Corte di Cassazione, civile, Ordinanza|19 settembre 2024| n. 25187.
La molestia di diritto e l’obbligo di garanzia del locatore
La molestia di diritto, per la quale è stabilito l’obbligo di garanzia del locatore, si verifica quando un terzo, reclamando sul bene locato diritti reali o personali in conflitto con le posizioni accordate al conduttore dal contratto locativo, compie atti di esercizio della relativa pretesa implicanti la perdita o la menomazione del godimento del conduttore, con la conseguenza che, qualora la molestia non possa essere riferita alle posizioni accordate dal locatore sulla cosa locata, ma riguardi altre autonome situazioni di godimento dello stesso conduttore (non giustificate dalla specifica detenzione autonoma derivante dal contratto di locazione), si versa in ipotesi diversa da quella disciplinata dall’art. 1585 c.c. (In applicazione del principio, la S.C. ha escluso che l’esercizio del diritto del terzo, avente causa del locatore, di riaprire una porta di comunicazione tra l’immobile acquistato e quello concesso in locazione, precedentemente murata dalla conduttrice ai fini della concessione del certificato prevenzione incendi, costituisse molestia di diritto, non essendo sorto un conflitto col diritto accordato al conduttore con il contratto locativo).
Ordinanza|19 settembre 2024| n. 25187. La molestia di diritto e l’obbligo di garanzia del locatore
Data udienza 11 luglio 2024
Integrale
Tag/parola chiave: Locazione – Obbligazioni del locatore – Garanzia per molestie – Intervento in causa – Molestia di diritto – Nozione – Obbligo di garanzia da parte del locatore – Presupposti – Mancanza – Conseguenza – Inapplicabilità del disposto di cui all’art. 1585 c.c. – Fattispecie – La molestia di diritto e l’obbligo di garanzia del locatore
REPUBBLICA ITALIANA
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE TERZA CIVILE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati
Dott. FRASCA Raffaele G. A. – Presidente
Dott. CIRILLO Francesco M. – Consigliere
Dott. ROSSETTI Marco – Consigliere
Dott. MOSCARINI Anna – Consigliere
Dott. SPAZIANI Paolo – Rel. Consigliere
ha pronunciato la seguente
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 24659-2021 R.G.,
proposto da
Sz.Ro., già titolare della ditta “Al.Sa.”; rappresentato e difeso dagli Avvocati Ma.Ma. (Omissis), e Fr.Ma. (Omissis), in virtù di procura in calce al ricorso;
– ricorrente –
nei confronti di
Sp.Ga. e Ro.Gi.; rappresentati e difesi dall’Avv. Is.Ba. (Omissis), in virtù di procure rilasciate unitamente al controricorso;
– controricorrenti –
per la cassazione della sentenza n. 1360-2021 della CORTE d’APPELLO di CATANIA, depositata il 22 giugno 2021, notificata il 28 giugno 2021;
udìta la relazione della causa svolta nella pubblica udienza dell’11 luglio 2024 dal Consigliere Paolo Spaziani.
La molestia di diritto e l’obbligo di garanzia del locatore
FATTI DI CAUSA
1. Con citazione del 3 novembre 2012 Sz.Ro., titolare della ditta “Al.Sa.”, convenne in giudizio Sp.Ga. e Ro.Gi., dinanzi al Tribunale di Catania, deducendo che:
– con contratto del 1 luglio 1998, essi gli avevano concesso in locazione i locali siti in C, viale (Omissis), per la continuazione dell’attività alberghiera, ivi svolta sin dal 1915, sotto la ditta “Al.Sa.”, di cui egli era divenuto titolare;
– nel 1982, in funzione della concessione del Certificato Prevenzione Incendi (CPI), necessario per il nulla osta alla continuazione dell’attività alberghiera, il Comando Provinciale dei Vigili del Fuoco di C aveva chiesto che fosse chiusa con opera muraria la porta di comunicazione tra la scala dell’albergo e l’adiacente appartamento soprastante un magazzino di capi di abbigliamento di proprietà degli stessi locatori, cui si accedeva dal contiguo civico (Omissis) dello stesso viale (Omissis);
– persistendo tale situazione dei luoghi, egli, concluso il contratto di locazione, in coerenza con le apposite clausole ivi pattuite, aveva realizzato un’imponente ristrutturazione dei locali adibiti ad albergo;
– nel 2011, i terzi nuovi proprietari del magazzino e del soprastante appartamento adiacente all’albergo avevano riaperto la porta precedentemente murata, destinando l’immobile non più a magazzino d’abbigliamento ma a civile abitazione, con attività di bed and breakfast;
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– i vecchi proprietari (suoi locatori) avevano agito giudizialmente in possessorio contro i nuovi proprietari del detto appartamento, ma tale azione era stata rigettata, anche, in via definitiva, in sede di merito;
– la circostanza dell’avvenuta riapertura della porta, facendo venir meno il presupposto della prescritta Certificazione di Prevenzione Incendi, aveva determinato, quale conseguenza necessaria, la cessazione, da parte sua, dell’attività alberghiera e il licenziamento dei dipendenti a far tempo dal 1 novembre 2011.
