Corte di Cassazione, sezione prima penale, Sentenza 1 ottobre 2018, n. 43214.
La massima estrapolata:
Le norme di legge che disciplinano l’attivita’ degli amministratori di una societa’ di capitali, dettate al fine di consentire un corretto svolgimento dell’amministrazione della persona giuridica, sono applicabili non soltanto alle persone fisiche immesse, nelle forme stabilite dalla legge, mediante atto negoziale di preposizione gestoria (di regola, atto costitutivo: articolo 2328 c.c., comma 1, n. 9), articolo 2383 c.c., comma 1, articolo 2475 c.c., comma 1, n. 7), articolo 2487 c.c.; deliberazione di assemblea: articolo 2364 c.c., comma 1, n. 2), articolo 2383 c.c., comma 1, articoli 2486 e 2487 c.c.; sostituzione per cooptazione: articoli 2386 e 2487 cod. civ.), nelle funzioni di amministrazione, ma anche a coloro che si siano, di fatto ingeriti nella gestione della societa’ in assenza di una qualsivoglia investitura da parte dell’assemblea, sia pur irregolare o implicita; con la conseguenza che i responsabili delle violazioni di dette norme di legge vanno individuati, anche nell’ambito del diritto privato (cosi’ come in quello del diritto penale ed amministrativo: Decreto Legislativo n. 385 del 1993, articoli 135 e 136; Decreto Legislativo n. 472 del 1997, articolo 11; Decreto Legislativo n. 58 del 1998, articoli 190 e 193) non sulla base della loro qualificazione formale, bensi’ con riguardo al contenuto delle funzioni concretamente esercitate; con l’ulteriore, necessaria, precisazione che l’individuazione della figura del cosiddetto “amministratore di fatto” presuppone che la persona abbia in concreto svolto attivita’ di gestione (e non anche meramente esecutive) della societa’ e che tale attivita’ abbia carattere sistematico e non si esaurisca nel compimento di taluni atti di natura eterogenea ed occasionale (cfr., sul punto, Cass. civ. 14 settembre 1999, n. 9795).
La nozione di amministratore di fatto postula dunque, anche nell’ambito del diritto penale, l’esercizio in modo continuativo e significativo dei poteri tipici inerenti alla qualifica od alla funzione gestoria; ma cio’ non significa che in concreto siano necessariamente esercitati tutti i poteri propri dell’organo di gestione della societa’, essendo invece sufficiente l’esercizio di un’apprezzabile attivita’ gestoria, svolta in modo non episodico o occasionale. Da cio’ consegue che la prova della posizione di amministratore di fatto si traduce nell’accertamento di elementi sintomatici dell’inserimento organico del soggetto con funzioni direttive – in qualsiasi fase della sequenza organizzativa, produttiva o commerciale dell’attivita’ della societa’, quali sono i rapporti con i dipendenti, i fornitori o i clienti ovvero in qualunque settore gestionale di detta attivita’, sia esso aziendale, produttivo, amministrativo, contrattuale o disciplinare – il quale costituisce oggetto di una valutazione di fatto insindacabile in sede di legittimita’, ove sostenuta da congrua e logica motivazione
Sentenza 1 ottobre 2018, n. 43214
Data udienza 30 maggio 2017
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE PRIMA PENALE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. BONITO F. M. S. – Presidente
Dott. VANNUCCI Marco – rel. Consigliere
Dott. MANCUSO Luigi Fabrizio – Consigliere
Dott. BONI Monica – Consigliere
Dott. CAIRO Antonio – Consigliere
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
(OMISSIS), N. IL (OMISSIS);
avverso la sentenza n. 219/2015 CORTE APPELLO di BRESCIA, del 12/03/2015;
visti gli atti, la sentenza e il ricorso;
udita in PUBBLICA UDIENZA del 30/05/2017 la relazione fatta dal Consigliere Dott. MARCO VANNUCCI.
Udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale della Repubblica, Dott. Gaeta Pietro, che ha concluso chiedendo la declaratoria di inammissibilita’ del ricorso.
