La nullità del contratto per violazione di norme imperative

Corte di Cassazione, civile, Ordinanza|23 febbraio 2024| n. 4867.

La nullità del contratto per violazione di norme imperative

La nullità del contratto per violazione di norme imperative, siccome oggetto di un’eccezione in senso lato, è rilevabile d’ufficio in ogni stato e grado del processo, a condizione che i relativi presupposti di fatto, anche se non interessati da specifica deduzione della parte interessata, siano stati acquisiti al giudizio di merito nel rispetto delle preclusioni assertive e istruttorie, ferma restando l’impossibilità di ammettere nuove prove funzionali alla dimostrazione degli stessi. (Nella specie, la S.C. ha confermato, sul punto, la declaratoria di inammissibilità, da parte del giudice di merito, dell’eccezione di nullità di un contratto di locazione, per essere stati introdotti i fatti posti a fondamento della stessa, per la prima volta, in vista dell’udienza di discussione della causa in appello).

Ordinanza|23 febbraio 2024| n. 4867. La nullità del contratto per violazione di norme imperative

Data udienza 16 gennaio 2024

Integrale

Tag/parola chiave: Contratti in genere – Invalidita’ – Nullita’ del contratto – In genere nullità del contratto per violazione di norme imperative – Eccezione in senso lato – Rilevabilità d’ufficio in ogni stato e grado del processo – Condizioni – Acquisizione dei fatti presupposti nel rispetto delle preclusioni – Necessità – Nuove prove dirette alla relativa dimostrazione – Ammissibilità – Esclusione – Fattispecie.

REPUBBLICA ITALIANA

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta da

Dott. FRASCA Raffaele -Presidente

Dott. IANNELLO Emilio -Relazione

Dott. ROSSI Raffaele -Consigliere

Dott. SPAZIANI Paolo -Consigliere

Dott. SAIJA Salvatore -Consigliere

ha pronunciato la seguente
ORDINANZA

sul ricorso iscritto al n. 9552/2018 R.G. proposto da

Fr.Vi., rappresentato e difeso dall’Avv. Pa.Mo. (p.e.c.: omissis), con domicilio eletto in Roma, Via (…), presso lo studio dell’Avv. Ch.Ar.;

– ricorrente –

contro

Comune di Sciacca, rappresentato e difeso dall’Avv. Pe.Fa. (p.e.c. indicata: omissis), con domicilio eletto in Roma, Via Federico Cesi n. 72, presso l’Avv. Pa.De.;

– controricorrente –

avverso la sentenza della Corte d’appello di Palermo, n. 1313/2017, depositata il 13 settembre 2017;

nonché sul ricorso iscritto al n. 10650/2022 R.G. proposto da

Fr.Vi., rappresentato e difeso dall’Avv. Gianni Caracci (p.e.c. indicata: omissis), con domicilio eletto in Roma, Via (…), presso lo studio dell’Avv. MA.VA.;

– ricorrente –

contro

Comune di Sciacca;

– intimato –

avverso la sentenza della Corte d’appello di Palermo, n. 1613/2021,

depositata l’11 ottobre 2021.

Ricorsi riuniti come da separata ordinanza.

Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 16 gennaio 2024 dal Consigliere Emilio Iannello.

La nullità del contratto per violazione di norme imperative

FATTI DI CAUSA

1. Con sentenza n. 207 del 2015 – a conclusione di procedimento promosso con intimazione di sfratto per morosità dal Comune di Sciacca nei confronti di Fr.Vi. e transitato alla fase a cognizione piena – il Tribunale di Sciacca dichiarò risolto, per inadempimento del conduttore, il contratto di locazione di immobile ad uso diverso nel quale era subentrato il Fr.Vi., condannando quest’ultimo a corrispondere all’ente locatore la somma di Euro 21.814,12, oltre interessi legali, a titolo di canoni scaduti e non pagati.

2. La Corte d’appello di Palermo, con sentenza n. 1313/2017, depositata il 13 settembre 2017, ha confermato tale decisione, rigettando il gravame interposto dal Fr.Vi., sulla base delle seguenti considerazioni:

– quanto al primo motivo, con il quale si contestava la quantificazione dei canoni operata dal primo giudice perché non avrebbe considerato il giudicato formatosi in precedente giudizio dal quale risultava che le somme già corrisposte erano maggiori di quelle che in sentenza erano state decurtate dal maggiore importo preteso dal Comune, ha rilevato che: a) dalla documentazione acquisita si evinceva che l’amministrazione appellata aveva in realtà già considerato l’ulteriore versamento cui si riferiva la censura; b) vi era piuttosto un errore di calcolo a danno dell’appellato che però non aveva proposto appello incidentale, risultando pertanto, in tale direzione, coperta da giudicato la quantificazione operata dal Tribunale;

– quanto al secondo motivo, con il quale l’appellante si doleva della mancata riduzione del canone richiesta a motivo delle dimensioni dell’immobile, inferiori rispetto a quelle indicate nel contratto di locazione, la Corte ha osservato che il Fr.Vi. era subentrato nel contratto di locazione nella situazione di fatto e di diritto in cui l’immobile già si trovava ancor prima del suo ingresso e non poteva, pertanto, far valere presunti vizi contrattuali in relazione ad accordi ai quali non aveva partecipato; ha inoltre rilevato che, in una nota prodotta dallo stesso appellante (prot. n. 2062 del 5 giugno 2012), le cui risultanze non erano state contestate, si dava atto di un precedente sopralluogo effettuato dai tecnici comunali in data 20 aprile 2012 dal quale era emerso che la superficie utile dei locali di che trattasi era pari a mq. 36,81 a fronte di quella indicata nel contratto in mq. 36,00;

– quanto al terzo motivo, con il quale l’appellante si doleva del mancato accoglimento da parte del primo giudice della domanda risarcitoria formulata in via riconvenzionale per la perdita di “chances lavorative” ed il calo di clientela causati dai lavori di ristrutturazione del prospetto del palazzo comunale, la Corte ha rilevato che tale domanda era risultata sfornita di prova e che, peraltro, dalle foto prodotte si evinceva che, nonostante la collocazione dell’impalcato, durante l’esecuzione dei lavori il varco per l’accesso all’agenzia di viaggi era rimasto libero ed era stato anche segnalato in modo palese e visibile da una targa collocata sull’area di cantiere; ha inoltre soggiunto che la quantificazione operata in ricorso (Euro 216.578,88) “appare esorbitante rispetto agli utili fiscali annuali… dichiarati in Euro 24.064,32, laddove agli atti processuali viene indicata in circa un anno o poco di più la durata dei predetti lavori ma nessuna delle parti costituite in giudizio ha fornito precise indicazioni sull’inizio e sulla fine dei lavori di che trattasi”;

– la Corte panormita ha infine rilevato l’inammissibilità dell’eccezione di nullità del contratto, in quanto tardivamente formulata dall’appellante con le note conclusionali del 25/11/2016 e con comparsa di costituzione di nuovo procuratore del 25/06/2017 corredata da nuova documentazione; ha soggiunto che, comunque, detta eccezione appariva infondata atteso che, trattandosi di locazione commerciale, la determinazione del canone è sempre sottoposta alla libera contrattazione tra le parti, non potendo, quindi, assumere alcuna rilevanza il dedotto mancato rispetto dell’obbligo, imposto dal regolamento comunale, di acquisire, prima della determinazione del canone, una perizia estimativa del bene concesso in locazione.

3. Avverso tale sentenza Fr.Vi. ha proposto:

a) ricorso per cassazione, sulla base di tre motivi, iscritto al n. 9552/2018 R.G., per resistere al quale il Comune di Sciacca ha depositato controricorso;

b) ricorso per revocazione ex art. 395 n. 4 cod. proc. civ., del quale l’adita Corte d’appello di Palermo – dopo aver disposto, con ordinanza in data 13/11/2018, ex art. 398, quarto comma, cod. proc. civ., la sospensione del giudizio già pendente in Cassazione – ha dichiarato l’inammissibilità, con sentenza n. 1613/2021, depositata l’11 ottobre 2021, per la ritenuta natura non revocatoria dei vizi denunciati.

