Notifica ricorso cassazione fatta a mezzo della PEC istituzionale del ricorrente

Corte di Cassazione, civile, Ordinanza|2 settembre 2024| n. 23481.

Notifica ricorso cassazione fatta a mezzo della PEC istituzionale del ricorrente

Non è nulla in quanto consente di individuare senza dubbi sia la parte ricorrente sia il difensore, in quanto l’atto li contiene tutti regolarmente, la notificazione del ricorso per cassazione effettuata redatto dall’avvocato munito di procura speciale e autorizzato ai sensi dell’art. 7 L. 53/1994 fatta a mezzo della PEC istituzionale del ricorrente. Tale notificazione è regolare perché rende riconoscibile la trasmissione come fatta da un soggetto dotato delle competenze giuridiche per farlo e quindi regolare.

Ordinanza|2 settembre 2024| n. 23481. Notifica ricorso cassazione fatta a mezzo della PEC istituzionale del ricorrente

Data udienza 13 giugno 2024

Integrale

Tag/parola chiave: Sanità – Prestazioni riabilitative in favore di invalidi e portatori handicap – Prestazioni extra regione ’art. 26 della legge 833/1978 – Meccanismo della compensazione interregionale – Esclusione – Pagamento dietro presentazione di fattura – Contratto in forma scritta con la Asl – Necessità anche durante il regime di accreditamento provvisorio – Inesistenza della notificazione del ricorso per cassazione – Nozione – Notifica a mezzo pec del ricorso per cassazione da parte del difensore munito di procura ed autorizzato ex art. 7 legge n. 53/1994 – Utilizzo di casella di posta elettronica certificata di altro avvocato – Inesistenza della notifica – Esclusione

REPUBBLICA ITALIANA

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. VALITUTTI Antonio – Presidente

Dott. SCOTTI Umberto L. C. G. – Consigliere

Dott. PARISE Clotilde – Consigliere

Dott. MARULLI Marco – Consigliere

Dott. RUSSO Rita Elvira Anna – Consigliere – Rel.

ha pronunciato la seguente
ORDINANZA

sul ricorso iscritto al n. 24788/2021 R.G. proposto da:

AZIENDA SANITARIA LOCALE ROMA 3, in persona del legale rappresentante elettivamente domiciliato in ROMA VIA (…), presso lo studio dell’avvocato DI.CA. (omissis) che lo rappresenta e difende;

– ricorrente –

Contro

PROVINCIA ITALIANA DELLA CONGREGAZIONE (…), in persona del legale rappresentante, elettivamente domiciliato in ROMA (…), presso lo studio dell’avvocato CR.RO. (omissis) che lo rappresenta e difende unitamente all’avvocato MA.RO. (omissis);

– controricorrente –

avverso la SENTENZA della CORTE D’APPELLO ROMA n. 1425/2021 depositata il 23/02/2021.

Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 13/06/2024 dal Consigliere RITA ELVIRA ANNA RUSSO.

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FATTI DI CAUSA

La Congregazione, quale gestore del Centro riabilitativo Casa Se., di accoglienza adulti con deficit cognitivi, ha chiesto e ottenuto decreto ingiuntivo di pagamento per prestazioni riabilitative in favore di invalidi e portatori handicap residenti nella Regione Lazio, rese ai sensi dell’art. 26 della legge n. 833/1978, con applicazione della tariffa giornaliera di Euro 138,00 stabilita dalla delibera di Giunta della Regione Umbria n. 182/ 2009.

La Asl ha proposto opposizione e ha dedotto che le prestazioni erano già state liquidate secondo la tariffa giornaliera di Euro 118,79 di cui alla delibera di Giunta della Regione Lazio n. 380/2010, applicabile al caso di specie.

Il Tribunale ha accolto l’ opposizione.

La Corte d’Appello, in accoglimento dell’appello della Congregazione, ha ritenuto invece applicabile la tariffa stabilita dalla delibera di Giunta della Regione Umbria, in considerazione della diversa collocazione territoriale nella quale opera la struttura e dell’assenza di una specifica convenzione o accordo tra la Congregazione e l’Asl di Roma. La Corte d’Appello ha rilevato che, avendo ciascuna Regione una potestà normativa che esaurisce la propria efficacia all’interno del territorio di competenza, non può ritenersi applicabile la delibera della Giunta della Regione Lazio al di fuori del territorio laziale, non essendo ravvisabile alcuna ultrattività in senso spaziale della normativa regionale.

