Corte di Cassazione, sezioni unite penali, Sentenza 24 settembre 2018, n.40985.
La massima estrapolata:
La presunzione relativa di illecita accumulazione patrimoniale, prevista nella speciale ipotesi di confisca di cui all’art. 12-sexies d.l. n. 306 del 1992, non opera nel caso in cui il cespite sequestrato sia formalmente intestato ad un terzo ma si assume si trovi nella effettiva titolarità della persona condannata per uno dei reati indicati nella disposizione menzionata. In tal caso, però, incombe sull’accusa l’onere di dimostrare l’esistenza di situazioni che avallino concretamente l’ipotesi di una discrasia tra intestazione formale e disponibilità effettiva del bene, in modo che possa affermarsi con certezza che il terzo intestatario si sia prestato alla titolarità apparente al solo fine di favorire la permanenza dell’acquisizione del bene in capo al condannato e di salvaguardarlo dal pericolo della confisca. Il giudice ha, a sua volta, l’obbligo di spiegare le ragioni della ritenuta interposizione fittizia, adducendo non solo circostanze sintomatiche di spessore indiziario, ma anche elementi fattuali che si connotino della gravità, precisione e concordanza, tali da costituire prova indiretta del superamento della coincidenza fra titolarità apparente e disponibilità effettiva del bene
Corte di Cassazione
sezioni unite penali
Sentenza 24 settembre 2018, n.40985
Pres. Carcano
est. De Amicis
Ritenuto in fatto
1. Con decreto del 26 giugno 2017, il Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Napoli disponeva il sequestro preventivo, finalizzato alla confisca ai sensi dell’art. 12-sexies d.l. 8 giugno 1992, n. 306, convertito, con modificazioni, dalla legge 7 agosto 1992, n. 356, di beni mobili ed immobili appartenenti ai coniugi G.N.G. e D.M.I. , in relazione al delitto di concorso in tentata estorsione, aggravato ai sensi dell’art. 7 legge 12 luglio 1991, n. 203, contestato a quest’ultimo.
Con ordinanza del 12 luglio 2017 il Tribunale di Napoli accoglieva parzialmente la richiesta di riesame proposta dai predetti coniugi, disponendo la restituzione di tutti i beni acquisiti al loro patrimonio nel periodo 1997-2015, sul rilievo della mancata dimostrazione del presupposto della sproporzione tra il valore dei beni sequestrati e la loro capacità reddituale; il sequestro veniva invece mantenuto in relazione ad una quota di proprietà di un’imbarcazione acquistata da D.M. nonché al saldo di un conto corrente intestato alla G.N. , ritenendosi gli acquisti effettuati nel 2016 non giustificabili alla luce del reddito complessivo della famiglia dell’indagato.
2. Con separati atti, sottoscritti dai rispettivi difensori, D.M. e G.N. hanno proposto ricorso per Cassazione, chiedendo l’annullamento della predetta ordinanza.
2.1. Con il primo motivo, comune ad entrambi i ricorsi, viene dedotta l’erronea applicazione della legge penale nonché l’assenza di motivazione per l’applicazione del sequestro preventivo, in funzione dell’art. 12-sexies cit., con riferimento all’ipotesi di reato di tentata estorsione, aggravata ai sensi dell’art. 7 cit.. Secondo i ricorrenti, l’autonomia strutturale del delitto tentato, derivante dalla combinazione tra la norma di parte speciale e l’art. 56 cod. pen., non consente di estendere ad esso qualsiasi conseguenza sfavorevole prevista dalla legge per un delitto consumato.
2.2. Con il secondo motivo del ricorso, proposto nell’interesse della G.N. , si lamenta la violazione dell’art. 324, comma 7, in relazione all’art. 309, comma 9, ultima parte, cod. proc. pen., essendo sia il decreto del Giudice per le indagini preliminari che l’ordinanza del Tribunale privi di un’autonoma valutazione in punto di sussistenza degli indizi circa la fittizia intestazione dei beni alla ricorrente, non sottoposta ad indagini.
2.3. Con il terzo motivo del ricorso, proposto nell’interesse della G.N. , si deduce, infine, l’inosservanza dell’art.12-sexies cit.. Il Tribunale, da un lato, ha ritenuto sequestrabili i beni intestati alla ricorrente basandosi soltanto sulla sproporzione tra redditi e acquisti, ma non sulla effettiva riferibilità dei beni a D.M. , soggetto indagato; dall’altro, ha mantenuto il vincolo cautelare su un conto corrente acceso nel 2004, prima ancora che G.N. sposasse D.M. , conto alimentato esclusivamente dagli stipendi percepiti dalla ricorrente.
2.4. Con il secondo motivo del ricorso proposto nell’interesse di D.M. si deduce l’inosservanza degli artt. 309, comma 9, ultima parte, e 324, comma 7, cod. proc. pen., per la omessa valutazione dell’eccezione di nullità del decreto di sequestro, privo di autonomo apprezzamento rispetto agli elementi posti a fondamento della richiesta di misura cautelare. Il Tribunale avrebbe reiterato il vizio, omettendo ogni considerazione sulla irragionevole valutazione delle entrate e delle uscite, attribuite a D.M. e al suo nucleo familiare, ma risalenti a venti anni prima dei fatti per i quali egli è stato sottoposto ad indagini, sulla illogica ricostruzione del patrimonio del suo nucleo familiare attraverso l’inserimento nei relativi calcoli di un periodo di nove anni (dal 1997 al 2005) in cui egli non era ancora sposato, né convivente, con la G.N. , e infine sulla erronea utilizzazione degli indici ISTAT, che avrebbero prodotto un ipotetico importo delle spese familiari in realtà mai sostenute.
3. Con ordinanza del 9 gennaio 2018 la Seconda Sezione penale ha rimesso i ricorsi alle Sezioni Unite, prospettando l’esistenza di un contrasto giurisprudenziale sulla questione oggetto del primo motivo di ricorso, relativo alla possibilità di applicare la confisca disciplinata dall’art.12-sexies d.l. n. 306 del 1992 ai delitti tentati aggravati ai sensi dell’art. 7 d.l. n. 152 del 1991.
La Sezione rimettente segnala come, non avendo il legislatore espressamente specificato se la confisca c.d. ‘allargata’ prevista dall’art. 12-sexies cit. debba essere disposta anche in caso di condanna o di applicazione di pena per i delitti, specificamente o genericamente indicati, rimasti a livello di tentativo, nella giurisprudenza di legittimità siano rinvenibili tre orientamenti contrastanti: il primo nega del tutto la possibilità di disporre la confisca dei beni (e, quindi, in precedenza, il loro sequestro preventivo); il secondo la ammette per tutti i delitti tentati menzionati dalla norma citata; il terzo opera una distinzione, negando la confisca in caso di condanna per il tentativo di un delitto elencato nominativamente nel primo comma, al contrario applicandola in caso di condanna per il tentativo di un delitto aggravato ai sensi dell’art. 7 d.l. n. 152 del 1991, in forza di quanto disposto nel secondo comma.