4. Avverso quest’ultima sentenza il Fr.Vi. ha quindi proposto ricorso per cassazione iscritto al n. 10650/2022 R.G. articolando tre motivi.

In tale secondo procedimento il Comune di Sciacca è rimasto intimato.

La nullità del contratto per violazione di norme imperative

5. Chiamato il primo ricorso nell’adunanza del 16 marzo 2023, in vista della quale il ricorrente aveva depositato memoria, questa Corte, con ordinanza interlocutoria n. 19181 del 06/07/2023, essendo stata segnalata dal nuovo difensore della parte ricorrente la pendenza del suddetto successivo ricorso avverso la sentenza di rigetto dell’istanza di revocazione, ha disposto il rinvio della causa a nuovo ruolo per l’eventuale trattazione congiunta.

6. Per la trattazione di entrambi i ricorsi è stata quindi fissata l’odierna adunanza camerale ai sensi dell’art. 380-bis.1 cod. proc. civ. con decreti dei quali è stata data comunicazione alle parti.

Non sono state depositate conclusioni dal Pubblico Ministero;

Il ricorrente ha depositato memorie in entrambi i procedimenti.

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RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Deve darsi atto che con separata ordinanza, adottata all’esito dell’odierna adunanza camerale, è stata preliminarmente disposta la riunione al giudizio iscritto al n.r.g. 9552 del 2018, di quello iscritto al n.r.g. 10650 del 2022 R.G.

Secondo principio consolidato nella giurisprudenza di questa Corte, infatti, i ricorsi per cassazione proposti, rispettivamente, contro la sentenza d’appello e contro quella che decide l’impugnazione per revocazione avverso la prima, in caso di contemporanea pendenza in sede di legittimità, debbono essere riuniti in applicazione (analogica, trattandosi di gravami avverso distinti provvedimenti) dell’art. 335 cod. proc. civ., che impone la trattazione in un unico giudizio di tutte le impugnazioni proposte contro la stessa sentenza, dovendosi ritenere che la riunione di detti ricorsi, pur non espressamente prevista dalla norma del codice di rito, discenda dalla connessione esistente tra le due pronunce poiché sul ricorso per cassazione proposto contro la sentenza revocanda può risultare determinante la pronuncia di cassazione riguardante la sentenza resa in sede di revocazione (Cass., Sez. U, n. 10933 del 7/11/1997, Rv. 509592; Cass., Sez. 3, n. 25350 del 20/09/2021, non massimata; Sez. 5, n. 11955 del 10/06/2016, non massimata; Sez. 3, n. 10534 del 22/05/2015, Rv. 635610; Sez. 1, n. 25376 del 29/11/2006, Rv. 592875; Sez. L, n. 5515 del 12/04/2001, Rv. 545900; Sez. 1, n. 1085 del 26/01/2001, Rv. 543477; Sez. 2, n. 194 dell’11/01/1999, Rv. 522160; Sez. L, n. 5850 dell’11/06/1998, RV. 516392).

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2. In ragione di quanto testé evidenziato, e come del resto già rilevato nella ordinanza interlocutoria, deve darsi priorità all’esame del ricorso proposto avverso la sentenza resa dalla Corte d’appello di Palermo, nel giudizio promosso dalla ricorrente ex art. 395 cod. proc. civ., atteso il rilievo preliminare e potenzialmente assorbente che lo stesso riveste.

3. Con il primo motivo il ricorrente denuncia “violazione degli artt. 395 n. 4 c.p.c. e 112 c.p.c., in relazione all’art. 360 comma 1 n. 3 c.p.c., con riferimento all’infondata e generica presupposta evidenza che l’errore denunciato non abbia rivestito i connotati dell’errore revocatorio ed alla conseguente ingiusta ed erronea dichiarazione di inammissibilità dell’impugnazione per revocazione proposta dal Sig. Fr.Vi. (odierno ricorrente) avverso la sentenza n. 1313/2017 (Tomo C, all. 8)” (così testualmente nell’intestazione).

In apertura dell’illustrazione del motivo, premesse generiche considerazioni sulla ingiustizia della sentenza d’appello n. 1313/2017 e il riferimento alle due diverse impugnazioni contro la stessa proposte, si dice di voler presentare di seguito un “elenco” de “gli errori di fatto non rilevati dall’adita Corte d’appello in sede di revocazione” (v. pag. 13, quarto capoverso, in grassetto); di fatto poi l’illustrazione si dipana (da pag. 14 a pag. 30) attraverso quattro sottoparagrafi (con inizio rispettivamente alle pagg. 14, 22, 25 e 28), ciascuno contrassegnato da un alinea e aperto dalla indicazione del luogo della sentenza d’appello n. 1313/2017 nel quale sarebbe contenuto l’asserito errore revocatorio; all’interno di tali sottoparagrafi ci si diffonde poi lungamente nella proposizione di tesi difensive volte a contestare la valutazione del materiale istruttorio versato nel giudizio di appello, dicendola frutto di errore revocatorio.

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3.1. Il primo asserito errore revocatorio è, in particolare, così descritto e localizzato (pag. 14, in fine, del ricorso in esame):

“a pagina 3” [s’intende della sentenza d’appello n. 1313/2017, n.d.r.] “ove si conclude la narrazione dello svolgimento del processo (dal 18° al 21° rigo), nella parte in cui si afferma che “All’udienza del 4.07.2017 le parti concludevano riportandosi rispettivamente all’atto d’appello ed alla comparsa di risposta. La Corte poneva la causa in decisione provvedendo contestualmente a dare lettura del dispositivo della sentenza” … è chiaramente evincibile che la causa è stata decisa senza tener conto delle note conclusionali del 25.11.2016 (Tomo C, all. 6) rassegnate dall’appellante all’udienza del 6.12.2016 …. Da ciò, il preludio: della macroscopica svista di fatti determinanti, tra l’altro, ampiamente ripresi anche con la memoria di costituzione di nuovo procuratore del 25.06.2017 (Tomo C, all. 7); della macroscopica svista sulla loro oggettiva sopravvenienza -rispetto alla sentenza di primo grado ed alle prime fasi del giudizio d’appello- appurabile dalla datazione dei documenti posti a corredo degli atti difensivi e dall’attività amministrativa dagli stessi narrata”.

Sembra comprendersi dalle successive proposizioni che il fulcro della tesi esposta è che l’errore revocatorio (commesso dalla sentenza d’appello e non rilevato da quella resa sulla istanza di revocazione) è rappresentato dall’avere la Corte d’appello “deciso esclusivamente sulla scorta degli elementi di primo grado”, senza considerare, in particolare con riferimento al tema centrale della corretta quantificazione dei canoni dovuti, la numerosa documentazione che si deduce legittimamente prodotta in appello, in quanto sopravvenuta.

3.2. Il secondo asserito errore revocatorio (pagg. 22 – 25 del ricorso in esame) inficia, secondo il ricorrente, la sentenza del 2017 nella parte in cui ha rigettato il secondo motivo d’appello affermando che l’appellante, essendo subentrato nel rapporto locativo, non poteva far valere presunti vizi contrattuali in relazione ad accordi ai quali non aveva partecipato.

L’errore, in parte qua, sarebbe rappresentato dalla “madornale svista sulla sopravvenienza dei vizi intervenuti in epoca successiva al predetto subentro”, atteso che non era stato eccepito un vizio originario, ma “piuttosto la riduzione della superficie dell’immobile verificatasi durante la sua conduzione, nonché, conseguente all’allocazione delle nuove aperture esterne che il Comune di Sciacca aveva autonomamente deciso di posizionare”.