Udito per il ricorrente l’avvocato (OMISSIS) che ha insistito per l’accoglimento del ricorso.
RITENUTO IN FATTO
1. Con sentenza emessa il 18 dicembre 2012 il Tribunale di Brescia dichiaro’, per quanto qui interessa, (OMISSIS), amministratore di fatto della (OMISSIS) s.p.a. (dichiarata fallita il (OMISSIS)), responsabile, in concorso con (OMISSIS), amministratore nominato dall’assemblea di tale societa’, della commissione del delitto di bancarotta fraudolenta patrimoniale (per distrazione) e documentale pluriaggravata (articolo 110 cod. pen. e L.Fall. articolo 223, articolo 216, comma 1, nn. 1) e 2) e articolo 219, comma 1 e comma 2, n. 1) e lo condanno’ alla pena di quattro anni di reclusione.
2. Con sentenza emessa il 26 giugno 2013 la Corte di appello di Brescia dichiaro’ inammissibile l’appello proposto da (OMISSIS) per la riforma della citata sentenza di primo grado.
3. Adita dall’imputato, questa Corte (Sezione 5), con sentenza n. 1213/15 del 28 ottobre 2014, in accoglimento del primo motivo di ricorso, annullo’ la menzionata sentenza di appello, con rinvio ad altra sezione della medesima Corte di appello per nuovo esame dell’impugnazione, sul rilievo che non vi era prova del fatto che il termine assegnato all’imputato contumace per impugnare dall’articolo 585 cod. proc. pen., comma 2, fosse spirato in data anteriore a quella di proposizione dell’appello da parte di tale imputato.
4. Con sentenza emessa il 12 marzo 2015 la Corte di appello di Brescia, in parziale riforma della sentenza di primo grado: qualifico’ in termini di bancarotta semplice documentale il fatto contestato come bancarotta fraudolenta documentale; ridetermino’ la pena relativa ai fatti accertati nella misura di tre anni e quattro mesi di reclusione; confermo’ la sentenza appellata quanto alle statuizioni accessorie in essa contenute.
4.1 La motivazione della decisione puo’ cosi’ sintetizzarsi: il testimone (OMISSIS), titolare di impresa che con (OMISSIS) aveva avuto rapporti commerciali protratti per cinque o sei anni, aveva, in buona sostanza dichiarato che (OMISSIS), persona incaricata della consegna dei materiali, lo aveva informato della sua volonta’ di vendere l’azienda attraverso la quale la (OMISSIS) svolgeva la propria attivita’ d’impresa; il contenuto di tali dichiarazioni evidenziava, al di la’ di ogni possibile equivoco, che (OMISSIS) era “il reale dominus dell’azienda, posto che e’ di intuitiva evidenza che un semplice dipendente addetto alle consegne di certo non puo’ manifestare, ad un fornitore di lunga data, un siffatto intendimento”; il testimone (OMISSIS), che per due anni (2006 e 2007) aveva avuto rapporti commerciali con la societa’ fallita, aveva dichiarato che gli affari era sempre da lui conclusi con (OMISSIS) “che si presentava come titolare assoluto della ditta ed era l’unico ad assumere, in esclusiva, le decisioni aziendali”, anche nel periodo in cui l’incarico gestorio della societa’ era formalmente svolto da (OMISSIS), precisando che verso la fine dell’anno 2007 (OMISSIS) gli aveva comunicato che (OMISSIS) avrebbe interrotto la produzione di box per d.v.d.; il valore probatorio di tali dichiarazioni, unitariamente considerate, non poteva essere sminuita dal fatto che i testimoni erano due fra gli oltre cento clienti della societa’, dal momento che il dato temporale e qualitativo dei rapporti commerciali intercorsi consentiva di affermare che “nella quotidiana prassi operativa della societa’ la gestione degli