Sulla base di queste deduzioni – ed assumendo che nella fattispecie sussistesse l’inadempimento dei locatori rispetto alle obbligazioni di cui all’art. 1575, nn. 2 e 3, cod. civ. (non avendo essi mantenuto la cosa locata in stato da servire all’uso convenuto e non avendone garantito al conduttore il pacifico godimento) – Sz.Ro. domandò, dunque, la declaratoria di risoluzione della locazione per inadempimento dei locatori, con condanna degli stessi a risarcire i pregiudizi derivanti dall’interruzione dell’attività di impresa dal 1 novembre 2011, consistenti nel danno da perdita dell’avviamento commerciale (quantificabile in Euro 500.000,00), nel danno conseguente agli oneri sostenuti e sostenendi dalla data di interruzione dell’attività (quantificabile in Euro 150.000,00), nel danno previdenziale (Euro 60.000,00) e nel danno esistenziale (Euro 200.000).
Sz.Ro. domandò, inoltre, la condanna dei locatori al rimborso del 50% (Euro 265.590,10) delle spese sostenute per le migliorie apportate all’immobile nel corso della ristrutturazione, complessivamente pari ad Euro 531.180,19.
I convenuti, costituitisi in giudizio, resistettero alle domande, deducendo, in particolare, con riguardo a quella risolutoria e risarcitoria, che l’interruzione dell’attività alberghiera non era stata causata dal venir meno delle condizioni “giuridiche” a seguito della “riapertura” della porta murata, ma da scelte “economiche” compiute dall’imprenditore in ragione della crisi del settore.
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Sul presupposto che l’immobile non era stato rilasciato pur dopo la cessazione dell’attività imprenditrice, domandarono, in via riconvenzionale, la condanna del conduttore al pagamento dei canoni locativi, dall’ottobre 2012 sino all’effettivo rilascio, avvenuto nel 2018.
Il Tribunale, espletate due CTU (una sulla configurabilità della decadenza della Certificazione Prevenzione Incendi quale conseguenza della riapertura dell’uscio murato; l’altra sul valore delle migliorie apportate dal locatore all’immobile), accolse parzialmente le domande principali e rigettò la domanda riconvenzionale, condannando Sp.Ga. e Ro.Gi. alle spese del giudizio.
2. La Corte d’appello di Catania, con sentenza 22 giugno 2021, n. 1360, in accoglimento dell’impugnazione proposta dai locatori (con rigetto di quella incidentale sul quantum proposta dal conduttore) e in integrale riforma della sentenza di primo grado, ha rigettato le domande formulate da Sz.Ro. e ha accolto quella proposta in via riconvenzionale da Sp.Ga. e Ro.Gi., condannando il primo a pagare ai secondi la somma di Euro 94.608,00, oltre interessi legali, a titolo di canoni non versati.