Si deduce che “questo fatto era stato esplicitato sia in primo grado (R.G. 332/2014) che in appello (R.G. n. 1228/2015) e, rispettivamente, sia con la comparsa di costituzione con domanda riconvenzionale (Tomo A, da pag. 30 a pag. 35) avverso l’intimazione di sfratto per morosità proveniente dal Comune di Sciacca (Tomo C, all. 1), sia con la memoria autorizzata del 20 giugno 2014 (cfr. Tomo A, da pag. 273 a pag. 277), sia con l’atto che introduceva l’appello (Tomo C, all. 3). Inoltre, a corredo di detti atti, erano state allegate tre foto (Tomo A, da pag. 43 a pag. 45) ed una perizia asseverativa elaborata dall’Arch. Maria Ma. (Tomo C, all. 27) (cfr. anche Tomo A, da pag. 55 a pag. 63, Tomo B, all. 33 da pag. 273 a pag. 281 ed all. 34 foto pag. 283 e Tomo C, all. ti 27 e 28)”.

La nullità del contratto per violazione di norme imperative

Altro errore revocatorio inficia, inoltre, secondo il ricorrente, nello stesso capo la sentenza d’appello, per avere la Corte siciliana ritenuto, contrariamente al vero, non contestate le risultanze della nota prot. n. 2062 del 5 giugno 2012: tale contestazione invece era contenuta nella perizia di parte (arch. Ma.) prodotta in primo e in secondo grado.

3.3. L’elencazione prosegue (alle pagg. 25 – 28 del ricorso in esame) con il terzo errore revocatorio che, secondo il ricorrente, colpirebbe la statuizione resa sul terzo motivo d’appello, rigettato sul rilievo della mancanza di prova del danno imputato ai lavori di ristrutturazione del palazzo comunale. Si deduce al riguardo, sotto vari profili, l’inesatta comprensione delle ragioni poste a fondamento della pretesa risarcitoria e l’omessa valutazione delle prove a tal fine offerte.

3.4. Il quarto errore revocatorio in elenco (pagg. 28 – 30 del ricorso in esame) colpisce, in thesi, la sentenza d’appello nella parte in cui ha ritenuto tardiva l’eccezione di nullità del contratto.

Tale convincimento lo si dice errato giacché – come, in tesi, incontestabilmente evincibile dalla datazione e dal contenuto dei documenti allegati alla memoria di costituzione del 25/06/2017, alcuni dei quali, già allegati alle note conclusionali datate 25/11/2016 – una parte dei documenti era già presente tra gli atti di causa ed integrava la precedente produzione e/o era richiamata dalla stessa; un’altra parte, era sopravvenuta e determinante ai fini dell’individuazione dell’eccepita nullità contrattuale.

Si osserva inoltre che “nessuna delle parti in causa ha mai messo in discussione la cogenza del regolamento comunale del 2002 per la determinazione del canone di locazione: il fatto non costituì un punto controverso su cui la sentenza ebbe a pronunciare; risulta evidentissima la difformità tra il chiesto ed il pronunciato e l’ultrapetizione in violazione dell’art. 112 c.p.c.”.

4. Con il secondo motivo (da pag. 30 a pag. 40 del ricorso) il ricorrente denuncia “violazione dell’art. 360 comma 1 n. 5 c.p.c. per omesso esame dei fondati motivi, eccepiti da parte attrice, comprovanti la sussistenza dei vari errori revocatori, anche in relazione all’infondatezza delle deduzioni di parte convenuta, integrate dalla comparsa di costituzione e risposta del 28/03/2018 (tomo D), palesemente non attinenti ed ininfluenti sul thema decidendum in sede di revocazione, tra l’altro, smentite dalla semplice lettura dei rispettivi documenti richiamati a comprova” (questa testualmente la rubrica).

La conclusione della illustrazione del motivo, dalla quale se ne può ricavare una attendibile sintesi (altrimenti impossibile), è del seguente testuale tenore: “… siamo di fronte ad evidentissime contraddizioni, tra le deduzioni di controparte e i documenti che la stessa chiama a comprova, trasudanti addirittura dalla comparsa di costituzione e risposta … Controparte non ha fornito alcun elemento utile volto a dimostrare l’insussistenza dell’errore revocatorio; viceversa, con gli atti, i mezzi di prova e le deduzioni introdotti in seno al procedimento n. 570/2018 R.G., l’odierno ricorrente aveva abbondantemente comprovato che la decisione assunta con la sentenza n. 1313/2017 risultava pregna

di svariati errori di fatto e che pertanto meritava di essere revocata; il Giudice della revocazione, disattendendo totalmente di esaminare predetti rilievi, quindi, omettendo di esaminare “un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti” con inverosimile sinteticità e per nulla appagante sotto il profilo motivazionale, ha dichiarato in sentenza sussistente l’errore revocatorio e l’inammissibilità, in quella sede, della domanda dell’odierno ricorrente”.

La nullità del contratto per violazione di norme imperative

5. Con il terzo motivo il ricorrente denuncia “violazione del combinato disposto degli artt. 132 c.p.c. comma 2 n. 4, della legge 18 giugno 2009 n. 69 e dell’art. 111 comma 6 Cost. in relazione all’art. 360 n. 4 e con riferimento all’anomalia motivazionale con la quale la Corte d’appello di Palermo ha dichiarato inammissibile l’impugnazione per revocazione sulla scorta di un’apparente motivazione ricondotta ad un’inesistente evidenza che l’errore denunciato dall’impugnante non rivestisse i connotati dell’errore revocatorio” (così testualmente nella intestazione).

Lamenta il carattere approssimativo e, dunque, apparente della motivazione resa dal giudice della revocazione sulla scorta delle seguenti considerazioni, che conviene testualmente riportare:

– “la svista, cioè il dato della realtà fattuale non esattamente percepito sul quale si imperniava la domanda, risultava appurabile da una semplice comparazione tra: il canone di locazione ed il criterio di determinazione ex art. 4 del regolamento comunale del 2002 … indicato nelle perizie estimative allegate e/o richiamate dalle delibere di Giunta del luglio/novembre 2015 … sopravvenute sia rispetto alla sentenza di primo grado che all’atto introduttivo del successivo giudizio d’appello . . .”;

– “il Giudice, errando finanche sul dato oggettivo rispondente alla datazione dei documenti comprovante la rispettiva sopravvenienza degli stessi, dichiarerà il tutto nuovo, tardivo ed inammissibile;

– “pertanto, il Giudice, non ha affatto compiuto alcuna valutazione di condotte della realtà fattuale giuridicamente rilevanti, non ha affatto valutato l’intero compendio probatorio alla stregua del regime giuridico ritenuto applicabile, e, fondando la decisione esclusivamente sugli elementi di primo grado e non valutando affatto tutti gli elementi sopravvenuti e determinanti introdotti dall’appellante, ha erroneamente ritenuto sussistente la morosità;

– “questo ed altri errori di fatto … sono stati oggetto di contestazione in sede di revocazione in quanto frutto di NON valutazione e di sviste”;

– “il Giudice della revocazione ha dato una motivazione costituita da meno di una pagina e, principalmente, assolutamente priva della benché minima esposizione idonea ad individuare il percorso argomentativo della pronuncia giudiziale, funzionale alla sua comprensione e alla sua eventuale verifica in sede di impugnazione; le ragioni di fatto e di diritto della decisione oggetto dell’odierna impugnazione non hanno neppure fornito un accenno di motivazione idonea a rendere comprensibile le ragioni dell’insussistenza di almeno uno dei vari errori revocatori eccepiti in quella sede”.

6. Tutti gli esposti motivi si appalesano inammissibili.

Il primo lo è anzitutto per l’assorbente ragione che, come balza evidente già dalla sintesi che se ne è fatta, le doglianze non sono rivolte contro la sentenza pronunciata nel giudizio di revocazione, bensì contro la sentenza d’appello.