affari, la scelta della clientela, la fissazione dei prezzi di vendita fossero demandati ed esercitati in via esclusiva a (OMISSIS)” che, dunque, doveva essere considerato amministratore di fatto della societa’; nessuna censura era stata poi mossa dall’appellante quanto alla attribuibilita’ alla sua persona del delitto di bancarotta fraudolenta per distrazione, in riferimento all’esercizio (OMISSIS), di attivo circolante pari a Euro (OMISSIS) (di cui Euro 1.000.000 costituiti da crediti appostati ma scarsamente attendibili) e di immobilizzazioni materiali per Euro 708.464, con la conseguenza che sul punto era sufficiente evidenziare che la curatela del fallimento non aveva rinvenuto beni e attivo circolante indicati nel bilancio al (OMISSIS) e l’imputato non aveva dato adeguata motivazione in ordine al mancato rinvenimento di tali beni; il fatto contestato come bancarotta fraudolenta documentale era invece da qualificare come bancarotta semplice documentale per i motivi specificamente evidenziati; a (OMISSIS) non potevano essere concesse circostanze attenuanti generiche in considerazione del quanto mai rilevante pregiudizio derivato ai creditori della societa’ fallita (passivo pari a complessivi Euro 3.200.000; attivo pari a Euro 50.000 recuperati a seguito di azione di responsabilita’ promossa contro i sindaci della societa’ fallita) e del fatto che (OMISSIS) non aveva messo a disposizione del curatore la contabilita’ aziendale, ne’ aveva dato a questi adeguate indicazioni quanto alla destinazione dei beni aziendali non rinvenuti; la pena, in considerazione della oggettiva gravita’ dei fatti e del pregiudizio che questi avevano arrecato ai creditori concorsuali, doveva essere determinata in tre anni e due mesi di reclusione per il piu’ grave delitto di bancarotta fraudolenta per distrazione e aumentata di due mesi per la concorrente bancarotta semplice documentale.
5. Per la cassazione di tale sentenza l’imputato ha presentato ricorso (atto sottoscritto dal difensore, avvocato (OMISSIS)) contenente quattro motivi di impugnazione.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. Con il primo motivo la sentenza e’ dal ricorrente censurata per avere, in violazione dei precetti rispettivamente recati dall’articolo 2639 cod. civ. e dalla L. Fall., articolo 223 e articolo 216, comma 1, n. 2), ritenuto esso (OMISSIS) amministratore di fatto della societa’ fallita per il periodo successivo al (OMISSIS) (giorno di cessazione dell’incarico di presidente del consiglio di amministrazione) fino al giorno di emissione della sentenza di fallimento, dal momento che le dichiarazioni rispettivamente rese dai due testimoni escussi non consentivano di affermare che esso ricorrente avesse svolto, in concreto e con apprezzabile continuita’, attivita’ gestorie della societa’ fallita (anche perche’ il testimone (OMISSIS) aveva affermato di non sapere chi fosse l’amministratore della societa’).
2. Con il secondo motivo si deduce che la sentenza avrebbe violato il precetto di cui all’articolo 530 cod. proc. pen. in mancanza di sicuri elementi di prova dai quali affermare, al di la’ di ogni ragionevole dubbio, la responsabilita’ di esso ricorrente nella commissione dei delitti contestati; anche in ragione del mancato approfondimento del ruolo svolto da (OMISSIS), reale amministratore di fatto della societa’ (OMISSIS).
3. I due motivi di impugnazione, da esaminare congiuntamente in ragione della loro stretta connessione, sono inammissibili.