La Corte territoriale ha deciso sulla base dei seguenti rilievi:
I – dall’esame degli atti risultava che nel 1982 la “muratura” della porta di comunicazione tra l’albergo e l’adiacente locale sovrastante la bottega-magazzino, a cui si accedeva dal civico contiguo all’albergo medesimo, era stata resa necessaria, in funzione della concessione della Certificazione per la Prevenzione degli Incendi (CPI), dalla circostanza che in quel magazzino-bottega si svolgeva in quell’epoca attività di deposito e vendita di tessuti e capi di abbigliamento, ovverosia di materiale “infiammabile”; d’altra parte, sullo stesso piano vi era un altro appartamento, pure comunicante con l’albergo, ma destinato a civile abitazione, per il quale nel 1999 era stato richiesto (e debitamente concesso dai Vigili del Fuoco), il nulla osta in deroga, con mantenimento della porta di comunicazione aperta; risultava, inoltre, che anche il locale in relazione al quale nel 2011 era stata praticata la “riapertura” della porta chiusa nel 1982, non era più destinato alla vendita di capi di abbigliamento ma a civile abitazione, avendovi i nuovi proprietari iniziato una attività di bed and breakfast;
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II – ciò posto in fatto, doveva escludersi, in diritto, la sussistenza della responsabilità dei locatori in relazione all’evento dannoso della cessazione dell’attività alberghiera del conduttore: a) in primo luogo, tale responsabilità non sussisteva ai sensi dell’art. 1585 cod. civ., poiché l’integrazione della “molestia di diritto” (da cui il locatore deve garantire il conduttore) avrebbe richiesto il conflitto della pretesa del terzo (il cui esercizio implichi la perdita o la menomazione del godimento del conduttore) con i diritti accordati a quest’ultimo con il contratto di locazione (circostanza non integrantesi nella fattispecie, in cui i locatori non avevano rinunciato alla facoltà – già loro spettante quali proprietari dell’appartamento adiacente prima della cessione a terzi – di apertura della porta di comunicazione tra questo appartamento e l’albergo); b) in secondo luogo, non vi era prova che la modifica dello stato dei luoghi con la “riapertura” della porta praticata nel 2011, avesse fatto decadere la Certificazione di Prevenzione Incendi rilasciata a seguito della “chiusura” del 1982, stante il cambiamento di destinazione d’uso del locale adiacente, non più ordinariamente occupato da materiale infiammabile; d’altra parte, il locatore aveva cessato autonomamente l’attività senza neppure chiedere il rinnovo della CPI o un nulla-osta al prosieguo della stessa del tipo di quello già ottenuto nel 1999.
III – la domanda concernente il rimborso delle spese per migliorie (peraltro, rimborsabili, per previsione contrattuale, nella misura del 50%, non dell’intera somma spesa, ma della minor somma tra l’importo della spesa e il valore dei miglioramenti, ex art. 1592 cod. civ.) andava rigettata per mancata prova di esse: a) in primo luogo, infatti, il CTU aveva fornito solo un’operazione aritmetica, sommando l’importo delle fatture prodotte dal conduttore, mentre non era provato il concreto aumento di valore dell’immobile; b) in secondo luogo, se, da un lato, era dimostrato l’ammodernamento delle opere murarie, dei soffitti, dei pavimenti, degli impianti e degli infissi in occasione della ristrutturazione eseguita tra il 2000 e il 2008, dall’altro lato non era altresì dimostrata la persistenza di miglioramenti idonei ad apportare un aumento di valore dell’immobile al momento della riconsegna (avvenuta un decennio più tardi); dimostrazione, quest’ultima, necessaria, avuto riguardo all’orientamento giurisprudenziale per cui si intendono per “miglioramenti” le opere che apportano aumento di valore dell’immobile in quanto ne accrescono il godimento, la redditività e la produttività in relazione non solo alle esigenze dell’attività del conduttore ma a qualunque altro futuro uso dello stesso;
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IV – esclusa la responsabilità dei locatori, il conduttore doveva reputarsi tenuto al pagamento dei canoni sino al rilascio, sicché andava accolta la domanda riconvenzionale in tal senso proposta dai primi.
3. Per la cassazione della sentenza della Corte catanese ricorre Sz.Ro., sulla base di nove motivi.
Rispondono con controricorso Sp.Ga. e Ro.Gi.
La trattazione del ricorso è stata fissata in adunanza camerale, ai sensi dell’art. 380-bis.1 cod. proc. civ.