La Sezione ha anche esaminato le implicazioni delle recenti modifiche normative dell’art. 12-sexies cit., sottolineando che l’intervento legislativo sembrerebbe orientato ad un recupero dell’opzione ermeneutica valorizzata dall’orientamento estensivo.
4. Il Primo Presidente, con decreto del 28 febbraio 2018, ha assegnato i ricorsi alle Sezioni Unite e ne ha disposto la trattazione all’odierna udienza camerale.
5. Con memoria depositata il 3 aprile 2018 i difensori dei ricorrenti hanno esposto ulteriori argomentazioni a sostegno del primo motivo di ricorso.
Considerato in diritto
1. La questione di diritto per la quale il ricorso è stato rimesso alle Sezioni Unite è riassumibile nei seguenti termini: ‘se sia possibile disporre il sequestro preventivo finalizzato alla c.d. confisca allargata ex art. 12-sexies d.l. 8 giugno 1992, n. 306, convertito, con modificazioni, dalla legge 7 agosto 1992, n. 356 e succ. mod., nel caso di violazione dei reati contemplati da tale norma, anche nella forma del tentativo aggravato dall’art. 7 legge n. 203/91’.
2. L’art. 12-sexies cit. è stato oggetto di ripetute riforme, ultima delle quali quella operata dall’art. 5, comma 1, d.lgs. 29 ottobre 2016, n. 202.
Nel testo vigente all’epoca di emissione del decreto di sequestro la norma non faceva alcun riferimento a delitti tentati o a delitti consumati; piuttosto, nel primo comma elencava nominativamente specifici delitti mentre nel secondo contemplava tutti i delitti, purché aggravati ai sensi dell’art. 7 legge 203 del 1991, a tale categoria aggiungendo la condanna per un delitto in materia di contrabbando nei casi di cui all’articolo 295, secondo comma, del testo unico approvato con decreto del Presidente della Repubblica 23 gennaio 1973, n. 43.
La questione sottoposta a queste Sezioni Unite deve essere affrontata sulla base del testo dell’art. 12-sexies cit. vigente all’epoca di applicazione del decreto di sequestro preventivo e della successiva ordinanza del Tribunale di Napoli in questa sede impugnata, salvo verificare la soluzione adottata alla luce delle riforme intervenute, che saranno analizzate nel par. 6.
3. Come segnala la Sezione rimettente, non avendo il legislatore espressamente specificato se la confisca c.d. ‘allargata’ prevista dall’art. 12-sexies d.l. n. 306 del 1992 debba essere disposta anche in caso di condanna o di applicazione di pena per i delitti, specificamente o genericamente indicati, rimasti a livello di tentativo, si sono formati tre orientamenti contrastanti.
3.1. Secondo il primo orientamento, il sequestro preventivo finalizzato alla confisca di cui all’art. 12-sexies d.l. n. 306 del 1992 non può essere disposto in relazione al reato di estorsione tentata, anche se aggravato ai sensi dell’art. 7 d.l. n. 152 del 1991, stante la previsione espressa della confiscabilità esclusivamente per il reato consumato e l’inammissibilità della sua estensione in malam partem, attesa l’autonomia del delitto tentato (Sez. 5, n. 26443 del 17/02/2015, Abbate, Rv. 263988; Sez. 5, n. 2164 del 12/06/2013, dep. 2014, Sannino, Rv. 258821; Sez. 5, n. 38988 del 16/01/2013, Musolino, Rv. 257568; Sez. 2, n. 36001 del 23/09/2010, Fasano, Rv. 248164).
L’orientamento fa leva sull’autonomia del delitto tentato rispetto a quello consumato e ne trae la conclusione che la norma deve essere interpretata nel senso che, quando menziona la fattispecie di reato, si riferisce all’ipotesi consumata.
Tale interpretazione restrittiva risulterebbe obbligatoria alla luce dei principi di legalità e di tassatività delle misure di sicurezza sanciti dall’art. 25, comma 3, Cost. (‘Nessuno può essere sottoposto a misure di sicurezza se non nei casi previsti dalla legge’) e dall’art. 199 cod. pen. (‘Nessuno può essere sottoposto a misure di sicurezza che non siano espressamente stabilite dalla legge e fuori dei casi dalla stessa legge preveduti’): tali principi impedirebbero una estensione in malam partem della norma ai delitti tentati anche mediante l’interpretazione, atteso che le norme sfavorevoli devono ritenersi ‘di stretta interpretazione’.
L’orientamento viene applicato sia al primo che al secondo comma dell’art. 12-sexies cit.: quindi, anche il riferimento ‘ai delitti commessi avvalendosi delle condizioni o al fine di agevolare le associazioni ex art. 416-bis cod. pen.’, presente nel secondo comma, viene interpretato come operato ai soli delitti consumati.
A sostegno di questo orientamento vengono addotte considerazioni di natura differente.
Si afferma che il risultato ottenuto da tale interpretazione è coerente con la minore gravità del delitto tentato rispetto a quello consumato, cosicché è ragionevole ritenere che, per esso, il legislatore abbia inteso escludere la misura della confisca in caso di condanna (Sez. 2, n. 36001 del 23/09/2010, Fasano, cit.).
L’interpretazione restrittiva, inoltre, è ritenuta conforme all’obbligo di tutela del diritto di proprietà imposto dall’art. 42 Cost. e dall’art. 1, Prot. 1 CEDU (Sez. 5, n. 26443 del 17/02/2015, Abbate, cit.).
Si richiamano, poi, istituti diversi per i quali la giurisprudenza di legittimità ha compiuto la medesima scelta: l’esclusione della causa di non punibilità dell’art. 649, ultimo comma, cod. pen., ritenuta applicabile soltanto ai delitti consumati ivi menzionati (Sez. 2, n. 5504 del 22/10/2013, dep. 2014, Piras, Rv. 258198); le esclusioni oggettive dall’amnistia e dall’indulto, che operano solo per i reati consumati ivi indicati (Sez. 1, n. 8316 del 10/12/2009, dep. 2010, Coletta, Rv. 246307, sulla legge 241 del 2006; Sez. U, n. 3 del 23/02/1980, Iovinella, Rv. 145074, sul d.P.R. 4 agosto 1978, n. 413); la disciplina dell’arresto in flagranza che, quando indica specificamente il reato per il quale la misura è permessa o imposta, è interpretata nel senso che il riferimento è ai soli reati consumati (Sez. 2, n. 45511 del 05/10/2005, Bugday, Rv. 232933; Sez. 2, n. 7441 del 14/12/1998, dep. 1999, Cocchia, Rv. 212258) e che, del resto, menziona espressamente le ipotesi in cui l’arresto è obbligatorio o consentito per i delitti tentati; la disciplina della competenza per territorio, atteso che l’art. 8, comma 4, cod. proc. pen. contempla espressamente il delitto tentato; quella della custodia cautelare in carcere (art. 280, comma 2, cod. proc. pen.); i casi di consegna obbligatoria ai sensi dell’art. 8 legge 22 aprile 2005, n. 69 (Sez. 6, n. 15631 del 20/04/2010, Costantinescu, Rv. 246748).