Costituisce principio da tempo affermato dalla giurisprudenza civile di legittimita’ quello secondo cui le norme di legge che disciplinano l’attivita’ degli amministratori di una societa’ di capitali, dettate al fine di consentire un corretto svolgimento dell’amministrazione della persona giuridica, sono applicabili non soltanto alle persone fisiche immesse, nelle forme stabilite dalla legge, mediante atto negoziale di preposizione gestoria (di regola, atto costitutivo: articolo 2328 c.c., comma 1, n. 9), articolo 2383 c.c., comma 1, articolo 2475 c.c., comma 1, n. 7), articolo 2487 c.c.; deliberazione di assemblea: articolo 2364 c.c., comma 1, n. 2), articolo 2383 c.c., comma 1, articoli 2486 e 2487 c.c.; sostituzione per cooptazione: articoli 2386 e 2487 cod. civ.), nelle funzioni di amministrazione, ma anche a coloro che si siano, di fatto ingeriti nella gestione della societa’ in assenza di una qualsivoglia investitura da parte dell’assemblea, sia pur irregolare o implicita; con la conseguenza che i responsabili delle violazioni di dette norme di legge vanno individuati, anche nell’ambito del diritto privato (cosi’ come in quello del diritto penale ed amministrativo: Decreto Legislativo n. 385 del 1993, articoli 135 e 136; Decreto Legislativo n. 472 del 1997, articolo 11; Decreto Legislativo n. 58 del 1998, articoli 190 e 193) non sulla base della loro qualificazione formale, bensi’ con riguardo al contenuto delle funzioni concretamente esercitate (cfr., per tutte, Cass. civ. 6 marzo 1999, n. 1925; Cass. civ. 14 settembre 1999, n. 9795); con l’ulteriore, necessaria, precisazione che l’individuazione della figura del cosiddetto “amministratore di fatto” presuppone che la persona abbia in concreto svolto attivita’ di gestione (e non anche meramente esecutive) della societa’ e che tale attivita’ abbia carattere sistematico e non si esaurisca nel compimento di taluni atti di natura eterogenea ed occasionale (cfr., sul punto, Cass. civ. 14 settembre 1999, n. 9795).
La nozione di amministratore di fatto postula dunque, anche nell’ambito del diritto penale, l’esercizio in modo continuativo e significativo dei poteri tipici inerenti alla qualifica od alla funzione gestoria; ma cio’ non significa che in concreto siano necessariamente esercitati tutti i poteri propri dell’organo di gestione della societa’, essendo invece sufficiente l’esercizio di un’apprezzabile attivita’ gestoria, svolta in modo non episodico o occasionale. Da cio’ consegue che la prova della posizione di amministratore di fatto si traduce nell’accertamento di elementi sintomatici dell’inserimento organico del soggetto con funzioni direttive – in qualsiasi fase della sequenza organizzativa, produttiva o commerciale dell’attivita’ della societa’, quali sono i rapporti con i dipendenti, i fornitori o i clienti ovvero in qualunque settore gestionale di detta attivita’, sia esso aziendale, produttivo, amministrativo, contrattuale o disciplinare – il quale costituisce oggetto di una valutazione di fatto insindacabile in sede di legittimita’, ove sostenuta da congrua e logica motivazione (in questo senso, cfr. Cass. Sez. 5, n. 35346 del 20 giugno 2013, Tarantino, Rv. 256534; Cass. Sez. 5, n. 8479 del 28 novembre 2016, dep. 2017, Faruolo, Rv. 269101).
Il valore probatorio del contenuto, dalla sentenza impugnata unitariamente considerato, delle dichiarazioni rispettivamente rese dai due testimoni escussi nel processo (pagg. 12 e 13 della sentenza), e’ stato considerato, in ragione della pregnanza di quanto dai testimoni medesimi (da tempo in relazione con l’imputato) affermato, di consistenza tale da affermare che “nella quotidiana prassi operativa della societa’ la gestione degli affari, la scelta della clientela, la fissazione dei prezzi di vendita fossero demandati ed esercitati in via esclusiva a (OMISSIS)”.
A fronte di tale congrua e logica motivazione, il ricorrente mira in realta’ a far rivalutare in questa sede il contenuto delle dichiarazioni medesime in funzione della relativa sufficienza e conducenza quanto all’accertamento dello svolgimento continuativo di funzioni gestorie di fatto della societa’ fallita da parte del ricorrente medesimo: e cio’ non e’ consentito nel giudizio di legittimita’.