Pur prescindendo dalla impossibilità di ravvisare in alcuno dei vizi dedotti la consistenza di errore di fatto percettivo (essendo piuttosto evidente che quelli dedotti sono semmai errori di valutazione e comunque di giudizio) è comunque prioritario e dirimente il rilievo della assoluta eccentricità di tali censure rispetto all’oggetto del rimedio impugnatorio attivato che, occorre ricordare, non riguardava, né poteva farlo, la sentenza d’appello ma la sentenza emessa dal giudice di merito su ricorso per revocazione proposto avverso quella sentenza.

Si trattava, dunque, di far valere eventuali vizi di legittimità, secondo la tassativa tipizzazione di cui all’art. 360 cod. proc. civ., della sentenza emessa dal giudice della revocazione ed invece il motivo si diffonde nella critica della sentenza d’appello – e ciò fa per ben diciassette fitte pagine, con prolissa e faticosa argomentazione, certamente inosservante del dovere di “chiarezza e sinteticità” dettato dal “Protocollo di intesa tra la Corte di Cassazione e il Consiglio Nazionale Forense in merito alle regole redazionali dei motivi di ricorso in materia civile e tributaria” del 17 dicembre 2015, ora anche previsto quale requisito di contenuto-forma del ricorso, a pena di inammissibilità, dal nuovo testo dell’art. 366 cod. proc. civ. come modificato dall’art. 3, comma 27, lett. d), d.lgs. 10 ottobre 2022, n. 149, ma comunque già ricavabile dal testo previgente, applicabile nella specie ratione temporis, dell’art. 366 n. 4 cod. proc. civ. che fa carico al ricorrente di indicare “i motivi per i quali si chiede la cassazione, con l’indicazione delle norme di diritto su cui si fondano” (v. Cass. Sez. U. Ordinanza n. 37552 del 30/11/2021).

La nullità del contratto per violazione di norme imperative

Non è certamente sufficiente a convertire tali doglianze in motivi di ricorso avverso la sentenza resa nel giudizio di revocazione l’accessoria affermazione che si tratterebbe di errori revocatori “non rilevati dall’adita Corte d’appello in sede di revocazione”.

La mera laconica allegazione di tale mancato rilievo non può configurare un motivo di ricorso di cassazione avverso la sentenza sulla revocazione, difettandone i minimi requisiti strutturali e funzionali; a tal fine sarebbe stato infatti necessario:

a) anzitutto indicare, nel rispetto degli oneri di specificità e autosufficienza imposti dagli art. 366 n. 6 e 369 n. 2 cod. proc. civ., se e quali dei presunti errori revocatori erano stati dedotti davanti al giudice della revocazione, il che non è stato in alcun modo fatto, non potendosi certamente ritenere assolto tale onere dal mero generico richiamo – leggibile a pag. 11, pt. 2, del ricorso in esame – all’atto di citazione introduttivo del giudizio di revocazione e dal correlato invito a considerarlo parte integrante del ricorso;

b) quindi evidenziare se e quale scrutinio sia stato dedicato a tali eventuali prospettazioni nella sentenza impugnata;

c) infine, indicare chiaramente il tipo di vizio cassatorio che, dal raffronto tra i motivi di revocazione e lo scrutinio fattone dal giudice a quo, si intenda denunciare (es. errata interpretazione dei presupposti e dei criteri di valutazione dettati dall’art. 395 cod. proc. civ. o errata applicazione degli stessi ai fatti accertati o omessa pronuncia o motivazione apparente o omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti).

Nulla di tutto ciò si ricava dal motivo in esame il quale ascrive del tutto inammissibilmente alla sentenza sulla revocazione errores in procedendo per violazione degli artt. 395 n. 4 e 112 c.p.c. senza indicare in alcun modo in quale passaggio motivazionale e in che modo la sentenza impugnata tali errori sarebbero stati commessi.

In buona sostanza, il motivo, che dovrebbe illustrare la violazione dell’art. 112 c.p.c. con riferimento a pretesi errori di fatto che la corte panormita non avrebbe esaminati, così incorrendo in omessa pronuncia su motivi di impugnazione per revocazione ex n. 4 dell’art. 395 c.p.c., non contiene alcuna attività riproduttiva, né diretta né indiretta, in questo secondo caso rinviando all’atto introduttivo del giudizio di revocazione, precisando la parte corrispondente all’indiretta riproduzione, di ciò che avrebbe integrato motivi di revocazione che la corte di merito avrebbe omesso di esaminare, con conseguente palese inosservanza dell’art. 366 n. 6 c.p.c.

L’individuazione dei motivi di impugnazione non esaminati, d’altro canto, non si coglie nemmeno nell’esposizione dl fatto del ricorso.

Il vero è, come detto, che di tale sentenza il motivo non si occupa affatto finendo con il proporre nei fatti sussidiarie censure in funzione revocatoria della sentenza d’appello per ovviare all’esito negativo che il precedente tentativo, nella sua sede appropriata, ha avuto.

7. È appena il caso di soggiungere, ad abundantiam, che, quand’anche quelli rappresentati fossero stati motivi proposti davanti al giudice della revocazione e quand’anche il motivo potesse intendersi come volto a censurare, sotto i profili dedotti, la ritenuta natura non revocatoria degli stessi, il motivo si appaleserebbe comunque inammissibile, ex art. 360-bis n. 1 cod. proc. civ., avendo il giudice a quo conformato la propria valutazione ai criteri dettati dalla costante giurisprudenza di questa Corte.

Al riguardo occorre rammentare che l’errore di fatto revocatorio ex art. 395 n. 4 cod. proc. civ.:

a) consiste nell’erronea percezione dei fatti di causa che abbia indotto la supposizione della esistenza o della inesistenza di un fatto, la cui verità è incontestabilmente esclusa o accertata dagli atti di causa, sempre che il fatto oggetto dell’asserito errore non abbia costituito terreno di discussione tra le parti (v. e pluribus Cass. 10/01/2018, n. 367; 19/05/2017, n. 12726; 08/03/2016, n. 4521; 26/03/2015, n. 6175);

b) deve possedere i caratteri della evidenza assoluta e della immediata rilevabilità sulla base del solo raffronto tra la sentenza impugnata e gli atti di causa, senza necessità di argomentazioni induttive o di indagini ermeneutiche (v., tra le tante, Cass. 19/05/2017, n. 12726; 13/05/2016, n. 9819; 07/03/2016, n. 4375; 21/10/2014, n. 22286);

c) non può concernere l’attività interpretativa e valutativa; si deve, cioè, trattare di un errore meramente percettivo, frutto di una errata supposizione, e non di valutazione o di giudizio basati su di una esatta rappresentazione (v. ex multis Cass. 08/02/2000, n. 1373; 04/09/1999, n. 9394; 12/01/1999, n. 226): l’errore, dunque, non può cadere: i) sul contenuto concettuale delle tesi difensive delle parti (tra le tante, Cass. 21/07/2017, n. 18137; 13/01/2017, n. 791; 13/05/2016, n. 9835); (ii) sull’interpretazione della domanda (v. ex plurimis Cass. 08/08/2017, n. 19715; 18/02/2014, n. 3771; 21/06/2013, n. 15734; 10/03/1992, n. 2884); (iii) sull’interpretazione di un contratto (ex multis, Cass. 24/02/1998, n. 2002; 13/08/1990, n. 8421); (iv) sulla soluzione data dal giudice in ipotesi di contrasto tra documenti di causa; v) sull’interpretazione e valutazione dei fatti di causa e su asserite violazioni o false applicazioni di norme giuridiche (v., tra le tante, Cass. 30/01/2018, n. 2281; 17/01/2018, n. 1046; 03/02/2017, n. 2921); non configura vizio revocatorio l’omesso esame di domande, eccezioni o motivi di gravame, che non si fondi sull’affermazione della loro mancata formulazione, o l’omesso esame di atti processuali ove la parte affermi essere state svolte argomentazioni giuridiche non considerate (v. ex multis Cass. 25/01/2018, n. 1855; 18/01/2018, n. 1239; 16/11/2017, n. 27167), né il semplice inesatto apprezzamento delle risultanze processuali (v. Cass. 19/01/2018, n. 1464; 23/10/2017, n. 24960; Cass. Sez. U. 15/11/2000, n. 1178);

d) deve trattarsi di errore essenziale e decisivo, nel senso che tra la percezione erronea e la decisione revocanda deve esistere un nesso causale tale da affermare con certezza che, ove l’errore fosse mancato, la pronuncia avrebbe avuto un contenuto diverso (Cass. 25/01/2017, n. 1972; 03/11/2016, n. 22177; 25/10/2016, n. 21452; Sez. U. 23/01/2009, n. 1666).