Avverso la predetta sentenza ha proposto ricorso per cassazione la Asl Roma 3, affidandosi a sei motivi.

La Congregazione si è difesa con controricorso. Entrambe le parti hanno depositato memoria.

La causa è stata trattata alla udienza camerale non partecipata del 13 giugno 2024.

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RITENUTO CHE

1. – Preliminarmente si esamina la eccezione di inammissibilità del ricorso.

La controricorrente rileva che il ricorso è stato notificato a mezzo pec da un avvocato non munito di procura alle liti, e pertanto la notificazione sarebbe insistente e quindi non sanabile e non sanata dalla sua costituzione.

1.2. – L’eccezione è infondata.

La relata di notifica è stata redatta dall’avvocato Ca.Ca., difensore munito di procura, la quale, spendendo il proprio nome come autore della notifica, ha dichiarato di essere stata autorizzata ai sensi dell’art. 7 della legge n. 53/1994 dal Consiglio dell’ordine degli avvocati di Roma; la notifica è stata poi materialmente eseguita tramite la casella di posta elettronica certificata dell’avvocato Fa.Fe., con account intestato alla Asl di Roma (fabio.ferrrara@pec.aslromad.it); l’avvocato Ca.Di. ha poi attestato la conformità dell’atto notificato in forma digitale per mezzo della suddetta casella di posta elettronica.

Si osserva quindi che, per giurisprudenza costante, la materiale attività notificatoria può anche essere delegata ad altro avvocato purché munito della debita autorizzazione da parte del Consiglio dell’ordine (Cass. n. 19294 del 29/09/2016; Cass. n. 14840 del 07/06/2018; Cass. n. 2415 del 04/02/2020). Inoltre, le ipotesi di inesistenza della notifica sono ridotte – secondo le sezioni unite di questa Corte e la costante giurisprudenza successiva – alle sole ipotesi in cui venga posta in essere un’attività priva degli elementi costitutivi essenziali idonei a rendere riconoscibile un atto qualificabile come notificazione, ricadendo ogni altra ipotesi di difformità dal modello legale nella categoria della nullità (Cass. S.U. n. 14916 del 20/07/2016). Si è affermato che l’inesistenza della notificazione del ricorso per cassazione è configurabile, in base ai principi di strumentalità delle forme degli atti processuali e del giusto processo, oltre che in caso di totale mancanza materiale dell’atto, nelle sole ipotesi in cui venga posta in essere un’attività priva degli elementi costitutivi essenziali idonei a rendere riconoscibile un atto qualificabile come notificazione, ricadendo ogni altra ipotesi di difformità dal modello legale nella categoria della nullità. Tali elementi consistono: a) nell’attività di trasmissione, svolta da un soggetto qualificato, dotato, in base alla legge, della possibilità giuridica di compiere detta attività, in modo da poter ritenere esistente e individuabile il potere esercitato; b) nella fase di consegna, intesa in senso lato come raggiungimento di uno qualsiasi degli esiti positivi della notificazione previsti dall’ordinamento (in virtù dei quali, cioè, la stessa debba comunque considerarsi, ex lege, eseguita), restando, pertanto, esclusi soltanto i casi in cui l’atto venga restituito puramente e semplicemente al mittente, così da dover reputare la notificazione meramente tentata ma non compiuta, cioè, in definitiva, omessa.

1.3. – Applicando di questi principi al caso di specie, si deve ritenere che la notifica a mezzo pec del ricorso per cassazione, effettuata dal difensore munito di procura ed autorizzato ex art. 7 legge n. 53/1994, ma avvalendosi materialmente della casella di posta elettronica certificata di altro avvocato, casella di posta peraltro riconducibile all’account istituzionale della parte ricorrente, non è inesistente, dal momento che contiene tutti gli elementi utili ad identificare la parte ricorrente e il suo difensore, e a rendere riconoscibile detta attività di trasmissione come notificazione compiuta da un soggetto dotato della possibilità giuridica di compiere detta attività. La notifica deve quindi considerarsi regolare ed in ogni caso – non essendo inesistente -sanata dalla costituzione di controparte.