L’orientamento in questione è stato da ultimo ribadito da Sez. 2, n. 47062 del 21/09/2017, Discetti, Rv. 271048-271049, secondo cui il comma 2 dell’art. 12-sexies cit. allarga l’obbligo della confisca a reati differenti da quelli indicati nel primo comma, purché aggravati ai sensi dell’art. 7 d.l. 152 del 1991 nonché al delitto di contrabbando; tuttavia, si tratta di delitti consumati, in quanto, ‘quando la legge indica il solo lemma ‘delitto’, il medesimo deve intendersi come ‘delitto consumato’ e ciò perché, essendo il tentativo un reato del tutto autonomo rispetto a quello consumato, gli effetti sfavorevoli previsti da una determinata norma devono ritenersi di stretta interpretazione e non possono estendersi anche, salvo espressa previsione normativa, al delitto tentato. Di conseguenza, se la suddetta interpretazione vale per il primo comma dell’art. 12-sexies, non vi è alcuna ragione per cui non dovrebbe valere anche per il secondo comma’.
3.2. L’orientamento opposto ritiene, al contrario, che la confisca di cui all’art. 12-sexies d.l. n. 306 del 1992 debba essere disposta anche in conseguenza di una condanna per estorsione tentata, poiché il richiamo contenuto nell’art. 12-sexies cit. al ‘delitto previsto dall’art. 629 cod. pen.’, in mancanza di ulteriori specificazioni, non autorizza alcuna distinzione fra la fattispecie consumata e quella tentata (Sez. 1, n. 27189 del 28/05/2013, Guarnieri, Rv. 255633); più in generale, il disposto normativo viene ritenuto ‘chiaro’ nel non autorizzare alcuna distinzione tra delitto consumato e delitto tentato, sottolineandosi che la confisca non è collegata al provento o al profitto del reato contestato, bensì ai beni di cui il condannato non può giustificare la provenienza, indipendentemente dalla loro fonte, che si presume derivante dalla complessiva attività illecita del soggetto (Sez. 1, n. 22154 del 10/05/2005, Secchiano, Rv. 231665).
L’orientamento è confermato da altre pronunce, tra cui Sez. 2, n. 38537 del 30/9/2011, Maida, che rimarca che la norma non prevede ‘alcuna distinzione tra l’ipotesi tentata o consumata del delitto di estorsione e men che meno tra l’ipotesi semplice e quella aggravata’.
3.3. L’omessa espressa menzione dei ‘delitti consumati’ e dei ‘delitti tentati’ da parte del legislatore produce due interpretazioni antitetiche della norma: il primo orientamento afferma che essa deriva dalla volontà del legislatore di limitare la confisca ai soli delitti consumati, mentre il secondo sostiene che, al contrario, omettendo la specificazione, il legislatore ha voluto proprio comprendere nell’espressione ‘delitto’ sia quello consumato che quello tentato.
Le due soluzioni fanno entrambe leva su considerazioni ulteriori, di carattere contenutistico: la prima pone l’accento sull’impossibilità di interpretazioni in malam partem in un ambito presidiato dai principi di legalità e tassatività nonché sulla tutela costituzionale e convenzionale del diritto di proprietà; la seconda richiama la ratio della norma e la finalità della confisca ‘allargata’, per la quale non è previsto un collegamento al provento o al profitto del reato oggetto di condanna, dovendo essere confiscati i beni di cui il condannato non può giustificare la provenienza lecita; i delitti per i quali è intervenuta la condanna sono spia di una complessiva attività illecita del soggetto che giustifica la misura.
3.4. L’orientamento intermedio è stato espresso da alcune pronunce della Prima Sezione penale, tutte rese alla medesima udienza.
In tali sentenze si afferma che la c.d. confisca allargata prevista dall’art. 12-sexies d.l. n. 306 può essere disposta anche in conseguenza di una condanna per tentata estorsione purché aggravata ai sensi dell’art. 7 d.l. n. 152 del 1991, atteso che anche quelli rimasti allo stadio del tentativo sono da considerarsi ‘delitti’ cui può accedere la predetta aggravante, a differenza di quanto si verifica nel caso dei delitti individuati con l’espressa indicazione delle norme incriminatrici, per i quali detta confisca non opera in caso di semplice tentativo (Sez. 1, n. 45172 del 12/02/2016, Masullo, Rv. 272158; Sez. 1, n. 45173 del 12/02/2016, Brito; Sez. 1, n. 45174 del 12/02/2016, Palladino; Sez. 1, n. 45175 del 12/02/2016, Masullo A.).
Le pronunce condividono con il primo orientamento l’affermazione dell’impossibilità di un’interpretazione estensiva del primo comma della norma in esame, che non menziona il delitto tentato: lo stesso, infatti, costituisce una fattispecie criminosa autonoma, risultante dalla combinazione della norma incriminatrice e dell’art. 56 cod. pen., sicché un’interpretazione che ampliasse la portata precettiva della norma sarebbe in malam partem.
Si sottolinea, però, ‘il tenore testuale del comma 2 dell’art. 12-sexies, ai sensi del quale le disposizioni del comma 1 si applicano anche nei casi di condanna o di applicazione della pena (…) per un delitto commesso avvalendosi delle condizioni previste dall’art. 416-bis del codice penale ovvero al fine di agevolare l’attività delle associazioni previste dallo stesso articolo’ e si afferma che ‘il generico riferimento ai delitti, aggravati ex art. 7 (agevolazione o metodo mafioso), indipendentemente dallo specifico titolo di reato, è chiaramente comprensivo di ogni delitto in tal guisa aggravato, consumato o tentato che sia’.
Si tratterebbe di opzione ermeneutica ‘aderente al chiaro ed insuperabile dato testuale; coerente con la finalità dell’istituto, diretto a contrastare le forme di accumulazione patrimoniale illecita in presenza della commissione di un fatto-reato formalizzato come indice rivelatore di una particolare pericolosità soggettiva; ma anche in linea con la lezione interpretativa di questa Corte in tema di inapplicabilità dell’indulto elargito con legge 31 luglio 2006 n. 241 alle pene inflitte per ‘reati in relazione ai quali ricorre la circostanza aggravante dell’agevolazione o metodo mafioso’, formula che, al pari di quella di cui all’art. 12-sexies, comma 2, cit. non contenendo specificazioni di norme incriminatrici e titoli, include – come è stato ripetutamente affermato – fattispecie consumate e tentate (ex multis: Sez. 1 n. 41755 del 16/09/2014, Mobilia, Rv. 260525; Sez. 1 n. 35502 del 18/06/2014, Bisogni, Rv. 260286)’.