Nella specie è del tutto evidente che, anche per la estrema varietà degli elementi cui si fa riferimento, per la gran parte, peraltro, con evidente inosservanza degli oneri di specificità e autosufficienza imposti dagli artt. 366 n. 6 e 369 n. 2 cod. proc. civ., ciò che si denunciava con il ricorso revocatorio contro la sentenza di appello non era e non è un errore percettivo, tanto meno ben individuato su singole e specifiche fonti, bensì l’erronea ricognizione della fattispecie concreta nel suo complesso in quanto frutto di giudizio rispetto alle contrapposte tesi delle parti ovvero il rigetto delle argomentazioni in fatto e in diritto poste a fondamento delle eccezioni e domande svolte nel giudizio di merito, in termini dunque del tutto estranei alla funzione ed al ristretto perimetro di un giudizio revocatorio.

La nullità del contratto per violazione di norme imperative

8. Il secondo motivo è parimenti inammissibile.

La censura di omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti è dedotta in termini del tutto difformi dal paradigma che, quanto a presupposti e limiti di tale vizio cassatorio, è ormai stabilmente fissato nella interpretazione di questa Corte (v. Cass. Sez. U. 07/04/2014, nn. 8053 – 8054: “L’art. 360, primo comma, n. 5, cod. proc. civ., riformulato dall’art. 54 del d.l. 22 giugno 2012, n. 83, conv. in legge 7 agosto 2012, n. 134, introduce nell’ordinamento un vizio specifico denunciabile per cassazione, relativo all’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e abbia carattere decisivo (vale a dire che, se esaminato, avrebbe determinato un esito diverso della controversia). Ne consegue che, nel rigoroso rispetto delle previsioni degli artt. 366, primo comma, n. 6, e 369, secondo comma, n. 4, cod. proc. civ., il ricorrente deve indicare il “fatto storico”, il cui esame sia stato omesso, il “dato”, testuale o extratestuale, da cui esso risulti esistente, il “come” e il “quando” tale fatto sia stato oggetto di discussione processuale tra le parti e la sua “decisività”, fermo restando che l’omesso esame di elementi istruttori non integra, di per sé, il vizio di omesso esame di un fatto decisivo qualora il fatto storico, rilevante in causa, sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, ancorché la sentenza non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie”)

Nella specie, nell’ambito di una illustrazione se possibile ancora più prolissa, confusa e indecifrabile, si omette di indicare il fatto storico che, con le dette caratteristiche, non sarebbe stato considerato seppur decisivo ai fini del giudizio di revocazione.

La nullità del contratto per violazione di norme imperative

9. Anche il terzo motivo è inammissibile.

Ciò che vi si deduce esula dal contenuto che al paradigma del dedotto vizio hanno attribuito Cass. Sez. U. nn. 8053 e 8054 del 2014, citt., secondo le quali: “La riformulazione dell’art. 360, primo comma, n. 5, cod. proc. civ., disposta dall’art. 54 del d.l. 22 giugno 2012, n. 83, conv. in legge 7 agosto 2012, n. 134, deve essere interpretata, alla luce dei canoni ermeneutici dettati dall’art. 12 delle preleggi, come riduzione al “minimo costituzionale” del sindacato di legittimità sulla motivazione. Pertanto, è denunciabile in cassazione solo l’anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante, in quanto attinente all’esistenza della motivazione in sé, purché il vizio risulti dal testo della sentenza impugnata, a prescindere dal confronto con le risultanze processuali. Tale anomalia si esaurisce nella “mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico”, nella “motivazione apparente”, nel “contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili” e nella “motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile”, esclusa qualunque rilevanza del semplice difetto di “sufficienza” della motivazione”.

Nel caso di specie non è ravvisabile alcuna delle gravi anomalie argomentative individuate in detti arresti; piuttosto, è la censura a porsi chiaramente al di fuori del paradigma tracciato dalle Sezioni Unite nella misura in cui pretende di ricavare un siffatto radicale vizio della sentenza da elementi estranei alla motivazione stessa (donde la valutazione non di mera infondatezza del motivo, ma di radicale inammissibilità).

10. La memoria che, come detto, è stata depositata dal ricorrente, ai sensi dell’art. 380-bis.1, comma primo, cod. proc. civ., non offre argomenti che possano indurre a diverso esito dell’esposto vaglio dei motivi.

11. Il ricorso proposto nei confronti della sentenza emessa nel giudizio di revocazione deve essere pertanto dichiarato inammissibile.

Non avendo la parte intimata svolto difese nell’ambito di tale giudizio non v’è luogo a provvedere sulle relative spese.

12. Può dunque adesso procedersi all’esame del ricorso proposto avverso la sentenza stessa di cui si è chiesta, con l’esito testé detto, la revocazione.

13. Al riguardo deve anzitutto rilevarsi l’infondatezza dell’eccezione di inammissibilità del ricorso opposta dal controricorrente sul rilievo che lo stesso non sarebbe corredato da idonea procura speciale ex art. 365 cod. proc. civ., per essere quella conferita mancante di data e redatta con caratteri diversi.

Secondo il principio enunciato dalle Sezioni Unite di questa Corte, con sentenza n. 36057 del 09/12/2022, “a seguito della riforma dell’art. 83 cod. proc. civ. disposta dalla legge n. 141 del 1997, il requisito della specialità della procura, richiesto dall’art. 365 cod. proc. civ. come condizione per la proposizione del ricorso per cassazione (del controricorso e degli atti equiparati), è integrato, a prescindere dal contenuto, dalla sua collocazione topografica; nel senso che la firma per autentica apposta dal difensore su foglio separato, ma materialmente congiunto all’atto, è in tutto equiparata alla procura redatta a margine o in calce allo stesso. Tale collocazione topografica fa sì che la procura debba considerarsi conferita per il giudizio di cassazione anche se non contiene un espresso riferimento al provvedimento da impugnare o al giudizio da promuovere, purché da essa non risulti, in modo assolutamente evidente, la non riferibilità al giudizio di cassazione; tenendo presente, in ossequio al principio di conservazione enunciato dall’art. 1367 cod. civ. e dall’art. 159 cod. proc. civ., che nei casi dubbi la procura va interpretata attribuendo alla parte conferente la volontà che consenta all’atto di produrre i suoi effetti”

La nullità del contratto per violazione di norme imperative

Nella specie è del tutto evidente che, tanto più considerando l’espresso riferimento alla sentenza impugnata, né la mancanza di data né l’uso di caratteri diversi da quelli utilizzati per la stesura del ricorso possono costituire elementi che inducano a ritenere, “in modo assolutamente evidente”, la procura non riferibile al giudizio di cassazione.

Tanto meno, in mancanza di alcuna previsione in tal senso e di alcuna ragione logico sistematica, può considerarsi foriero di alcuna conseguenza processuale, tale da impedire l’accesso al giudizio di legittimità, il mancato deposito del decreto di ammissione al patrocinio a spese dello Stato.