2. – Con il primo motivo del ricorso si lamenta ai sensi dell’art. 360 n. 3 c.p.c. la violazione e falsa applicazione degli artt. 17 e 18 del R.D. n. 2240/1994. La ricorrente premette che è pacifica la circostanza che non c’è accordo o convenzione tra la Regione Lazio e la struttura; rileva che nei rapporti con la pubblica amministrazione è necessario che l’accordo risulti da forma scritta come stabilisce la legge sulla contabilità di Stato e in mancanza dell’atto scritto non si perfeziona il rapporto obbligatorio, e quindi la struttura avrebbe potuto al più promuovere azione di ingiustificato arricchimento. In carenza di una specifica convenzione e sulla base di accordi mai trasfusi in convenzione scritta, si è in presenza di un comportamento di fatto privo di rilevanza sul piano giuridico.

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2.1. – Il motivo è inammissibile.

Deve rilevarsi che la struttura ha chiesto il decreto ingiuntivo di pagamento al fine di far liquidare le prestazioni già eseguite ex art. 26 della legge 833/1978, secondo la tariffa stabilita dalla regione Umbria, sul presupposto, quindi, della sussistenza di un valido rapporto obbligatorio inter partes. La Asl nel proporre opposizione ha dedotto- secondo quanto esposto alla pagina 3 del ricorso- di avere riconosciuto la erogazione delle prestazioni e di essersi opposta ai criteri di quantificazione, rappresentando che le fatture azionate erano già state liquidate con le tariffe di minor importo, previste dalla delibera di Giunta della Regione Lazio. Il thema decidendum resta così delimitato al quantum della pretesa, non risultando che la Asl, nel giudizio di primo grado, abbia proposto domanda né eccezione riconvenzionale in ordine alla inesistenza e nullità del rapporto obbligatorio, dichiarando anzi di aver provveduto al pagamento -secondo il proprio tariffario- delle fatture. La sentenza di primo grado, nel revocare il decreto ingiuntivo e pronunciare condanna per minor somma, presuppone l’implicito riconoscimento dell’esistenza e validità della obbligazione e non risulta che sul punto, sia stato proposto motivo di appello.

Di conseguenza la Corte d’Appello si è limitata a rilevare l’assenza di “qualsivoglia accordo o convenzione”, ma sempre con riferimento al quantum della pretesa, quanto al resto limitandosi ad osservare che il ricovero extraregione era stato autorizzato e la prestazione eseguita. Del resto, è la stessa ricorrente, nel motivo quinto, a rilevare, così contraddicendo le deduzioni del motivo primo, che al Centro era stata inviata, sin dal 27 ottobre 2010, una nota (prot. (omissis)) con la quale si era precisato che le prestazioni, purché autorizzate, sarebbero state remunerate sulla base della delibera di Giunta della Regione Lazio n. 380/2010, sicché non può dirsi che manchi un atto scritto e debitamente comunicato alla controparte in ordine all’impegno di pagare secondo la (minore) tariffa laziale.

Il motivo, pertanto, sconta plurimi profili di inammissibilità e tra questi anche quello di specificità e chiarezza.

3. – Con il secondo motivo del ricorso si lamenta ai sensi dell’art 360 n. 4 c.p.c. il vizio di motivazione. Secondo la parte ricorrente la motivazione è contraddittoria perché, nonostante il giudice di secondo grado abbia preliminarmente accertato l’assenza di qualsivoglia accordo o convenzione, nondimeno ha applicato la tariffa della Regione Umbria, mentre ha, poi, rigettato la domanda relativa agli interessi, in assenza di un contratto tra le parti, in tal modo, incorrendo in una evidente incongruenza logica nella complessiva argomentazione.