In definitiva, proprio facendo leva sulla natura autonoma del delitto tentato, sottolineata dal primo orientamento, le sentenze in commento adottano una soluzione differente nell’interpretazione dei primi due commi dell’art. 12-sexies d.l. 306 del 1992: si sostiene, infatti, che l’indicazione nominativa, specifica, dei singoli delitti presente nel primo comma non può che essere stata effettuata con riferimento ai delitti consumati – in quanto, per indicare i delitti tentati, il legislatore avrebbe dovuto menzionarli ovvero avrebbe dovuto accostare ad ogni fattispecie incriminatrice il richiamo all’art. 56 cod. pen., ma, contestualmente che, poiché i delitti tentati sono delitti autonomi, il riferimento generico ai delitti aggravati ai sensi dell’art. 7 d.l. 152 del 1991 è fatto sia ai delitti consumati sia a quelli tentati.
4. Le Sezioni Unite ritengono corretto il terzo orientamento appena descritto.
4.1. In primo luogo si deve sottolineare che, lungi dall’essere una soluzione estemporanea, la diversa interpretazione dell’indicazione nominativa di uno specifico delitto, come comprendente solo l’ipotesi consumata, rispetto a quella dell’indicazione generale di una categoria di delitti, come comprendente sia i delitti tentati che quelli consumati, è già stata adottata in precedenza e in diversi campi.
La sentenza Sez. 1, n. 45172 del 12/02/2016, Masullo, cit., ricorda, in particolare, l’interpretazione dell’art. 1, comma 2, lett. d) legge 31 luglio 2006, n. 241 (Concessione di indulto), che prevede l’inapplicabilità della misura per i reati per i quali ricorre la circostanza aggravante di cui all’art. 7 d.l. 152 del 1991, nel senso che l’esclusione del beneficio riguarda sia le fattispecie consumate che quelle tentate (Sez. 1 n. 41755 del 16/09/2014, Mobilia, Rv. 260525; Sez. 1 n. 35502 del 18/06/2014, Bisogni, Rv. 260286; Sez. 1, n. 43037 del 16/10/2008, Oliveri, Rv. 241835).
In effetti, l’analisi della giurisprudenza di legittimità formatasi sui provvedimenti di concessione di amnistia e indulto dimostra che la differenziazione operata rispetto all’indicazione specifica dei delitti esclusi dal provvedimento di clemenza e all’indicazione generica di categorie di reati era già comparsa in precedenza: se le Sezioni Unite avevano affermato il principio per cui le esclusioni oggettive in tema di amnistia ed indulto, previste per i reati elencati nei provvedimenti di clemenza, devono intendersi riferite alle sole ipotesi di reato consumato quando solo queste siano indicate, essendo vietata la estensione al tentativo che costituisce una figura criminosa autonoma a se stante, caratterizzata da una propria oggettività e da una propria struttura (Sez. U, n. 3 del 23/02/1980, Iovinella, Rv. 145074), una pronuncia successiva precisava che il principio riguardava ‘i reati indicati nei provvedimenti di clemenza, con specifico riferimento a determinati articoli di legge’ (Sez. 1, n. 7389 del 12/06/1985, Scassellati, Rv. 170191); in precedenza, si era ritenuto che l’esclusione del condono previsto dall’art. 7 lettera c) d.P.R. 4 agosto 1978 n. 413 (che prevedeva: ‘l’indulto non si applica (…) per i delitti concernenti le armi da guerra o tipo guerra’) si riferisse anche alle ipotesi di delitto tentato (Sez. 1, n. 7561 del 10/04/1981, Morucci, Rv. 149983), evidentemente perché i delitti non erano indicati specificamente.
In motivazione, Sez. 1, n. 8316 del 10/12/2009, dep. 2010, Coletta, Rv. 246307, pur ribadendo l’inapplicabilità dell’esclusione dal beneficio per i delitti tentati, rilevava che ‘le previsioni di esclusione di cui all’art. 1, comma 2, lett. a) ovvero di cui alla successiva lett. b) (della legge 241 del 2006) operano sempre una selezione specifica e chiusa, vuoi richiamando l’articolo e la rubrica (lett. a) vuoi rinviando ai reati di cui al d.P.R. n. 309 del 1990, art. 73 sempreché aggravati ai sensi dell’art. 80 o a quelli di cui all’art. 74, né tra i primi né tra i secondi essendo all’evidenza comprensibili i delitti tentati’; ma anche Sez. 1, n. 299 del 27/11/2009, dep. 2010, Egitto, Rv. 246223, richiamando la necessità di indagare caso per c l’intenzione del legislatore e di individuare la ratio della norma, osservava che ‘il tenore letterale del provvedimento di clemenza di cui alla legge n. 241 del 2006, in particolare in relazione alle indicazioni di esclusione di cui all’art. 1, lett. a), legge citata, essendovi espresso riferimento agli articoli di legge dei relativi delitti, deve far legittimamente pensare a una non estensibilità dei reati consumati a quelli tentati, diversamente da quanto accade per l’indicazione nelle successive lettere ove si fa riferimento a delitti o a reati con una terminologia che non può essere casuale e che comprova anzi il maggior disfavore del legislatore verso i reati in materia di stupefacenti e per le aggravanti di cui alle lett. c), d) ed e)’.
4.2. L’orientamento in esame è stato affermato anche per l’interpretazione dell’art. 649, ultimo comma, cod. pen., che limita l’applicazione della causa di non punibilità regolata dai commi precedenti. La formulazione è analoga a quella dell’art. 12-sexies d.l. 306 del 1992, atteso che, per indicare i delitti per i quali non si applica la causa di non punibilità, prima sono elencati specificamente ‘i delitti preveduti dagli artt. 628, 629 e 630’ e subito dopo ad essi si affianca ‘ogni altro delitto contro il patrimonio che sia commesso con violenza alle persone’.
Si è già visto che il primo orientamento richiama le pronunce per cui ai tre delitti specificamente menzionati, se soltanto tentati, non si applica l’esclusione dalla causa di non punibilità (Sez. 2, n. 5504 del 22/10/2013, dep. 2014, Piras, Rv. 258198; Sez. 2, n. 24643 del 21/03/2012, Errini, Rv. 252832): si pone, però, la questione se nella seconda categoria menzionata – gli altri delitti contro il patrimonio commessi con violenza alle persone – devono essere compresi anche quelli tentati.