Il Pubblico Ministero non ha presentato conclusioni scritte.
Solo il ricorrente ha depositato memoria.
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RAGIONI DELLA DECISIONE
1. Con il primo motivo di ricorso viene denunciata “Violazione degli artt. 156, co. 2, 325 , 326 e 447-bis del c.p.c. rilevanti ex art. 360 co. 1 n. 4 del c.p.c.. Tardività dell’impugnazione”.
Il ricorrente espone: che il processo, pur essendo soggetto al rito locatizio si è svolto con il rito ordinario; che quindi anche l’appello, anziché essere proposto con ricorso, è stato proposto con citazione; che, ferma restando la validità dell’atto, tuttavia, ai fini della tempestività dell’appello, assumeva rilievo il deposito di esso e non la sua notificazione; che, pertanto, essendo stata la sentenza primo grado notificata il 4 dicembre 2019, l’atto di appello avrebbe dovuto essere depositato entro il 3 gennaio 2020 (trenta giorni dalla notificazione della sentenza, ex art 325 cod. proc. civ.); che invece, l’atto di citazione in appello, pur notificato il 3 gennaio 2020, era stato depositato, con conseguente iscrizione a ruolo della causa, il 13 gennaio 2020; dunque l’appello sarebbe stato tardivo, come tale inammissibile, e tale inammissibilità, traducendosi nel rilievo del passaggio in giudicato della sentenza di primo grado, sarebbe rilevabile anche in sede di legittimità.
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1.1. Il motivo è infondato.
Questa Corte ha affermato – e al principio deve darsi continuità – che, ove una controversia sia stata erroneamente trattata in primo grado con il rito ordinario, anziché con quello speciale del lavoro, le forme del rito ordinario debbono essere seguite anche per la proposizione dell’appello, che, dunque, va proposto con citazione ad udienza fissa; se, invece, la controversia sia stata trattata con il rito del lavoro anziché con quello ordinario, la proposizione dell’appello segue le forme della cognizione speciale.
Ciò, in ossequio al principio della ultrattività del rito, che – quale specificazione del più generale principio per cui l’individuazione del mezzo di impugnazione esperibile deve avvenire in base al principio dell’apparenza, cioè con riguardo esclusivo alla qualificazione, anche implicita, dell’azione e del provvedimento compiuta dal giudice – trova fondamento nel fatto che il mutamento del rito con cui il processo è erroneamente iniziato compete esclusivamente al giudice (Cass. n.682-2005; Cass. n. 15897-2014; Cass. n. 20705-2018).
Pertanto, nel caso di specie, poiché il processo era stato iniziato – per iniziativa dello stesso ricorrente, originario attore – nelle forme del rito ordinario, ritualmente l’appello è stato proposto in quelle stesse forme, assumendo rilievo, ai fini della tempestività dell’impugnazione, la notifica (e non il successivo deposito) dell’atto introduttivo, avente la forma-contenuto della citazione (e il relativo nomen iuris) e non quelli del ricorso.
Il primo motivo va dunque rigettato.
2. Con il secondo motivo viene denunciata “Violazione e falsa applicazione degli artt. 112, 329 e 345 c.p.c. rilevanti ex art. 360 co. 1 n. 4 del c.p.c. Violazione del principio della corrispondenza fra il chiesto e il pronunziato. Violazione del divieto di domande ed eccezioni nuove in appello”.
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Il ricorrente lamenta che la Corte catanese avrebbe accolto l’appello avversario per motivi diversi da quelli ivi svolti, in contrasto con essi e con accertamenti non riconducibili ai temi della controversia così come cristallizzatisi in primo grado.
2.1. il motivo è infondato.
Lo stesso ricorrente afferma (p.10 del ricorso) che “la Corte d’appello ha fedelmente riferito i motivi dell’appello … dall’ultimo paragrafo di pag. 3 al primo paragrafo di pag. 6”.