4. In subordine, il ricorrente deduce (terzo motivo) che la sentenza e’ caratterizzata da motivazione contraddittoria ed illogica nella parte in cui nego’ la concessione di circostanze attenuanti generiche, dal momento che: le uniche condanne riportate da esso (OMISSIS) risalivano agli anni settanta del secolo scorso; ad esso ricorrente non poteva addebitarsi la mancata collaborazione con il curatore, anche perche’ costui nulla aveva mai chiesto.
5. Il motivo e’ inammissibile, avendo la sentenza impugnata motivato, in maniera congrua e non contraddittoria, che il diniego delle circostanze attenuanti generiche era impedito: dal quanto mai rilevante pregiudizio derivato ai creditori della societa’ fallita (passivo pari a complessivi Euro 3.200.000; attivo pari a Euro 50.000 recuperati a seguito di azione di responsabilita’ promossa contro i sindaci della societa’ fallita); dal fatto che (OMISSIS) non aveva messo a disposizione del curatore la contabilita’ aziendale, ne’ aveva dato a questi adeguate indicazioni quanto alla destinazione dei beni aziendali non rinvenuti.
Invero, in tema di applicazione dell’articolo 62-bis cod. pen., il giudice del merito esprime un giudizio di fatto, la cui motivazione e’ insindacabile in sede di legittimita’, purche’ sia non contraddittoria e dia conto, anche richiamandoli, degli elementi, tra quelli indicati nell’articolo 133 cod. pen., considerati preponderanti ai fini della concessione o dell’esclusione delle circostanze in parola (in questo senso, cfr., per tutte, Cass. Sez. 2, n. 3609 del 18 gennaio 2011, Sermone, Rv. 259163; Cass. Sez. 1, n. 33506 del 7 luglio 2010, Biancofiore, Rv. 247959).
6. Infine, il ricorrente lamenta (quarto motivo) contraddittorieta’ ed illogicita’ della motivazione quanto al mancato contenimento della pena entro i minimi edittali, dal momento che il trattamento sanzionatorio era stato concretamente determinato in considerazione della sola gravita’ dei fatti e del pregiudizio subito dai creditori concorsuali della societa’ fallita; senza dunque alcuna considerazione dei criteri soggettivi sanciti dall’articolo 133 cod. pen..
7. Anche tale motivo e’ inammissibile, in quanto: la pena di base per il piu’ grave delitto di bancarotta fraudolenta per distrazione e’ stata determinata in misura pari a tre anni e due mesi di reclusione (una misura, dunque, lievemente superiore a quella minima prevista dalla legge) in ragione del consistente pregiudizio patrimoniale dal delitto arrecato ai creditori sociali; la graduazione della pena, anche in relazione agli aumenti ed alle diminuzioni previsti per le circostanze aggravanti ed attenuanti, rientra nella discrezionalita’ del giudice di merito, il quale, per assolvere al relativo obbligo di motivazione, e’ sufficiente che dia conto dell’impiego dei criteri di cui all’articolo 133 cod. pen. (con espressioni del tipo: “pena congrua”, “pena equa” o “congruo aumento”), come pure con li richiamo alla gravita’ del reato o alla capacita’ a delinquere, essendo, invece, necessaria una specifica e dettagliata spiegazione del ragionamento seguito soltanto quando la pena sia in maniera significativa superiore alla misura media di quella edittale (giurisprudenza costante; cfr. comunque, per tutte, Cass. Sez 5, n. 5582 del 30 settembre 2013, dep. 2014, Ferrario, Rv. 259142; Cass. Sez. 2, n. 28852 del 8 maggio 2013, Taurasi, Rv. 256464; Cass. Sez. 2, n. 36245 del 26 giugno 2009, Denaro, Rv. 245596); la motivazione fondante la determinazione della pena di’ base e’ dunque affatto sufficiente.
8. Dall’inammissibilita’ del ricorso derivano la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali e, non ricorrendo ipotesi di esonero, al versamento di una somma di danaro alla Cassa delle ammende che stimasi equo determinare nella misura di millecinquecento Euro (articolo 616 cod. proc. pen.).
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e al versamento della somma di millecinquecento Euro alla Cassa delle ammende.
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