ultimo caso, la parte del documento cui quest’ultima corrisponde (Cass., Sez. 5, 15/07/2015, n. 14784; Cass., Sez. 6-1, 27/07/2017, n. 18679) e i dati necessari all’individuazione della sua collocazione quanto al momento della produzione nei gradi dei giudizi di merito (vedi Cass., Sez. 5, 18/11/2015, n. 23575; Cass., Sez. 5, 15/01/2019, n. 777), e che la ricorrente non soltanto ha, nella specie, sinteticamente esposto il contenuto dei documenti non esaminati, ma ha anche richiamato la posizione di ciascuno di essi nel fascicolo del giudizio di primo grado, indicandone il numero di allegato, ciò che rende del tutto infondato il rilievo.

4.3 È invece fondata l’eccezione di inammissibilità fondata sulla natura meritale della censura.

Al riguardo, occorre ricordare come, secondo quanto già chiarito da questa Corte, i concetti di violazione e falsa applicazione di legge di cui all’art. 360, primo comma, n. 3, cod. proc. civ., descrivono i due momenti in cui si articola il giudizio di diritto, ossia a) quello concernente la ricerca e l’interpretazione della norma ritenuta regolatrice del caso concreto e b) quello afferente all’applicazione della norma stessa una volta correttamente individuata ed interpretata, investendo il vizio di violazione di legge immediatamente la regola di diritto, in quanto si risolve nella negazione o affermazione erronea dell’esistenza o inesistenza di una norma, ovvero nell’attribuzione ad essa di un contenuto che non possiede, avuto riguardo alla fattispecie in essa delineata, e consistendo il vizio di falsa applicazione di legge o nell’assumere la fattispecie concreta giudicata sotto una norma che non le si addice, perché la fattispecie astratta da essa prevista – pur rettamente individuata e interpretata – non è idonea a regolarla, o nel trarre dalla norma, in relazione alla fattispecie concreta, conseguenze giuridiche che contraddicano la pur corretta sua interpretazione. Non rientra nell’ambito applicativo del ridetto art. 360, primo comma, n. 3, invece, l’allegazione di un’erronea ricognizione della fattispecie concreta a mezzo delle risultanze di causa che è, invece, esterna all’esatta interpretazione della norma e inerisce alla tipica valutazione del giudice di merito, sottratta perciò al sindacato di legittimità (cfr. Cass., Sez. 1, 14/01/2019, n. 640).

Orbene, la questione sollevata dalla ricorrente attiene alla violazione e falsa applicazione delle norme in tema di prova presuntiva applicate, a suo dire, alla dimostrazione della divaricazione asseritamente esistente tra conferimento di mandato professionale e procura alle liti.

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A tal riguardo, occorre prendere le mosse dal principio, già affermato da questa Corte, secondo cui, in tema di attività professionale svolta da avvocati, mentre la procura ad litem costituisce un negozio unilaterale soggetto a forma scritta, con il quale il difensore viene investito del potere di rappresentare la parte in giudizio, il mandato sostanziale o contratto di patrocinio