In queste pagine della motivazione della sentenza impugnata, la Corte territoriale ha illustrato i motivi d’appello in termini così sintetizzabili: a) in primo luogo (primo motivo), i locatori appellanti avevano contestato la sussistenza nella fattispecie dell’obbligazione di garanzia di cui all’art. 1585 cod. civ., in quanto esclusa dall’art. 6 del contratto; b) in secondo luogo (secondo e terzo motivo), gli appellanti avevano censurato la sentenza di primo grado per aver ritenuto che l’apertura della porta da parte di altri condomini dello stabile al fine di accedere dalla scala comune, avrebbe comportato l’automatica decadenza della Certificazione di Prevenzione Incendi (CPI) e che la stessa avrebbe impedito il rilascio di una nuova certificazione in favore del conduttore; ad avviso degli appellanti, infatti, la “chiusura” della porta sarebbe stata resa necessaria, nel 1982, dalla circostanza che nella bottega si svolgeva attività di rivendita di tessuti e capi di abbigliamento (materiale infiammabile), ma sarebbe successivamente venuta meno a seguito del mutamento d’uso del locale, ormai adibito a civile abitazione con attività di bed and breakfast, come sarebbe stato dimostrato, del resto, dall'”esistenza di altro accesso sempre dalle scale condominiali ad un ulteriore appartamento, accesso rimasto aperto e non ostativo alla concessione della certificazione di prevenzione incendi”.
Queste essendo le doglianze formulate con i motivi d’appello, nessuna ultrapetizione è configurabile nella sentenza impugnata, avendo la Corte d’appello pronunciato, in conformità a tali censure, in primo luogo sulla responsabilità ex art. 1585 cod. civ. e in secondo luogo su quella ex art. 1575 cod. civ., escludendole entrambe.
3. Con il terzo motivo viene denunciata “Violazione e falsa applicazione degli artt. 1575 e 1585, nonché degli artt.1366 e ss. e 1372 del c.c. in relazione all’art. 360 co. 1 n. 3 del c.p.c.”.
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Vengono svolte tre doglianze.
a) La Corte d’appello avrebbe attribuito rilievo alla circostanza (la quale, in primo grado, non era stata posta ad oggetto di alcuna eccezione o difesa) della preesistenza di altro accesso (ad altro immobile) nel medesimo piano ove era stata realizzata la riapertura dell’uscio in precedenza murato.
b) La Corte territoriale, inoltre, avrebbe reputato di valorizzare (anche in tal caso, per la prima volta in appello ed in assenza di idonee e tempestive eccezioni) la mancata rinunzia alla riapertura della porta murata da parte dei locatori che erano stati proprietari dell’appartamento cui detta porta introduceva, così violando le disposizioni codicistiche concernenti gli obblighi del locatore.
c) La Corte di merito, infine, non avrebbe tenuto conto – di qui la violazione anche degli artt. 1366 ss. e 1372 cod. civ. – che l’uscio aperto e preesistente era stato espressamente considerato nel contratto di locazione (indicato come doc. 3, tra quelli posti a fondamento del ricorso per cassazione) in seno all’art. 9 (nella pagina terza), ove sarebbe stato previsto anche l’impegno dei locatori di concedere in locazione l’appartamento interessato da tale uscio (quando l’attuale conduttrice lo avesse rilasciato) e si sarebbe dato atto che la sua sussistenza non aveva in alcun modo impedito il rilascio e il mantenimento della certificazione antincendio, poiché l’accesso era stato provvisto di appositi accorgimenti, realizzati con la collaborazione dei locatori.
3.1. Il motivo è infondato.
a) La circostanza della preesistenza di altro accesso (ad altro immobile) nel medesimo piano non ha costituito un fatto principale posto a fondamento della domanda ma un fatto emergente dagli atti valorizzato dal giudice del merito, nel libero apprezzamento delle risultanze istruttorie, in funzione della prova dell’insussistenza del nesso causale tra la riapertura del 2011 e la decadenza della certificazione per la prevenzione degli incendi; in ogni caso, lo stesso ricorrente smentisce la taccia di novità prima attribuita al rilievo di tale circostanza nel momento in cui, con la terza doglianza formulata nell’ambito del medesimo motivo all’attuale esame, deduce che essa circostanza era contemplata già nel contratto di locazione.