14. Con il primo motivo il ricorrente denuncia “violazione dell’art. 1418 comma 1 c.c., e dell’art. 1421 c.c.; violazione dell’art. 117 n. 6, cost. e dell’art. 1 n. 2) delle preleggi disposizioni sulla legge in generale (regio decreto 16/03/1942 n. 262) e violazione dell’art. 97 Costituzione in relazione all’art. 360 primo comma n. 3 c.p.c.” (cosi la rubrica).

14.1. Lamenta che erroneamente la Corte d’appello ha ritenuto inammissibile, perché tardivamente proposta, l’eccezione di nullità del contratto di locazione, benché si tratti, ex art. 1421 cod. civ., di eccezione rilevabile d’ufficio in ogni stato e grado del giudizio.

14.2. Critica, inoltre, l’aggiuntivo rilievo svolto in sentenza secondo cui l’eccezione dovrebbe ritenersi comunque infondata, dal momento che, trattandosi di locazione commerciale, la determinazione del canone è sempre sottoposta alla libera contrattazione tra le parti, non potendo, quindi, assumere alcuna rilevanza il dedotto mancato rispetto dell’obbligo, imposto dal regolamento comunale, di acquisire, prima della determinazione del canone, una perizia estimativa del bene concesso in locazione.

Osserva al riguardo il ricorrente che il regolamento comunale approvato con delibera di Consiglio Comunale n. 109/2002 del 07/05/2002 (di cui viene riportato per esteso l’art. 4, ove si prevede che “nella stipula dei contratti per la concessione di beni immobili, il canone da corrispondersi al comune per l’utilizzo dell’immobile comunale è determinato, sulla base dei valori correnti di mercato per beni di caratteristiche analoghe, con apposita perizia estimativa effettuata dai tecnici del servizio patrimonio”, sulla base degli “elementi essenziali di valutazione” ivi elencati) è fonte del diritto direttamente applicabile e vincolante per le parti, ai sensi dell’art. 117 n. 6, Cost. e dell’art. 1 n. 2 delle preleggi e che, a ragionare diversamente, si attribuirebbe all’Ente comunale il potere di disapplicarlo secondo sua discrezione nei rapporti con i terzi, in evidente contrasto con i doveri della pubblica amministrazione ed in primis con il principio di imparzialità sancito dall’art. 97 della Costituzione.

15. Con il secondo motivo il ricorrente denuncia “violazione dell’art. 1419 comma 2 c.c., dell’art. 1421 c.c, violazione dell’art. 117 n. 6, cost. e dell’art. 1 n. 2) delle preleggi disposizioni sulla legge in generale (regio decreto 16/03/1942 n. 262) e violazione dell’art. 97 Costituzione in relazione all’art. 360 primo comma n. 3 c.p.c.” (così la rubrica).

Rileva che la clausola di cui all’art. 2) del contratto di locazione (rep. n. 4300 del 2003) – a mente della quale il canone è fissato a Euro 154,94/mq annuali, secondo i prezzi già stabiliti con delibera consiliare n. 97/94 – si pone in assoluto contrasto con le norme imperative dettate dal regolamento del 2002 e che pertanto il giudice di appello avrebbe dovuto rilevare la nullità parziale del contratto, ai sensi dell’art. 1419, secondo comma, cod. civ., con la conseguente imposizione all’Ente comunale di sostituirla facendo applicazione della norma del regolamento.

16. Con il terzo motivo il ricorrente – denunciando “violazione dell’art. 11 e 131 d.P.R. nr. 115 del 2002 in relazione all’art. 360 primo comma n. 3 c.p.c.” – lamenta che erroneamente la Corte d’appello abbia dichiarato in sentenza la sussistenza dei presupposti di cui all’art. 13, comma 1-quater, d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115 per il versamento dell’ulteriore contributo unificato di cui all’art. 13, comma 1-bis, del medesimo d.P.R., omettendo di considerare che, per il giudizio di appello, egli era stato ammesso al patrocinio a spese dello Stato, con conseguente esenzione dal pagamento del contributo predetto.

La nullità del contratto per violazione di norme imperative

17. Il primo motivo è inammissibile.

Converrà al riguardo rammentare che, se è vero che la nullità del contratto per contrasto con norme imperative costituisce bensì eccezione in senso lato come tale rilevabile anche d’ufficio in ogni stato e grado del giudizio (art. 1421 cod. civ.) (v. Cass. Sez. U. 12/12/2014, nn. 26242 e 26243; Sez. U. 22/03/2017, n. 7294), è anche vero, però, che la rilevabilità officiosa delle eccezioni in senso lato, cioè della rilevanza in iure dei fatti che le integrano, se non è condizionata all’onere di allegazione -della parte che dell’eccezione può beneficiare (secondo la struttura normativa della fattispecie oggetto di giudizio)- dei detti fatti, né tanto meno al rispetto dei termini di preclusione fissati per l’esercizio dei poteri assertivi delle parti circa le c.d. eccezioni in senso stretto, lo è pur sempre però (condizionata) alla emergenza ex actis degli elementi fattuali (i fatti) sulla cui base quella eccezione possa essere rilevata d’ufficio o dedotta dalla parte interessata (v. Cass. Sez. U. 07/05/2013, n. 10531; Cass. 01/09/2021, n. 23721; 06/05/2020, n. 8525; 31/10/2018, n. 27998; 26/02/2014, n. 4548), assumendo rilevanza, sotto il profilo delle preclusioni all’introduzione dei fatti stessi, il momento in cui, secondo la legge processuale (rito), è previsto che nel processo possano essere dedotti fatti, tuttavia con la relatività derivante dalla possibilità che i fatti integratori di eccezioni in senso lato possano eventualmente emergere, in base al c.d. principio di acquisizione processuale, pure dall’espletamento delle prove ammesse.

Sulla base di queste considerazioni si deve rilevare che la valutazione della eccezione di nullità del contratto in sede di legittimità presuppone che in sede di giudizio di merito siano stati accertati i relativi presupposti di fatto, risultino cioè introdotti e acquisiti quei fatti, anche se non ne sia stata rilevata la valenza in iure, né dalla parte interessata, né dallo steso giudice del merito. La nullità può, infatti, essere bensì rilevata d’ufficio in ogni stato e grado del giudizio, ma solo là dove siano acquisiti agli atti del giudizio tutti gli elementi di fatto dai quali possa desumersene l’esistenza (v. ex aliis Cass. n. 4175 del 19/02/2020; n. 3556 del 13/02/2020; n. 25273 del 10/11/2020; v. pure Cass. Sez. U. nn. 26242 e 26243 del 2014, cit., ove è precisato, anche con richiamo al precedente arresto, sul punto confermato, di Cass. Sez. U. 04/09/2012, n. 14828, che “nell’ambito di un giudizio di risoluzione contrattuale, il giudice può rilevare d’ufficio la nullità: a) solo se questa emerge dai fatti allegati e provati, o comunque ex actis …”).

18. Sarà utile in proposito ancora rammentare che Cass. Sez. U. n. 10531 del 2013 intervenne a dirimere un contrasto tra due opposti orientamenti: un primo, secondo il quale il giudice può rilevare d’ufficio le eccezioni in senso lato, anche in mancanza di allegazione di parte, purché risultino dagli atti del processo; un secondo, a mente del quale per il rilievo d’ufficio è pur sempre necessaria l’allegazione della parte in limine litis del fatto oggetto del rilievo officioso.

Le Sezioni Unite, nel 2013, sciolsero il contrasto accogliendo il primo capo dell’alternativa e, cioè, affermando la possibilità per il giudice di rilevare d’ufficio le eccezioni in senso lato, anche in appello, che risultino documentate ex actis, indipendentemente da specifica allegazione di parte.