costituisce un negozio bilaterale, con il quale il professionista viene incaricato, secondo lo schema negoziale che è proprio del mandato e del contratto d’opera, di svolgere la sua opera professionale in favore della parte (Cass., Sez. 6-3, 31/3/2021, n. 8863; Cass., Sez. 3, 8/6/2017, n. 14276), sicché, ai fini della conclusione del contratto di patrocinio, non è indispensabile il rilascio di una procura ad litem, essendo questa necessaria solo per lo svolgimento dell’attività processuale, né è richiesta la forma scritta, vigendo per il mandato il principio di libertà di forma (Cass., Sez. 2, 16/6/2006, n. 13963). Peraltro, poiché tra la parte e il difensore si stabilisce, in ordine al conferimento dell’incarico, un rapporto interno extraprocessuale che è ben distinto dal mandato ad litem ed è disciplinato, come si è detto, dalle norme di un ordinario mandato di diritto sostanziale, cliente non è sempre chi rilascia la procura ad litem, ma colui che affida il mandato di patrocinio al legale e che può essere anche un soggetto diverso dal sottoscrittore della procura (Cass., Sez. 2, 27/12/2004, n. 24010; Cass., Sez. 2, 15/1/2000, n. 405). In tal caso, instaurandosi collateralmente al rapporto con la parte che abbia rilasciato la procura ad ad litem, un altro distinto rapporto interno ed extraprocessuale (Cass., Sez. 2, 29/8/2014, n. 18450), regolato dalle norme di un ordinario mandato, in virtù del quale la posizione del cliente viene assunta non dal patrocinato, ma da chi ha chiesto per lui l’opera professionale, obbligato a corrispondere il compenso professionale al difensore per l’opera professionale richiesta, se e in quanto la stessa sia stata svolta, non è colui che ha rilasciato la procura alla lite, ma colui che ha affidato al legale il mandato di patrocinio, anche se questo sia stato richiesto e si sia svolto nell’interesse di un terzo (Cass., Sez. 2, 27/12/2004, n. 24010; Cass., Sez. 2, 15/1/2000, n. 405; Cass., Sez. 2, 8/6/1996, n. 5336; Cass., Sez. 2, 6/12/1988, n. 6631; Cass., Sez. 2, 26/1/1981, n. 579), sicché chi agisce per il conseguimento del compenso ha l’onere di provare il conferimento dell’incarico da parte del terzo, dovendosi, in difetto, presumere che il cliente sia colui che ha rilasciato la procura (Cass., Sez. 2, 28/3/2012, n. 4959; Cass., Sez. 2, 27/12/2004, n. 24010; Cass., Sez. 2, 6/12/1988, n. 6631), così come spetta a colui che ha rilasciato la procura alle liti e, richiesto giudizialmente del compenso, contesti la propria qualità di cliente dimostrare con ogni mezzo e, dunque, anche per testimoni (in tal senso, Cass., Sez. 6-3, 31/3/2021, n. 8863) e presunzioni, stante la libertà di forme, la riconducibilità del mandato di patrocinio a persona diversa, senza che si verifichi, in tal caso, un’ipotesi di litisconsorzio necessario con quest’ultima (Cass., Sez. 2, 4/12/1967, n. 2880).

Ebbene, la prova offerta nei gradi di merito dalla ricorrente si è sostanziata in una pluralità di documenti, dalla cui lettura combinata discenderebbe, a suo dire, la prova presuntiva della riconducibilità del mandato al sindacato, ritenuta, invece, non integrata dai giudici di merito in ragione della sua valutazione atomistica, come evidenziato nella censura. Orbene, questa Corte, pur consapevole del fatto che il giudice, una volta valutati analiticamente gli elementi indiziari offerti onde scartare quelli intrinsecamente privi di rilevanza e conservare, invece, quelli che, presi singolarmente, rivestano i caratteri della precisione e della gravità, deve procedere ad una valutazione complessiva di tutti gli elementi presuntivi isolati, da valutarsi gli uni per mezzo degli altri e non singolarmente, e accertare la loro concordanza (c.d. convergenza del molteplice) (Cass., Sez. 3, 9/3/2012, n. 3703; Cass., Sez. 1, 13/10/2005, n. 19894), non può non osservare come spetti, però, al giudice di merito valutare l’opportunità di fare ricorso alle presunzioni, individuare i fatti da porre a fondamento del relativo processo logico e valutarne la rispondenza ai requisiti di legge, con apprezzamento di fatto che, ove adeguatamente motivato, sfugge al sindacato di legittimità, dovendosi tuttavia rilevare che la censura per vizio di motivazione in ordine all’utilizzo o meno del ragionamento presuntivo non può limitarsi a prospettare l’ipotesi di un convincimento diverso da quello espresso dal giudice di merito, ma deve fare emergere l’assoluta illogicità e contraddittorietà del ragionamento decisorio, restando peraltro escluso che la sola mancata valutazione di un elemento indiziario possa dare luogo al vizio di omesso esame di un punto decisivo (Cass., Sez. 3, 11/5/2007, n. 10847; Cass., Sez. L, 21/10/2003, n. 15737; Cass., Sez. L, 17/4/2002, n. 5526). Nella specie, la Corte d’Appello non ha fatto in alcun modo ricorso a tale mezzo di prova, di cui infatti non vi è richiamo in motivazione, essendosi limitata ad analizzare l’idoneità probatoria di soli due documenti, ossia lo schema di convenzione e la richiesta di pagamento dei compensi inoltrata dal difensore al sindacato, ritenendoli non indicativi di un distinto rapporto di patrocinio con quest’ultimo.