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b) Il rilievo della facoltà proprietaria di realizzare la riapertura dell’uscio (già spettante ai locatori ex proprietari dell’appartamento adiacente e trasferitasi ai nuovi proprietari che avevano iniziato l’attività di bed and breakfast) è stato correttamente formulato dalla Corte di merito in funzione della ricostruzione della nozione di molestia ai sensi dell’art. 1585 cod. civ., la quale si verifica quando un terzo, reclamando sul bene locato diritti reali o personali in conflitto con le posizioni accordate al conduttore dal contratto locativo, compia atti di esercizio della relativa pretesa implicanti la perdita o la menomazione del godimento del conduttore, con la conseguenza che, qualora la molestia non possa essere riferita alle posizioni accordate dal locatore sulla cosa locata, ma riguardi altre autonome situazioni di godimento dello stesso conduttore, non giustificate dalla specifica detenzione autonoma derivante dal contratto di locazione, si versa in ipotesi diversa da quella disciplinata dalla norma di cui all’art. 1585 cod. civ. (in tal senso, ex aliis, Cass. Cass. 07-02-2006, n. 2531).
c) Infine, la circostanza che l’uscio aperto sul diverso appartamento collocato sul medesimo piano fosse stato considerato nel contratto per prevedere l’impegno dei locatori di locarlo al conduttore quando fosse stato rilasciato dal detentore attuale, è irrilevante; anzi, la circostanza che nel contratto si desse espressamente atto che tale apertura, diversamente da quella sull’altro appartamento (che aveva dovuto essere chiusa nel 1982) non era ostativa alla certificazione antincendio, conforta l’accertamento di merito – motivatamente operato dal giudice d’appello e, pertanto, insindacabile in questa sede di legittimità – secondo cui tale “ostatività” trovava causa, per l’altro locale, nella sua destinazione a deposito e vendita di capi di abbigliamento e tessuti, talché essa sarebbe cessata (con conseguente possibilità di riapertura della porta) con il mutamento d’uso di esso; nella prospettiva di tale accertamento, non si giustificava il comportamento – evidentemente contrario a buona fede – del conduttore, che senza subire provvedimenti decadenziali aveva, d’emblée, cessato l’attività senza neppure chiedere una proroga della CPI (peraltro non decaduta) o un nulla osta in deroga.
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4. Con il quarto motivo viene denunciata “Ulteriore Violazione degli artt. 1575 e 1585 del c.c. in relazione all’art. 360,comma primo, numero 3 del c.p.c.”.
Vengono nuovamente articolate tre distinte doglianze.
a) In primo luogo, il ricorrente insiste sull’argomentazione che “Nessun rilievo può assumere al cospetto di detta norma – evidentemente, l’art. 1585 cod. civ. (n.d.r.) – il fatto che i locatori non avessero formulato rinunzie espresse alla riapertura”.
b) In secondo luogo, la sentenza d’appello è censurata nella parte in cui ha statuito che il conduttore “avrebbe potuto presentare – o anche solo tentare così come fatto in occasione dell’ottenimento di un nulla osta in deroga degli anni precedenti – un progetto di variante distributivo-funzionale interna del corpo scala (già sin dall’inizio “ad uso promiscuo”)”; al riguardo, il ricorrente deduce che la Corte territoriale avrebbe indebitamente ritenuto sussistente l’onere del conduttore di porre rimedio alla molestia del terzo con ingenti sacrifici e rinunzie.
c) In terzo luogo, la sentenza impugnata è ulteriormente censurata per avere ricondotto alla nozione di molestia solo gli atti che “impediscono” l’esercizio del diritto, mentre l’art. 1585 cod. civ. dà espresso rilievo alla “diminuzione” dell’uso o del godimento.
4.1. La prima doglianza è infondata: vale quanto si è sopra osservato (sub 3.1.) in ordine alla medesima doglianza svolta con il motivo precedente.