3.1 – Con il terzo motivo del ricorso si lamenta ai sensi dell’art. 360 n. 3 c.p.c. la violazione e falsa applicazione dell’art. 26 della legge n. 833/1978 nonché del D.Lgs. n. 502/1992; degli artt. 13 e 18 della legge regionale del Lazio n. 4/2003 e dell’art. 2 della legge regionale del Lazio n. 18 /1994. La ricorrente deduce che , ove si ritenesse sussistente un valido rapporto obbligatorio tra l’Asl di Roma e la controparte, quest’ultimo deve essere regolato su quanto disposto dalla delibera di Giunta della Regione Lazio n. 380/2010 e non sulla delibera di Giunta della Regione Umbria. Secondo la ricorrente la Corte d’Appello avrebbe confuso e sovrapposto i differenti ambiti di potestà regionale che si esplicano rispettivamente nella fissazione dei regimi tariffari per remunerare le prestazioni sanitarie e nella fissazione dei criteri per approvare l’accreditamento; ciascuna Regione ha il potere e dovere di fissare il proprio tetto massimo di spesa sanitaria e quindi le tariffe stabilite all’interno di una Regione non possono vincolare le altre Regioni. Osserva che la remunerazione non avviene tramite la compensazione ma con il rimborso diretto, dietro presentazione di fattura e perciò deve essere necessariamente ancorato al budget della Regione che autorizza il ricovero.

La Regione Umbria rileva la ricorrente – ha fissato nei limiti del proprio bilancio le tariffe, e allo stesso modo la Regione Lazio ha stabilito in relazione alle proprie finanze le tariffe con cui essa intende rimborsare le prestazioni sanitarie, e per questa ragione, pur essendo le prestazioni rese in territorio umbro, la tariffa applicabile sarà quella prevista dalla Regione Lazio in base alle proprie disponibilità economico finanziarie. Osserva ancora che il Centro ha stipulato un accordo con la Regione Umbria ai sensi dell’articolo 8-quinques del D.Lgs. n. 502/1992, per vedersi riconoscere le prestazioni sanitarie in base alle tariffe previste dalla delibera di Giunta dell’Umbria, che però impegna esclusivamente l’Asl di Perugia e la Regione Umbria, e non già l’Asl Roma Tre.

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3.2. – Con il quarto motivo del ricorso si lamenta ai sensi dell’art 360 n. 4 c.p.c. il vizio di motivazione. Secondo la ricorrente la motivazione della Corte d’Appello è una motivazione perplessa e incomprensibile nella misura in cui impone alla Regione Lazio sistemi tariffari stabiliti da un’altra Regione le cui determinazioni finiscono così per travalicare gli ambiti territoriali entro cui possono legittimamente avere valenza prescrittiva; cioè in contrasto con il principio dal quale la Corte ha preso mosse, e cioè che la potestà regionale si esercita nell’ambito del territorio della Regione.

3.3. – Con il quinto motivo del ricorso si lamenta ai sensi dell’art 360 n.5 c.p.c. l’omesso esame di fatto decisivo per il giudizio. La ricorrente deduce che la Corte d’Appello non ha considerato che le prestazioni sanitarie sono state rese nel primo trimestre del 2013 mentre la contestazione è avvenuta con raccomandata del 18 marzo 2013, e dunque dopo che il Centro don Gu. aveva già preso in carico i pazienti laziali ed erogato le prestazioni di riabilitazione. Di contro la Asl aveva inviato, già in data 27 ottobre 2010, una nota nella quale aveva palesato la volontà di applicare la tariffa giornaliera laziale.

4. – I motivi possono esaminarsi congiuntamente e sono fondati, nei termini di cui appresso.

Si discute, nel presente giudizio, di prestazioni extraregione eseguite ai sensi dell’art. 26 della legge 833/1978, il quale dispone che “le prestazioni sanitarie dirette al recupero funzionale e sociale dei soggetti affetti da minorazioni fisiche, psichiche o sensoriali, dipendenti da qualunque causa, sono erogate dalle unità sanitarie locali attraverso i propri servizi. L’unità sanitaria locale, quando non sia in grado di fornire il servizio direttamente, vi provvede mediante convenzioni con istituti esistenti nella regione in cui abita l’utente o anche in altre regioni, aventi i requisiti indicati dalla legge, stipulate in conformità ad uno schema tipo approvato dal Ministro della sanità, sentito il Consiglio sanitario nazionale”.