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Non può allora la ricorrente dolersi della mancata considerazione unitaria degli elementi indiziari offerti, senza che a tale mezzo istruttorio il giudice di merito abbia fatto ricorso, mentre la valutazione delle prove, così come la ricostruzione della vicenda fattuale, costituisce attività discrezionale ad esso riservata in via esclusiva e non è sindacabile con il ricorso per cassazione, potendo l’omessa ammissione della prova essere denunciata solo nel caso in cui essa abbia determinato l’assenza di motivazione su un punto decisivo della controversia e, quindi, ove la prova non ammessa ovvero non esaminata in concreto sia idonea a dimostrare circostanze tali da invalidare, con un giudizio di certezza e non di mera probabilità, l’efficacia delle altre risultanze istruttorie che hanno determinato il convincimento del giudice di merito (Cass., Sez. 1, 3/7/2023, n. 18857; Cass. 29/10/2018, n. 27415; Cass. 19/07/2021, n. 20553). Deve escludersi allora la lamentata violazione di legge, non rientrando nell’ambito applicativo dell’art. 360, primo comma, n. 3, cod. proc. civ., l’allegazione di un’erronea ricognizione della fattispecie concreta a mezzo delle risultanze di causa che è, invece, esterna all’esatta interpretazione della norma e inerisce alla tipica valutazione del giudice di merito, sottratta perciò al sindacato di legittimità (cfr. Sez. 1, Ordinanza n. 640 del 14/01/2019).

Consegue da quanto detto l’infondatezza delle censure.

5. Il terzo motivo è inammissibile.

Come questa Corte ha avuto modo di affermare, infatti, la parte pienamente vittoriosa nel merito in primo grado, in ipotesi di gravame formulato dal soccombente, non ha l’onere di proporre appello incidentale in relazione alle proprie domande o eccezioni non accolte (perché superate o non esaminate in quanto assorbite), ma deve solo riproporle espressamente nel giudizio di impugnazione, al fine di evitare la presunzione di rinunzia derivante da un contegno omissivo, non essendo a tal fine sufficiente, peraltro, un generico richiamo alle “eccezioni” contenute nelle difese del precedente grado di giudizio, siccome inidoneo a manifestare in modo specifico la volontà di riproporre una determinata domanda o eccezione (Cass., Sez. 3, 1/12/2023, n. 33649; Cass., Sez. 2, 28/8/2017, n. 20451). Nella specie, non risulta che la ricorrente, ancorché vittoriosa in primo grado, abbia riproposto in appello le questioni afferenti al quantum della pretesa del difensore, con conseguente inammissibilità della censura.

6. In conclusione, dichiarata l’infondatezza delle prime due censure e l’inammissibilità della terza, il ricorso deve essere rigettato. Le spese del giudizio, liquidate come in dispositivo, seguono la soccombenza a devono essere poste a carico della ricorrente.

Ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater del D.P.R. n. 115 del 2002, occorre dare atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della stessa ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma 1-bis dello stesso articolo 13, se dovuto.

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P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso.

Condanna la ricorrente al pagamento, in favore della controricorrente, delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 2.000,00 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi liquidati in Euro 200,00 ed agli accessori di legge.

Ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, del D.P.R. n. 115 del 2002, inserito dall’art. 1, comma 17, legge n. 228 del 2012, dichiara la sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte della ricorrente del contributo unificato previsto per il ricorso a norma dell’art. 1-bis dello stesso art. 13, se dovuto.

Così deciso in Roma nella camera di consiglio della Seconda Sezione civile in data 12 giugno 2024.

Depositato in Cancelleria il 4 settembre 2024.

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