Ebbene, diverse pronunce lo affermano: secondo Sez. 2, n. 3718 del 18/05/1990, dep. 1991, Belgiorno, Rv. 186762, la causa di non punibilità non si applica ai delitti consumati previsti dagli artt. 628, 629, 630 cod. pen. né ad ogni altro delitto contro il patrimonio, consumato o tentato, del quale la violenza costituisca elemento costitutivo o circostanza aggravante; più recentemente si è ribadito che la disposizione di cui all’ultimo comma dell’art. 649 cod. pen. si applica anche ai delitti tentati e non solo a quelli consumati (Sez. 2, n. 53631 del 17/11/2016, Giglio, Rv. 268712; Sez. 2, n. 28686 del 09/07/2010, Carollo, Rv. 248031; Sez. 2, n. 3542 del 24/01/1995, Calcopietro, Rv. 201761).
4.3. L’orientamento intermedio ha un riscontro anche in materia penitenziaria.
L’art. 4-bis legge 25 luglio 1975 sull’ordinamento penitenziario, che regola il divieto di concessione dei benefici penitenziari ai detenuti, possiede le stesse caratteristiche dell’art. 12-sexies d.l. 306 del 1992: contiene un elenco di reati nominativamente indicati (ripetutamente modificato nel corso degli anni) e, insieme, il riferimento ‘ai delitti commessi per finalità di terrorismo, anche internazionale o di eversione dell’ordine democratico mediante il compimento di atti di violenza’ nonché ‘ai delitti commessi avvalendosi dello stesso articolo (art. 416-bis cod. pen.) ovvero al fine di agevolare l’attività delle associazioni ivi previste’.
Ebbene, da una parte si afferma che il divieto di concessione di misure alternative alla detenzione e di benefici penitenziari, imposto dall’art. 4-bis della legge n. 354 del 1975 per la commissione di taluni gravi delitti ivi previsti, opera esclusivamente per i reati consumati e non per le corrispondenti fattispecie commesse nella forma tentata, per il carattere autonomo del tentativo e per la natura eccezionale della norma che deroga al principio generale di accesso ai benefici penitenziari (Sez. 1, n. 15755 del 22/01/2014, Marino, Rv. 262264; Sez. 2, n. 28765 del 13/06/2001, Di Dio, Rv. 220330; Sez. 1, n. 2417 del 20/05/1993, Scialpi, Rv. 195511), dall’altra – con un’applicazione piena dell’orientamento ‘intermedio’ – si statuisce che il divieto in questione opera per i delitti aggravati dal fine di agevolazione dell’attività di un’associazione di tipo mafioso anche se commessi nella forma del tentativo (Sez. 1, n. 8707 del 08/02/2012, Marongiu, Rv. 252919; Sez. 1, n. 23505 del 22/04/2004, Lo Baido, Rv. 228134). Si annota che ‘poiché anche quelli rimasti allo stadio del tentativo punibile sono tecnicamente dei ‘delitti’, appare evidente (…) come la suddetta espressione, nella sua genericità, non possa che riferirsi anche ad essi; e ciò a differenza di quanto si verifica nel caso dei delitti che, sempre nell’ambito dell’art. 4-bis dell’ordinamento penitenziario, sono individuati con l’espressa indicazione delle norme incriminatrici, per i quali, come più volte è stato, in effetti, affermato nella giurisprudenza di questa Corte (…), il divieto di concessione dei benefici è escluso in caso di semplice tentativo’.
4.4. Anche l’ambito dei termini della durata massima della custodia cautelare presenta una problematica analoga: l’art. 303, comma 1, lett. a), n. 3 e lett. b), n. 3-bis, cod. proc. pen. menziona, infatti ‘i delitti di cui all’art. 407, comma 2, lett. a)’; a sua volta, tale norma contiene sia un’elencazione nominativa di delitti, sia, al n. 3, l’indicazione dei ‘delitti commessi avvalendosi delle condizioni previste dall’art. 416-bis cod. pen. ovvero al fine di agevolare l’attività delle associazioni previste dallo stesso articolo’, ancora una volta senza specificazione in ordine alla necessità che essi siano consumati o alla possibilità che siano soltanto tentati.
Puntualmente, si è affermato che il termine di un anno, previsto per la fase delle indagini preliminari e dell’udienza preliminare dagli artt. 303, comma 1, lett. a), n. 3, cod. proc. pen., e 407, comma 2, lett. a), n. 3, dello stesso codice, qualora si proceda per i delitti commessi per agevolare l’attività delle associazioni di stampo mafioso, o comunque avvalendosi delle condizioni di cui all’art. 416-bis cod. pen., si applica anche ai delitti tentati, sempre che la legge ne preveda la punizione con la reclusione superiore nel massimo a sei anni (Sez. 2, n. 21394 del 15/04/2015, Olivieri, Rv. 263640), motivando tale orientamento con la circostanza che la disposizione di cui al n. 3 dell’art. 407, comma 2, lett. a), cod. proc. pen., come quella di cui al n. 4, e a differenza di quanto stabilito nelle previsioni di cui ai nn. 1, 2, 5, 6, 7 e 7 bis, non contiene un elenco di fattispecie incriminatrici, ma conferisce rilievo a qualsiasi delitto commesso per le finalità o avvalendosi delle condizioni da essa indicate.
Una differente sentenza di questa Corte ha affermato che la durata massima della custodia nella fase delle indagini preliminari è aumentata, ai sensi dell’art. 303, comma 1, lett. a), n. 2 e 3, cod. proc. pen., da sei mesi ad un anno per i delitti consumati indicati nell’art. 407, comma 2, lett. a), n. 7-bis, cod. proc. pen., ma rimane ferma a mesi sei per gli stessi delitti ove integrati a livello di tentativo, ostandovi il principio di tassatività ed atteso che ove il legislatore ha voluto ricomprendervi i delitti tentati, come nel n. 2 della stessa lett. a) del comma 2 del citato art. 407, ciò è avvenuto espressamente (Sez. 3, n. 25458 del 10/03/2004,Gramada, Rv. 228881): ma essa non contrasta con quella precedentemente citata, atteso che si muove nel campo dei delitti nominativamente elencati dall’art. 407 cod. proc. pen..
4.5. Si sono menzionati ambiti nei quali la problematica è analoga a quella posta dall’art. 12-sexies d.l. 306 del 1992: la formulazione delle norme accosta elenchi nominativi di delitti ad indicazione di categorie di delitti (in particolare, quelli aggravati ai sensi dell’art. 7 legge 203 del 1991) e l’opzione di considerare compresi in tali categorie anche i delitti tentati produce effetti sfavorevoli per l’interessato, che non può beneficiare dell’amnistia o dell’indulto, non può godere della causa di non punibilità di cui all’art. 649 cod. pen., non può accedere ai benefici penitenziari e deve sopportare termini durata massima di custodia cautelare aumentati.