4.1. – Nel caso di specie, pacificamente, si tratta di prestazioni (riabilitative) per le quali non opera il meccanismo della compensazione interregionale, ma che sono remunerate direttamente dietro presentazione di fattura; è altrettanto pacifico che non vi è uno specifico accordo o convenzione tra la Asl Roma e il Centro riabilitativo della Congregazione per concordare una tariffa, né risulta che vi sia un accordo interregionale, ma solo la autorizzazione da parte di Asl Roma 3 al ricovero dei pazienti laziali in questa struttura, accreditata con la Regione Umbria, nonché la comunicazione del 27 ottobre 2010 di una nota (prot. (omissis)), con la quale si era precisato che le prestazioni autorizzate sarebbero state remunerate sulla base della delibera di Giunta della Regione Lazio n. 380/2010, comunicazione contestata dal Centro nel marzo 2013 e, secondo quanto rileva la ricorrente, non smentita sul punto, solo dopo la esecuzione delle prestazioni di cui si discute.

Non può dirsi quindi che manchi, a monte, un atto, in forma scritta, idoneo ad integrare la singola autorizzazione al ricovero con la dichiarata disponibilità al pagamento delle prestazioni autorizzate secondo le tariffe della regione Lazio, come di fatto è avvenuto. Manca invece tra le parti un accordo o convenzione, in forma scritta, sulla applicazione delle tariffe deliberate dalla Regione Umbria; tuttavia la struttura chiede ugualmente il pagamento in tal misura invocando la estensione delle tariffe deliberate dalla Regione Umbria e richiamate nel contratto da essa stipulato con tale Regione.

4.2. – Deve qui ricordarsi che l’obbligo per la struttura privata, già titolare di convenzione esterna ex lege n. 833 del 1978, di stipulare apposito contratto in forma scritta con la Asl sussiste anche durante il regime di accreditamento provvisorio o transitorio. Con tale contratto, per un verso, la struttura accetta e si vincola a rispettare le tariffe, le condizioni di determinazione della eventuale regressione tariffaria, nonché i limiti alla quantità di prestazioni erogabili alla singola struttura, fissati in relazione ai tetti massimi di spesa per l’anno di esercizio (stabiliti dalla Regione); per l’altro, l’ente pubblico assume l’obbligazione di pagamento dei corrispettivi in base alle tariffe previste per le prestazioni effettivamente erogate agli utenti, vincolandosi ad eseguirla secondo le modalità ed i tempi indicati nel contratto, che siano stati convenzionalmente stabiliti ovvero risultino applicabili in virtù di integrazione legislativa (Cass. 17588/2018; Cass. 30917/2018). Si tratta della nota sequenza delle “3 A” autorizzazione, accreditamento, accordo, previsto dal terzo comma dell’art. 8-bis del D.Lgs. 30 dicembre 1992, n. 502, come modificato dall’art. 8 del D.Lgs. 19 giugno 1999, n. 229, recante “Riordino della disciplina in materia sanitaria”, il quale dispone che “La realizzazione di strutture sanitarie e l’esercizio di attività sanitarie, l’esercizio di attività sanitarie per conto del Servizio sanitario nazionale e l’esercizio di attività sanitarie a carico del Servizio sanitario nazionale sono subordinate, rispettivamente, al rilascio delle autorizzazioni di cui all’articolo 8-ter, dell’accreditamento istituzionale di cui all’articolo 8-quater, nonché alla stipulazione degli accordi contrattuali di cui all’articolo 8-quinquies. La presente disposizione vale anche per le strutture e le attività socio-sanitarie”.

L’attività contrattuale si pone quindi necessariamente a valle della autorizzazione e dell’accordo, ed anche della fase autoritativa e di programmazione che compete alla Regione, la quale non solo definisce unilateralmente il tetto massimo annuale di spesa sostenibile con il fondo sanitario per singola istituzione o per gruppi di istituzioni ed i preventivi annuali delle prestazioni, ma vincola la successiva contrattazione determinandone modalità e indirizzi (Cons. Stato 12/04/2013 n.3).

5. – Sulla base di queste premesse, si può affermare che la Corte d’Appello è effettivamente incorsa in errore a ritenere che si tratti di questione attinente all’estensione territoriale della potestà legislativa della Regione, perché qui non è in gioco il rapporto tra le Regioni, a maggior ragione perché non opera il meccanismo della compensazione interregionale – ma il rapporto tra una struttura accreditata dalla Regione Umbria e la Asl operante nella Regione Lazio, da risolvere verificando se tra le parti vi è stato un accordo e in che termini. Il ragionamento sulla estensione della potestà territoriale delle Regioni, oltre a difettare di pertinenza, può essere agevolmente rovesciato; si afferma che la Regione Lazio non può imporre le sue tariffe alle strutture che operano nel territorio umbro, ma allo stesso modo potrebbe dirsi che la Regione Umbria non può imporre le sue tariffe alla Regione Lazio, a maggior ragione ove si consideri che ciascuna Regione deve rispettare i vincoli pubblici imposti dalla copertura finanziaria.