Fecero però una avvertenza: “questa è la circoscritta materia del caso di specie, che non chiede di pronunciarsi anche sulla possibilità di articolare nuovi mezzi di prova e produrre documenti allorquando la parte faccia valere oltre il limite delle preclusioni istruttorie, o in appello, eccezioni rilevabili di ufficio o il giudice rilevi tardivamente tali questioni” (§ 7, inizio di pag. 12).

Questa precisazione si correla all’inciso leggibile nella parte finale della motivazione che il Supremo Collegio dedicò alla questione, secondo cui “è confermato che deve essere ammessa in appello la rilevabilità di eccezioni in senso lato, che ha senso preminente quando è basata su allegazioni nuove, quantomeno se già documentate ex actis” (§ 7.2 in fine, pag. 14).

Non altrimenti, infatti, può intendersi l’uso dell’avverbio “quantomeno” se non nel senso che, ai fini della (sola) questione in quella occasione affrontata (quella cioè, come detto, se ai fini della rilevabilità officiosa delle eccezioni in senso lato occorresse oppure no la tempestiva allegazione del fatto su cui essa è fondata, nel rispetto delle preclusioni assertive e probatorie), è sufficiente che il fatto sia già documentato ex actis, essendo esplicitamente estromessa dal tema trattato la diversa (sebbene strettamente correlata) questione se, al fine di far valere quelle eccezioni, la parte possa oppure no anche articolare nuovi mezzi di prova e produrre documenti oltre il limite delle preclusioni istruttorie o in appello.

19. Orbene, l’argomentare del ricorrente sembrerebbe -almeno per implicito- voler dare a tale secondo quesito, espressamente lasciato in disparte nell’arresto delle Sezioni Unite, risposta affermativa.

La tesi però va certamente respinta.

Essa anzitutto, va ribadito, seppur trova avallo in parte della dottrina non ha mai trovato ingresso nella giurisprudenza di questa Corte, la quale anzi ha ripetutamente affermato che il fatto posto a fondamento della eccezione in senso lato deve essere già legittimamente acquisito sul piano probatorio.

Ma vi si oppongono soprattutto ragioni di ordine sistematico che si rinvengono in nuce anche nel citato fondamentale arresto del 2013 delle Sezioni Unite.

Nucleo centrale di quella pronuncia sta nel rilievo che “la rilevabilità d’ufficio delle eccezioni in senso lato, con la loro ampia nozione, è posta in funzione di una concezione del processo che talora semplicisticamente è stata definita come pubblicistica, ma che, andando al fondo, fa leva sul valore della giustizia della decisione”.

A questo rilievo fa subito dopo da contraltare quello secondo cui “rispetto a questo valore, le preclusioni operano su altro piano, poiché queste ultime sono essenzialmente un criterio d’ordine, una tecnica per regolare il processo, sempre con il fine di pervenire ad una decisione giusta, pur prevedendo un meccanismo per disciplinare l’attività delle parti”.

La distinzione dei due piani comporta bensì, nel successivo sviluppo argomentativo, la sottrazione, per le eccezioni in senso lato (come per le mere difese), ai limiti delle preclusioni assertive e istruttorie (aggettivo, quest’ultimo, utilizzato in sentenza evidentemente per individuare la scansione processuale e non il contenuto dell’attività che si sta dicendo essere ad essa sottratta), del potere di allegare o rilevare fatti per esse rilevanti, ma non anche del potere di richiedere o introdurre le fonti (anche documentali) di prova da cui tali fatti, se ancora non provati da alcuna fonte o mezzo di prova ritualmente acquisita, possano emergere.

Al primo dei piani distinti dalle Sezioni Unite appartiene certamente il potere di allegazione e rilevazione di fatti (già provati) ad oggetto di eccezioni in senso lato; al secondo appartiene invece l’esercizio dei poteri istruttori.

Un conto è, infatti, consentire che la parte alleghi e/o rilevi dopo la scadenza delle preclusioni e anche in appello o che il giudice rilevi fatti che, già documentati o provati in atti, ossia ritualmente acquisiti, evidenziano l’infondatezza della pretesa sebbene alla stregua di eccezione non allegata dalla parte interessata nella fase procedimentale deputata all’esercizio dei poteri assertivi (es. pagamento del debito o interruzione della prescrizione): ed è a questo risultato che certamente deve condurre quella concezione del processo che le Sezioni Unite condivisibilmente negano possa definirsi pubblicistica, essendo piuttosto solo funzionale al “valore della giustizia della decisione”.

Altro e ben diverso discorso è invece piegare a tale valore anche le esigenze di regolazione ordinata del processo e dell’esercizio dei poteri delle parti e del giudice, come avverrebbe se si ritenesse consentito di sottrarre alle preclusioni non solo il potere di allegare e rilevare fatti (già provati nel processo) ma anche di provare e, dunque, a monte di introdurre come oggetto di prova, per la prima volta quei fatti, rimettendo in moto una fase procedimentale che deve invece considerarsi ormai chiusa, nell’ordinato svolgimento del processo (connotato imprescindibile del “giusto processo regolato dalla legge”: art. 111, comma primo, Cost.; art. 6 Cedu).

20. Peraltro, come rimarcano le Sezioni Unite nel citato arresto del 2013, si tratta di piani che sono “sempre rimasti distinti nel testo normativo”.

In tale direzione argomentativa particolarmente significativo appare il riferimento (nel § 7.2.2. della sentenza) proprio al testo novellato dell’art. 345 cod. proc. civ. nel quale – come sottolineano le Sezioni Unite -, accanto alla scelta di ribadire espressamente, nel secondo comma, che nel giudizio di appello possono proporsi nuove eccezioni purché siano rilevabili anche d’ufficio, convive quella, nel terzo comma, di escludere l’ammissibilità di nuove prove e nuovi documenti (esclusione ancora più rigorosa dopo la modifica introdotta dall’art. 54, comma 1, lett. 0b, d.l. 22 giugno 2012, n. 83, convertito con modificazioni dalla legge 7 agosto 2012, n. 134, che ha eliminato il limite a tale divieto prima costituito dalla “indispensabilità” delle nuove prove).

Non potrebbe dirsi più chiaramente che ammettere in appello l’allegazione (o la rilevazione ufficiosa) di nuove eccezioni in senso lato o di mere difese (art. 345, secondo comma) non significa anche ammettere nuove prove, anche documentali, ancorché dirette a provare i fatti allegati ad oggetto di dette eccezioni o difese (art. 345, terzo comma); la stretta contiguità topografica delle norme avrebbe, infatti, altrimenti imposto di precisare che il divieto di cui al terzo comma non vale per le eccezioni in senso lato e le mere difese ammesse nel secondo.

Queste, pertanto, deve in definitiva ribadirsi, intanto potranno sortire l’effetto per le quali sono dedotte, in quanto trovino riscontro si fondino, su fatti già ritualmente acquisiti al processo, ma dei quali non si sia né dalla parte interessata né dal giudice del grado precedente rilevata l’efficacia, il valore in iure. Ancorché – come precisano le Sezioni Unite – non necessariamente debba a tal fine trattarsi di elementi di prova, scilicet di fatti, offerti dalla parte interessata, potendo anche essere rappresentati da “risultanze comunque disponibili negli atti di causa (in quanto provenienti da produzioni dello stesso attore o di altri convenuti, ovvero da esiti di consulenza tecnica o da dichiarazioni spontanee dei testimoni)” (per tali considerazioni, certamente estendibili anche ai giudizi soggetti, come quello di che trattasi, al rito del lavoro, e segnatamente all’art. 437 c.p.c. il quale pone limiti, come si dirà, non dissimili alle allegazioni consentite nel giudizio di appello, v., in motivazione, Cass. 22/03/2022, n. 9246; 11/02/2022, n. 4579; 01/02/2023, n. 2963; 11/07/2023, n. 19714).

21. Nella specie, in ordine alla ricavabilità di un tale accertamento dagli atti del giudizio di merito non vi è da parte del ricorrente assolvimento dell’onere di cui all’art. 366, comma primo, num. 6, cod. proc. civ.: egli omette, infatti, di indicare dove e come i fatti integratori della pretesa nullità fossero stati introdotti nel processo e sarebbero stati rilevabili.