La seconda e la terza censura sono, invece, inammissibili, poiché non si confrontano con le rationes delle statuizioni impugnate: la Corte d’appello non ha individuato oneri inesistenti ma ha tenuto conto del comportamento del conduttore (che non aveva subìto la decadenza della CPI né aveva chiesto all’autorità amministrativa una nuova certificazione), traendone argomenti di prova circa la mancata dimostrazione della circostanza che la modifica dello stato dei luoghi avesse imposto la cessazione dell’attività alberghiera; parimenti, il giudice del merito ha escluso l’integrazione della fattispecie della “molestia”, ex art. 1585 cod. civ., non per il fatto che l’attività dei terzi aveva comportato una mera diminuzione (e non il completo venir meno) del godimento del conduttore, bensì perché l’esercizio del diritto da parte del terzo non era venuto in conflitto con un diritto accordato con il contratto locativo al conduttore: quest’ultimo, infatti, alla stregua del motivato e insindacabile accertamento di merito operato dalla Corte territoriale, non aveva il diritto di opporsi all’apertura della porta perché i locatori non avevano rinunciato a tale facoltà.
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5. Con il quinto motivo viene denunciata “Violazione ed omessa applicazione del D.P.R. 151-2011 e del D.M.I. attuativo del 7-08-2012 nonché dell’art. 16, co. 1 D.Lgs. 139-2006 ed ulteriore violazione degli artt.1575 e 1585 del c.c. in relazione all’art. 360, comma primo, numero 3 del c.p.c.”.
Secondo il ricorrente, la Corte d’appello avrebbe disatteso gli accertamenti che erano stati compiuti in primo grado dal Tribunale, sulla scorta della prima CTU, in ordine alla configurabilità della decadenza delle Certificazione Prevenzione Incendi quale conseguenza della riapertura dell’uscio murato e in ordine all’ostatività di tale riapertura al rinnovo della stessa Certificazione.
5.1. Il motivo è manifestamente inammissibile.
La Corte d’appello non ha indebitamente “disatteso” l’accertamento di merito operato dal primo giudice, ma, nell’esercizio del proprio potere di giudice di merito di seconda istanza, lo ha modificato, motivatamente accertando, al contrario, che in seguito alla modifica dello stato dei luoghi non si era affatto verificata la decadenza della validità della C.P.I. o, comunque, che non vi era la prova di tale decadenza.
Tale rinnovato accertamento, in quanto motivato, è incensurabile in sede di legittimità.
6. Con il sesto motivo è denunciata “Violazione degli artt. 1581 e 1578 c.c. in relazione all’art. 360, comma primo, numero 3 del c.p.c.”.
6.1. il motivo è inammissibile.
Viene censurata la statuizione resa ad abundantiam alle pp. 11-12 della sentenza d’appello, ove viene posto il problema della attuale violazione dell’apertura della posta murata delle nuove norme in materia di prevenzione incendi, per osservare che, in tal caso, verrebbero in considerazione vizi sopravvenuti della cosa locata, i quali avrebbero potuto legittimare il conduttore a domandare la risoluzione del contratto (ai sensi degli artt. 1581 e 1578 cod. civ.) ma non ad invocare la condanna dei locatori al risarcimento del danno.
Trova, dunque, applicazione il principio per cui è inammissibile, in sede di giudizio di legittimità, il motivo di ricorso che censuri un’argomentazione della sentenza impugnata svolta ad abundantiam, in quanto la stessa, non costituendo una ratio decidendi della decisione, non spiega alcuna influenza sul dispositivo della stessa e, pertanto, essendo improduttiva di effetti giuridici, la sua impugnazione è priva di interesse.
7. Con il settimo motivo è denunciata “Violazione dell’art. 1592 del c.c. – Violazione del contratto di locazione dedotto in lite , degli artt. 1362 e ss , 1372 , 2727, 2728 e 2729 del c.c. in relazione all’art. 360, comma primo, numero 3 del c.p.c. Violazione degli oneri probatori Violazione degli artt. 115 , 116 e 213 del c.p.c. , degli artt. 2697 e 2700 del c.c. in relazione all’art. 360, co. 1 nn. 3 e 4 del c.p.c.”.
Viene censurata la statuizione di rigetto della domanda di condanna al rimborso delle spese per le migliorie.