Come dimostra la rassegna degli orientamenti, la natura sfavorevole degli effetti non ha impedito un’interpretazione delle norme comprensiva anche del delitto tentato, quando l’indicazione dei delitti è generica, mentre, al contrario, in presenza di un’elencazione specifica e nominativa dei delitti, la giurisprudenza di legittimità si è sempre richiamata alla natura autonoma del delitto tentato e al principio di tassatività.
5. Passando, ora, a valutare le ragioni poste a sostegno dei tre orientamenti, risulta evidente che l’argomento della natura autonoma del delitto tentato (ampiamente trattato nella pregevole memoria difensiva) è centrale e risolutivo.
5.1. In effetti, il secondo orientamento – quello che ritiene sempre applicabile la confisca ‘allargata’ ai delitti tentati, sia se elencati dal primo comma dell’art. 12-sexies d.l. 306 del 1992, sia se aggravati ai sensi dell’art. 7 legge 203 del 1991 – sembra ignorare il tema dell’autonomia del delitto tentato, limitandosi a sostenere che il silenzio del legislatore sul punto non autorizza alcuna distinzione tra fattispecie consumate e fattispecie tentate: ma, appunto, la mancanza di indicazioni specifiche deve essere affrontata sulla base dei principi generali, in base ai quali ‘accanto’ ad un delitto consumato è sempre ipotizzabile un corrispondente delitto tentato.
Tale orientamento, quindi, nonostante le esigenze di tutela dell’interessato e del suo diritto di proprietà e la necessità di rispettare i principi di legalità e tassatività operanti per le misure di sicurezza, ritiene il disposto normativo ‘chiaro’ nel comprendere entrambe le ipotesi, anche se l’art. 12-sexies, comma 1, cit. omette di menzionare delitti certamente esistenti, vale a dire i delitti tentati.
Per superare il dato letterale, non sembra sufficiente richiamare la finalità e l’oggetto della confisca ‘allargata’, sottolineando che la misura non colpisce il provento o il profitto del reato, bensì i beni di cui il condannato non può giustificare la provenienza, essendo i delitti menzionati spia di una complessiva attività illecita del condannato, valenza che può essere assunta da un delitto tentato al pari di uno consumato.
Si tratta di considerazione certamente corretta ma essa, avendo ad oggetto l’intenzione del legislatore, non può ribaltare l’interpretazione letterale della norma, pur dovendosi dare atto che, in alcuni ambiti, quale quello delle pene accessorie previste per determinate figure di reato (artt. 317-bis, 518, 609-nonies cod. pen.), l’applicazione anche in caso di condanna per il delitto tentato viene giustificata proprio con le esigenze alla cui tutela è finalizzata la misura (per la pena accessoria dell’interdizione dai pubblici uffici prevista dall’art. 317-bis cod. pen., cfr. Sez. 6, n. 9204 del 17/01/2005, Mancini, Rv. 230765; per le pene accessorie ed altri effetti penali previsti dall’art. 609-nonies cod. pen., cfr. Sez. 3, n. 52637 del 11/07/2017, Z, Rv. 271858).
5.2. D’altra parte, il primo orientamento – che, come si è visto, contrasta l’applicazione della confisca ‘allargata’ ai delitti tentati, anche se aggravati ai sensi dell’art. 7 d.l. 152 del 1991 – non sembra applicare fino in fondo il principio dell’autonomia del delitto tentato.
Se il delitto tentato rappresenta ‘una fattispecie criminosa autonoma, risultante dalla combinazione di una norma principale – la norma incriminatrice – e di una norma secondaria, prevista dall’art. 56 cod. pen.’, allora è corretto sostenere che il legislatore, quando menziona, ad esempio, il ‘delitto previsto dall’art. 314 cod. pen.’ intenda riferirsi al solo delitto consumato, ma non è altrettanto corretto ritenere che, quando viene evocato ‘un delitto commesso avvalendosi delle condizioni previste dall’art. 416-bis del codice penale ovvero al fine di agevolare l’attività delle associazioni previste dallo stesso articolo’ il riferimento non sia fatto anche ai delitti tentati.
Riprendendo l’immagine dei delitti consumati ‘accanto’ ai quali esistono i corrispondenti delitti tentati, che hanno una autonomia, una ‘vita propria’, l’insieme descritto dall’art. 12-sexies, comma 2, d.l. 306 del 1992 comprende gli elementi aventi due caratteristiche: a) la natura di delitto; b) l’essere esso stato commesso avvalendosi delle condizioni etc.; ebbene, i delitti tentati aggravati ai sensi dell’art. 7 d.l. 152 del 1991 le possiedono entrambe.
In definitiva, la diversa formulazione della norma impone la differente soluzione per i delitti previsti dai due commi della norma.
6. L’orientamento ‘intermedio’, quindi, fa una corretta applicazione dei principi esattamente enunciati dal primo orientamento, non operando una ‘estensione in malam partem’ della confisca ‘allargata’, ma interpreta la legge attribuendole il senso fatto palese dal significato proprio delle parole: perché, appunto, la parola ‘delitto’, senza ulteriore specificazione, è comprensiva anche dei delitti tentati.
La soluzione risponde, del resto, alle esigenze sottolineate dalle varie pronunce fin qui richiamate.
In primo luogo appaiono rispettati i principi di legalità e tassatività; viene limitata la confiscabilità dei beni e, quindi, tutelato il diritto di proprietà, benché tale diritto, di per sé, non possa impedire l’adozione dei provvedimenti ablatori e tenuto conto che la confisca ‘allargata’ ha ripetutamente superato il vaglio di costituzionalità; la soluzione, inoltre, rispecchia la caratteristica tipica della confisca ‘allargata’, vale a dire il mancato collegamento tra i beni confiscati e il provento o il profitto del reato, con la conseguenza che la misura è giustificata anche in caso di delitto tentato, se esso sia davvero ‘sintomatico di un illecito arricchimento del suo autore’ (sul punto, non si può che richiamare il compito che la Corte Costituzionale, con la sent. 33 del 2018, ha affidato al legislatore in punto di selezione dei ‘delitti matrice’).
Non viene tralasciata l’osservazione della ‘ragionevolezza’ di un’interpretazione che escluda la possibilità della confisca per i delitti tentati per la loro minore gravità: in effetti, se è ragionevole ritenere che il singolo delitto tentato non aggravato dalle modalità o dalle finalità mafiose non costituisca una ‘spia’ significativa di una complessa attività illecita che produce un illecito arricchimento, altrettanto non può dirsi per i delitti tentati aggravati ai sensi dell’art. 7 d.l. 152 del 1991, che evocano collegamenti con la criminalità organizzata anche se non portati a compimento.