Anzi, la sola indicazione al riguardo offerta – ovvero quella secondo cui la documentazione a corredo della eccezione di nullità sia stata prodotta, unitamente all’atto (costituzione di nuovo procuratore) depositato in data 1 luglio 2017, con cui si prospettava la detta nullità – conferma che, per l’appunto, gli elementi di fatto sulla cui base poter operare una tale valutazione, sono stati introdotti per la prima volta in vista dell’udienza di discussione della causa in appello (tenutasi, secondo quanto è detto in sentenza, il 4 luglio 2017) secondo il rito del lavoro. Il che conferma che in precedenza tali allegazioni di fatto non erano state proposte e che lo furono, inammissibilmente, solo in appello.

Sul punto varrà rammentare che, secondo principio assolutamente fermo nella giurisprudenza di questa Corte, “nel rito del lavoro, in base al combinato disposto degli artt. 416, terzo comma, cod. proc. civ., che stabilisce che il convenuto deve indicare a pena di decadenza i mezzi di prova dei quali intende avvalersi, ed in particolar modo i documenti, che deve contestualmente depositare – onere probatorio gravante anche sull’attore per il principio di reciprocità fissato dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 13 del 1977 – e 437, secondo comma, cod. proc. civ. che, a sua volta, pone il divieto di ammissione in grado di appello di nuovi mezzi di prova – fra i quali devono annoverarsi anche i documenti -, l’omessa indicazione, nell’atto introduttivo del giudizio di primo grado, dei documenti, e l’omesso deposito degli stessi contestualmente a tale atto, determinano la decadenza del diritto alla produzione dei documenti stessi, salvo che la produzione non sia giustificata dal tempo della loro formazione o dall’evolversi della vicenda processuale successivamente al ricorso ed alla memoria di costituzione (ad esempio, a seguito di riconvenzionale o di intervento o chiamata in causa del terzo); e la irreversibilità della estinzione del diritto di produrre i documenti, dovuta al mancato rispetto di termini perentori e decadenziali, rende il diritto stesso insuscettibile di reviviscenza in grado di appello. Tale rigoroso sistema di preclusioni trova un contemperamento – ispirato alla esigenza della ricerca della “verità materiale”, cui è doverosamente funzionalizzato il rito del lavoro, teso a garantire una tutela differenziata in ragione della natura dei diritti che nel giudizio devono trovare riconoscimento – nei poteri d’ufficio del giudice in materia di ammissione di nuovi mezzi di prova, ai sensi del citato art. 437, secondo comma, cod. proc. civ., ove essi siano indispensabili ai fini della decisione della causa, poteri, peraltro, da esercitare pur sempre con riferimento a fatti allegati dalle parti ed emersi nel processo a seguito del contraddittorio delle parti stesse” (Cass. Sez. U. n. 8202 del 20/04/2005, Rv. 580935 -01, e succ. conff.).

22. Le ulteriori argomentazioni critiche, volte a contestare la subordinata motivazione circa l’insussistenza della dedotta nullità, sono a loro volta inammissibili in quanto investono una valutazione, del giudice a quo, circa la fondatezza nel merito del motivo, da ritenersi preclusa per difetto di jus postulandi dalla preliminare delibazione negativa sulla ammissibilità dello stesso.

Viene infatti in rilievo, e va qui ribadito, il principio affermato da Cass. Sez. U. n. 3840 del 20/02/2007 secondo il quale qualora il giudice, dopo una statuizione di inammissibilità (o declinatoria di giurisdizione o di competenza), con la quale si è spogliato della potestas iudicandi in relazione al merito della controversia, abbia impropriamente inserito nella sentenza argomentazioni sul merito, la parte soccombente non ha l’onere né l’interesse ad impugnare; conseguentemente è ammissibile l’impugnazione che si rivolga alla sola statuizione pregiudiziale ed è viceversa inammissibile, per difetto di interesse, l’impugnazione nella parte in cui pretenda un sindacato anche in ordine alla motivazione sul merito, svolta ad abundantiam nella sentenza gravata.

23. Varrà comunque, incidentalmente e ad abundantiam, rilevare anche l’infondatezza di tali critiche.

Si deve infatti escludere che, quand’anche fossero risultati acquisiti in giudizio gli elementi di fatto da cui desumere la dedotta violazione della norma del regolamento comunale, ne sarebbe potuta discendere l’invocata declaratoria di nullità del contratto.

Ferma la detta preclusione per difetto di jus postulandi ed astraendo da essa, deve invero considerarsi corretta la valutazione sul punto espressa, in subordine, dalla Corte territoriale, non potendo la violazione di una disposizione regolamentare – violazione qui solo ipotizzata a fini argomentativi – trovare sanzione nell’ordinamento statale, governato, in materia di locazione di immobili ad uso diverso, dal principio generale della libertà di contrattazione.

24. Per le stesse ragioni va dichiarato inammissibile il secondo motivo di ricorso.

25. Il terzo motivo è, infine, parimenti inammissibile alla luce del principio enunciato da Cass. Sez. U. n. 4315 del 20/02/2020 secondo cui “il giudice dell’impugnazione, ogni volta che pronunci l’integrale rigetto o l’inammissibilità o la improcedibilità dell’impugnazione, deve dare atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento di un ulteriore importo del contributo unificato anche nel caso in cui quest’ultimo non sia stato inizialmente versato per una causa suscettibile di venir meno (come nel caso di ammissione della parte al patrocinio a spese dello Stato); mentre può esimersi dalla suddetta attestazione quando la debenza del contributo unificato iniziale sia esclusa dalla legge in modo assoluto e definitivo”; spetterà, dunque, all’amministrazione giudiziaria verificare la debenza in concreto del contributo, per la inesistenza di cause originarie o sopravvenute di esenzione dal suo pagamento.

26. La memoria che, come detto, è stata depositata dal ricorrente, ai sensi dell’art. 380-bis.1, comma primo, cod. proc. civ., non offre argomenti che possano indurre a diverso esito dell’esposto vaglio dei motivi.

27. Anche il primo ricorso (iscritto al n. 9552/2018 R.G.) deve dunque, in conclusione, essere dichiarato inammissibile.

28. Alla soccombenza segue la condanna del ricorrente alla rifusione, in favore del controricorrente, delle spese processuali, liquidate come da dispositivo.

29. Va dato atto della sussistenza, con riferimento a ciascuno dei ricorsi qui trattati unitariamente, dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, nel testo introdotto dall’art. 1, comma 17, legge 24 dicembre 2012, n. 228, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, in misura pari a quello previsto per il ricorso, ove dovuto, a norma dell’art. 1-bis dello stesso art. 13.

La nullità del contratto per violazione di norme imperative

P.Q.M.

La Corte dà atto che con separata ordinanza è stata disposta la riunione al procedimento iscritto al n. 9552/2018 R.G. di quello iscritto al n. 10650/2022 R.G.; dichiara inammissibili entrambi i ricorsi. Condanna il ricorrente alla rifusione, in favore del controricorrente, delle spese processuali, liquidate (con riferimento al primo procedimento) in Euro 2.300 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi liquidati in Euro 200,00, ed agli accessori di legge.

Ai sensi dell’art. 13 comma 1-quater del d.P.R. n. 115 del 2002, nel testo introdotto dall’art. 1, comma 17, legge 24 dicembre 2012, n. 228, dà atto della sussistenza, con riferimento a ciascuno dei ricorsi trattati unitariamente, dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, in misura pari a quello previsto per il ricorso, ove dovuto, a norma dell’art. 1-bis dello stesso art. 13.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Terza Civile della Corte Suprema di Cassazione, il 16 gennaio 2024.

Depositato in Cancelleria il 23 febbraio 2024.

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