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7.1. Il motivo è inammissibile perché si traduce nella indebita contestazione del motivato accertamento di merito circa la mancata prova della sussistenza delle migliorie, avuto riguardo, per un verso, alle risultanze della CTU (che, ad avviso del giudice del merito, si sarebbe limitata a dare conto della somma aritmetica delle fatture prodotte dal conduttore) e, per altro verso, all’omessa dimostrazione dell’aumento di valore dell’immobile al momento della riconsegna (a fronte del rilievo, de facto, che quest’ultima era avvenuta nel 2018, mentre i lavori di ristrutturazione erano stati terminati circa un decennio prima, nonché del principio, de iure, che la nozione di “miglioramenti” va riferita alle opere idonee ad accrescere il godimento, la redditività e la produttività dell’immobile in relazione non solo alle esigenze dell’attività del conduttore ma a qualunque altro futuro uso dello stesso).
8. Con l’ottavo motivo è denunciata “Ulteriore violazione degli artt. 1575 e 1585 del c.c. e reiterazione dei motivi sopra svolti con riferimento all’accoglimento dell’undicesimo motivo di appello ed alla condanna del ricorrente al danno da risoluzione per inadempimento.
Violazione dell’art. 1453 e dell’art. 1223 del c.c. in relazione all’art. 360, co.1 n.3.”.
Viene censurata la statuizione di accoglimento della domanda riconvenzionale proposta dai locatori, avente ad oggetto il pagamento dei canoni non versati.
Il ricorrente chiede la cassazione di tale statuizione contenuta nella sentenza d’appello “quale conseguenza dell’accoglimento dei motivi svolti in precedenza”; ribadisce che “la risoluzione va addossata alla responsabilità dei locatori, che, pertanto sono tenuti ai danni conseguiti al conduttore e non possono pretendere alcun ristoro”, osserva, inoltre, che “ove mai fosse confermata la denunziata statuizione secondo cui il locatore non dovrebbe garantire la molestia del terzo perché non aveva rinunziato alla riapertura della porta all’epoca in cui era stato proprietario del bene, si avrebbe che comunque la locazione sarebbe stata interrotta a causa di una impossibilità sopravvenuta, dipesa dal fatto di un terzo e dunque nessun inadempimento sarebbe comunque imputabile al ricorrente”.
8.1. Il motivo è manifestamente infondato.
Per un verso, proprio la reiezione degli altri motivi – e la conseguente esclusione della invocata responsabilità dei locatori – conferma la sussistenza del loro diritto alla percezione dei canoni.
Per altro verso, la Corte di merito ha accertato che il rilascio era avvenuto solo nel 2018, sicché era persistita l’obbligazione del conduttore di eseguirne il pagamento.
L’ottavo motivo, pertanto, deve essere rigettato.
La molestia di diritto e l’obbligo di garanzia del locatore
9. Con il nono motivo viene denunciata “Ulteriore violazione degli artt. 1575 e 1585 del c.c. e reiterazione dei motivi sopra svolti con riferimento al mancato esame dell’appello incidentale del ricorrente”.
9.1. Il motivo è inammissibile, atteso che l’appello incidentale sul quantum proposto dal conduttore è rimasto assorbito per effetto dell’accoglimento dell’appello principale proposto dai locatori.
10. In definitiva, il ricorso per cassazione proposto da Sz.Ro. deve essere rigettato.
11. Le spese del giudizio di legittimità seguono la soccombenza e vengono liquidate come da dispositivo.
12. Avuto riguardo al tenore della pronuncia, va dato atto – ai sensi dell’art.13, comma 1-quater, del D.P.R. n. 115 del 2002 – della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, di un ulteriore importo a titolo contributo unificato, pari a quello previsto per la proposizione dell’impugnazione, se dovuto.
La molestia di diritto e l’obbligo di garanzia del locatore
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso;
condanna il ricorrente a rimborsare ai controricorrenti le spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 8.500,00 per compensi, oltre agli esborsi liquidati in Euro 200,00, nonché alle spese forfetarie e agi accessori di legge;
ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, del D.P.R. n. 115 del 2002, inserito dall’art. 1, comma 17, della legge n. 228 del 2012, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, al competente ufficio di merito, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso a norma del comma 1-bis dello stesso art.13, ove dovuto.
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Terza Sezione Civile, in data 11 luglio 2024.
Depositato in Cancelleria il 19 settembre 2024
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