Infine, il riconoscimento della possibilità di disporre la confisca ‘allargata’ anche nel caso di condanna per i delitti tentati aggravati ai sensi dell’art. 7 d.l. 152 del 1991 (ora art. 240-bis cod. pen.) recupera la funzione ‘originaria’ dell’istituto, creato come ‘risposta’ alla declaratoria di illegittimità costituzionale dell’art. 12-quinquies, comma 2, d.l. 306 del 1992 e avente le medesime finalità: permettere, nei processi per reati di criminalità organizzata o a questi collegati, dinanzi ad una situazione di evidente sproporzione tra beni e reddito, di aggredire i patrimoni illecitamente costituiti. Insomma, i delitti così aggravati appartengono al ‘nucleo forte’ e originario dei delitti-spia, come dimostra eloquentemente il testo originario della norma introdotta dal decreto-legge 20 giugno 1994, n. 399 convertito, con modificazioni, dalla legge 8 agosto 1994, n. 501, che conteneva un elenco di delitti assai ridotto.
6.1. La soluzione adottata appare corretta anche alla luce della normativa sopravvenuta.
Come è noto, con il d.lgs. 1 marzo 2018, n. 21 (Disposizioni di attuazione del principio di delega della riserva di codice nella materia penale a norma dell’art. 1, comma 85, lett. q) della legge 23 giugno 2017, n. 103), l’art. 7 d.l. 152 del 1991 è stato trasfuso, senza modificazioni, nell’art. 416-bis.1, comma 1, cod. pen., mentre l’art. 12-sexies d.l. 306 del 1992 ha trovato la sua collocazione nell’art. 240-bis cod. pen., che disciplina la ‘Confisca in casi particolari’, recependo le modifiche apportate dalla legge 17 ottobre 2017, n. 161, che aveva unificato il primo e il secondo comma e cancellato il riferimento al testo dell’art. 7 cit., peraltro ‘recuperato’ mediante il richiamo ai delitti previsti dall’art. 51, comma 3-bis cod. proc. pen..
Anche il nuovo art. 240-bis cod. pen. non contiene alcun riferimento a reati consumati e a reati tentati. L’indicazione dei delitti che, in caso di condanna, impongono la confisca è nominativa, con l’eccezione di quelli commessi per finalità di terrorismo o di eversione dell’ordine costituzionale.
Tuttavia, il rinvio ai delitti previsti dall’art. 51, comma 3-bis, cod. proc. pen. reintroduce l’indicazione ad una categoria generale di delitti: la norma del codice di rito, infatti, oltre ad elencare nominativamente specifici delitti, menziona quelli ‘commessi avvalendosi delle condizioni previste dal predetto articolo 416-bis cod. pen. ovvero al fine di agevolare l’attività delle associazioni previste dallo stesso articolo’, vale a dire a quelli aggravati ai sensi dell’art. 416-bis.1 cod. pen. (già art. 7 d.l. 152 del 1991).
Esiste, però, una differenza rispetto al testo dell’art. 12-sexies d.l. 306 del 1992: nell’art. 51, comma 3-bis cod. proc. pen. l’elencazione nominativa dei delitti è preceduta dalla dizione ‘consumati o tentati’ (‘Quando si tratta di procedimenti per i delitti, consumati o tentati, di cui agli artt. 416 (…)’). Si potrebbe, quindi, sostenere che, avendo il legislatore specificato, per i delitti indicati nominativamente, che nell’elenco sono compresi anche i delitti tentati, abbia voluto, per gli altri delitti non compresi nell’elenco, riferirsi soltanto a quelli consumati.
In realtà, la conclusione fin qui adottata – quando il legislatore indica nominativamente un determinato delitto, intende riferirsi solo al delitto consumato mentre, quando richiama una categoria di delitti non specificati, si riferisce sia a quelli consumati che a quelli tentati – può essere applicata anche per la formulazione dell’art. 51, comma 3-bis cod. proc. pen.: il legislatore, volendo comprendere – ai fini della determinazione della ‘competenza’ della Direzione Distrettuale Antimafia – anche determinati delitti tentati, aveva dovuto menzionarli espressamente, mentre ciò non era necessario per la categoria di quelli aggravati ai sensi dell’art. 7 d.l. 152 del 1991 che, appunto, essendo stati indicati genericamente comprendevano sia i tentati che i consumati.
Inoltre, la differente formulazione è conseguenza della natura processuale della norma richiamata: mentre l’art. 12-sexies d.l. 306 del 1992 richiamava un’aggravante – quindi una norma sostanziale – per delimitare l’ambito della confisca ‘allargata’, il legislatore del 2017 e del 2018, per lo stesso scopo, ha richiamato una norma processuale.
In effetti, tenuto conto che la confisca ‘allargata’ permette il sequestro preventivo, misura che (se non si tratta di procedimento instaurato davanti al giudice dell’esecuzione) può essere disposta già in sede di indagini preliminari, la portata ‘pratica’ della norma è palese: in tutti i procedimenti affidati alle procure distrettuali è possibile disporre tale sequestro in vista di una futura confisca.
La specificazione in ordine alla natura di delitti tentati o consumati, comunque, è tipica delle norme che stabiliscono la competenza: si rinviene, infatti, negli artt. 4, 5, 8, 33-bis cod. proc. pen., sull’attribuzione del tribunale in composizione collegiale; in definitiva, non pare si possa trarre un argomento per interpretare diversamente una norma dalla lettera di altre norme dettate per finalità differenti.
7. In definitiva, deve essere affermato il seguente principio di diritto: ‘Il sequestro preventivo finalizzato alla confisca prevista dell’art. 12-sexies decreto-legge 8 giugno 1992, n. 306, convertito dalla legge n. 356 del 1992 (attuale art. 240-bis cod. pen.) può essere disposto per uno dei reati presupposto anche nella forma del tentativo aggravato dall’art. 7 legge 203 del 1991’.
8. Il ricorso proposto nell’interesse di D.M.I. è infondato e deve essere rigettato.
Il primo motivo di ricorso è relativo alla questione risolta nella presente sentenza in senso sfavorevole al ricorrente.
Il secondo motivo richiama l’art. 309, comma 9, cod. proc. pen., applicabile nel procedimento di riesame avverso il sequestro in forza del disposto dell’art. 324, comma 7, cod. proc. pen.; la norma dispone che ‘il Tribunale annulla il provvedimento impugnato se la motivazione manca o non contiene l’autonoma valutazione, a norma dell’art. 292, delle esigenze cautelari, degli indizi e degli elementi forniti dalla difesa’ (cfr. Sez. U, n. 18954 del 31/03/2016, Capasso, Rv. 266789). Secondo una recente pronuncia, il tribunale del riesame deve annullare il decreto di sequestro preventivo emesso dal giudice per le indagini preliminari privo di qualsiasi valutazione degli elementi forniti dalla difesa, non potendo il giudice dell’impugnazione, ai sensi del richiamato art. 309, comma 9, cod. proc. pen. confermare il sequestro ritenendo che la prospettazione difensiva sia stata implicitamente disattesa dal tenore complessivo del decreto genetico (Sez. 5, n. 51900 del 20/10/2017, Lanza, Rv. 271413).