Ma, come sopra si diceva, non è una questione di estensione territoriale della potestà legislativa delle Regioni, né di imposizione normativa, quanto di verificare se tra le parti è stato concluso un accordo “a valle” dell’accreditamento e in che termini; e non rileva che un simile accordo sia stato concluso tra la struttura accreditata e la Regione Umbria, perché ogni Regione è soggetto giuridico a sé stante e l’art. 26 della legge 833/1978 consente di avvalersi di strutture aventi i requisiti di legge (e quindi l’accreditamento) operanti in altra Regione, ma pur sempre su base convenzionale.

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5.1 – Se tra le parti non vi è accordo – redatto in forma scritta e inquadrato nell’ambito di una convenzione nei termini previsti dall’art. 26 cit. – sulla applicazione delle tariffe umbre, non è consentito alla struttura, a fronte di un pagamento già spontaneamente eseguito secondo la tariffa laziale, di invocare una diversa e maggiore tariffa per le prestazioni extraregione eseguite, perché non spetta alla struttura convenzionata determinare le tariffe, ma alla Regione territorialmente competente a fissarle. La struttura può decidere in autonomia se vincolarsi o meno a quelle tariffe, ma non può modificarle con atto unilaterale;

e poiché il contratto ha effetto solo tra le parti (art 1372 c.c.), le tariffe che si applicano ad un certo contratto – segnatamente a quello con l’ente accreditante – non vincolano che le parti di quel contratto, e quindi le tariffe dell’accordo della struttura in questione con la Regione Umbria vincolano sono quest’ultima, e non anche la Regione Lazio.

6. – Con il sesto motivo del ricorso si lamenta ai sensi dell’art 360 n. 5 c.p.c. l’omesso esame di fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti. Secondo la ricorrente è irrilevante che remunerazioni per le prestazioni riabilitative sarebbero state erogate nel passato dalla Regione Lazio secondo la tariffa della Regione Umbria, generando così un affidamento in buona fede; infatti la remunerazione secondo le tariffe della Regione Umbria riguarda le prestazioni eseguite fino al 2010 mentre il provvedimento che fissa le nuove tariffe è la delibera di Giunta regionale n. 380 del 7 agosto 2010 di cui la Regione Lazio comunica l’applicazione al Centro con la nota del 27 ottobre del 2010. La ricorrente osserva che è irrilevante come siano state remunerate le prestazioni prima del vigore della predetta delibera di Giunta. Deduce che la Corte d’Appello non ha tenuto conto di questo fatto storico e cioè del fatto che si stava parlando di remunerazioni corrisposte prima dell’entrata in vigore della delibera.

7. – Con il settimo motivo del ricorso si lamenta ai sensi dell’art. 360 n. 4 c.p.c. la violazione dell’art. 112 c.p.c. e del principio di corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato. La ricorrente deduce, in ordine all’argomento dell’affidamento di buona fede, che la controparte non ha mai sollevato né in primo grado né in secondo alcuna eccezione in merito alla violazione dei principi di affidamento e di buona fede.

Entrambi i motivi sono assorbiti dall’accoglimento dei motivi secondo, terzo, quarto e quinto cui consegue la cassazione della sentenza impugnata e il rinvio alla Corte d’Appello di Roma in diversa composizione per un nuovo esame, alla luce del principio enunciati ai punti 5 e 5.1. della motivazione, e per la liquidazione delle spese anche del giudizio di legittimità.

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P.Q.M.

accoglie il secondo, terzo, quarto e quinto motivo del ricorso nei termini di cui in motivazione, dichiara inammissibile il primo, ed assorbiti il sesto e il settimo, e rinvia alla Corte d’Appello di Roma in diversa composizione per un nuovo esame e anche per la liquidazione delle spese del giudizio di legittimità.

Così deciso in Roma, il 13 giugno 2024.

Depositata in Cancelleria il 2 settembre 2024.

In caso di diffusione omettere le generalità e gli altri dati identificativi dei soggetti interessati nei termini indicati.

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