Tuttavia, nel caso di specie, il ricorrente non indica alcun elemento fornito al giudice per le indagini preliminari prima dell’adozione del decreto di sequestro preventivo; confonde, poi, palesemente il vizio di omessa autonoma valutazione l’unico che legittimava il ricorso per cassazione che, ai sensi dell’art. 325, comma 1, cod. proc. pen., è consentito solo per violazione di legge – con quello di errata valutazione da parte del Giudice per le indagini preliminari, il cui decreto è stato per buona parte annullato con l’ordinanza oggetto del presente ricorso.
In effetti, secondo il ricorrente, le valutazioni esposte nella richiesta del pubblico ministero erano ‘irragionevoli’, ‘illogiche’ e, in definitiva errate e la richiesta di sequestro sarebbe stata respinta se il giudice l’avesse analizzata o comunque verificata e valutata; in questa prospettazione, il parziale annullamento del decreto da parte del Tribunale del riesame dimostrerebbe l’esistenza del vizio denunciato.
Come appare evidente, si tratta di due piani del tutto differenti; pertanto, risulta adeguata e logica la motivazione dell’ordinanza impugnata, con la quale il Tribunale attesta che il Giudice per le indagini preliminari aveva autonomamente valutato la ricostruzione reddituale posta a fondamento della domanda, tanto da distinguere il requisito della sproporzione tra redditi e acquisti per le diverse annualità.
9. Il ricorso proposto nell’interesse di G.N.G. , al contrario, è fondato e comporta l’annullamento dell’ordinanza impugnata.
Il primo motivo di ricorso è infondato per le ragioni già esposte.
Il secondo e il terzo motivo di ricorso, invece, devono essere accolti. L’ordinanza impugnata, nel passo finale in cui conferma il sequestro della quota di proprietà dell’imbarcazione intestata a D.M. nonché il saldo attivo del conto corrente bancario intestato alla G.N. , contiene una motivazione che affronta esclusivamente il tema della sproporzione tra i ‘redditi complessivi del nucleo familiare del D.M. ‘ e le spese, gli acquisti e le somme depositate sul predetto conto corrente.
La trattazione del tema della fittizia intestazione del conto corrente alla G.N. è totalmente omessa, quasi che il Tribunale l’abbia data per presupposta. Eppure, l’argomento della capacità reddituale della ricorrente era stato posto nella richiesta di riesame e l’ordinanza, nell’annullare il decreto di sequestro relativamente ai beni acquistati nel periodo 1997 – 2015, aveva dato atto che, già all’epoca, la G.N. aveva stabilmente percepito redditi.
Questa Corte ha costantemente affermato che la presunzione relativa di illecita accumulazione patrimoniale, prevista nella speciale ipotesi di confisca di cui all’art. 12-sexies d.l. n. 306 del 1992, non opera nel caso in cui il cespite sequestrato sia formalmente intestato ad un terzo ma si assume si trovi nella effettiva titolarità della persona condannata per uno dei reati indicati nella disposizione menzionata. In tal caso, però, incombe sull’accusa l’onere di dimostrare l’esistenza di situazioni che avallino concretamente l’ipotesi di una discrasia tra intestazione formale e disponibilità effettiva del bene, in modo che possa affermarsi con certezza che il terzo intestatario si sia prestato alla titolarità apparente al solo fine di favorire la permanenza dell’acquisizione del bene in capo al condannato e di salvaguardarlo dal pericolo della confisca. Il giudice ha, a sua volta, l’obbligo di spiegare le ragioni della ritenuta interposizione fittizia, adducendo non solo circostanze sintomatiche di spessore indiziario, ma anche elementi fattuali che si connotino della gravità, precisione e concordanza, tali da costituire prova indiretta del superamento della coincidenza fra titolarità apparente e disponibilità effettiva del bene (Sez. 5, n. 13084 del 06/03/2017, Carlucci, Rv. 269711; Sez. 2, n. 3990 del 10/01/2008, Catania, Rv. 239269).
Invero, esiste un’ampia giurisprudenza di legittimità che, con riferimento a parenti dell’indagato, facilita la prova della fittizia intestazione gravante sull’accusa: si è affermata la sussistenza, a carico del titolare apparente dei beni del parente stretto del condannato, di una presunzione di illecita accumulazione patrimoniale, in forza della quale è sufficiente dimostrare che tale soggetto non svolge un’attività tale da procurargli il bene acquisito per imporre, a suo carico, l’onere di dimostrarne la legittima provenienza e l’effettività della propria posizione di titolare (Sez. 6, n. 39259 del 04/07/2013, Purpo, Rv. 257085; Sez. 5, n. 26041 del 26/05/2011, Papa, Rv. 250922); più specificamente, la presunzione relativa circa l’illecita accumulazione patrimoniale opera, oltre che in relazione ai beni del condannato, anche in riferimento ai beni intestati al coniuge dello stesso, qualora la sproporzione tra il patrimonio nella titolarità del coniuge e l’attività lavorativa svolta dallo stesso, confrontata con le altre circostanze che caratterizzano il fatto concreto, appaia dimostrativa della natura simulata dell’intestazione (Sez. 2, n. 3620 del 12/12/2013, dep. 2014, Patanè, Rv. 258790; Sez. 2, n. 4479 del 03/12/2008, dep. 2009, Lo Bianco, Rv. 243278).
Tuttavia, in questo caso, la fittizia intestazione alla ricorrente del conto corrente non è stata nemmeno affermata, né è stata valutata la circostanza che su tale conto – secondo quanto sostiene la ricorrente facendo riferimento ad allegazioni difensive – sarebbero depositati esclusivamente gli emolumenti mensili che la G.N. percepisce come insegnante così come la sua accensione da parte della ricorrente prima del matrimonio con D.M. .
Il Tribunale, in sede di rinvio, dovrà, quindi, analizzare gli elementi addotti dalla ricorrente ed esprimere una valutazione in ordine alla fittizietà dell’intestazione del conto corrente alla G.N. , provvedendo di conseguenza.
P.Q.M.
Annulla l’ordinanza impugnata nei confronti di G.N.G. e rinvia per nuovo esame al Tribunale di Napoli, Sezione per il riesame. Rigetta il ricorso proposto da D.M.I. che condanna al pagamento delle spese processuali
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