Corte di Cassazione, sezione lavoro civile, Sentenza 11 luglio 2019, n. 18705

Massima estrapolata:

La disciplina della invalidità del licenziamento è caratterizzata da specialità rispetto a quella generale delle invalidità contrattuali, desumibile dalla previsione di un termine di decadenza, dopo la necessaria impugnazione stragiudiziale, per il promovimento dell’azione giudiziale. Ne consegue che la parte, dopo avere proposto il ricorso giudiziale, non può sollevare in giudizio nuove ragioni di invalidità del recesso datoriale, che non siano giustificate da fatti sopravvenuti o che si provi non fossero conoscibili, né il giudice può rilevare di ufficio ragioni di invalidità del licenziamento diverse da quelle eccepita dalla parte.

Sentenza 11 luglio 2019, n. 18705

Data udienza 22 maggio 2019

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. NAPOLETANO Giuseppe – Presidente

Dott. TORRICE Amelia – Consigliere

Dott. DI PAOLANTONIO Annalisa – Consigliere

Dott. MAROTTA Caterina – Consigliere

Dott. BELLE’ Roberto – rel. Consigliere

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA
sul ricorso 14574/2018 proposto da:
(OMISSIS), elettivamente domiciliato in (OMISSIS), presso lo studio degli avvocati (OMISSIS), (OMISSIS), che lo rappresentano e difendono;
– ricorrente –
contro
COMUNE DI FOGGIA, in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliato in (OMISSIS), presso lo studio dell’avvocato (OMISSIS), rappresentato e difeso dagli avvocati (OMISSIS), (OMISSIS);
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 507/2018 della CORTE D’APPELLO di BARI, depositata il 01/03/2018 R.G.N. 2262/2017;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 22/05/2019 dal Consigliere Dott. ROBERTO BELLE’;
udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. CIMMINO Alessandro, che ha concluso per il rigetto del ricorso;
uditi gli Avvocati (OMISSIS) e (OMISSIS);
udito l’Avvocato (OMISSIS).

FATTI DI CAUSA

1. La Corte d’Appello di Bari ha rigettato il gravame interposto da (OMISSIS) avverso la sentenza del Tribunale della stessa citta’ che, giudicando nelle forme del c.d. rito Fornero, aveva respinto l’impugnativa del licenziamento disciplinare intimato al ricorrente dal Comune di Foggia, di cui era dirigente.
La sanzione era stata fondata sul fatto di avere lo (OMISSIS) attestato falsamente le presenza in ufficio della di lui moglie, anch’essa dipendente comunale, inducendo in errore il datore di lavoro attraverso un’utilizzazione impropria del badge e cosi’ cagionando anche un danno all’ente pubblico, in misura pari alla retribuzione corrisposta alla donna senza ricezione della controprestazione.
2. La Corte territoriale, per quanto qui ancora interessa, riteneva tardiva la deduzione di illegittimita’ della sanzione per violazione delle regole di composizione e funzionamento dell’Ufficio Procedimento Disciplinari (U.P.D.), in quanto sollevata solo nel corso del processo gia’ introdotto con l’opposizione, da parte del lavoratore, avverso l’ordinanza resa nella prima fase del rito speciale.
Per completezza di motivazione la Corte disattendeva anche nel merito la questione, osservando come la normativa nulla disponesse rispetto alla composizione collegiale dell’U.P.D. e comunque rilevando che la contestazione era stata sottoscritta dal Dott. (OMISSIS) nella qualita’ di Presidente dell’U.P.D., sicche’ non si poteva sostenere che essa non fosse ascrivibile ad una manifestazione di volonta’ dell’Ufficio stesso.
3. Avverso la sentenza lo (OMISSIS) ha proposto tre motivi di ricorso per cassazione, poi illustrati da memoria e resistiti dal Comune di Foggia.

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Il ricorrente denuncia (primo motivo) la violazione o falsa applicazione (articolo 360 c.p.c., n. 3), della L. n. 604 del 1966, articolo 5, per avere la Corte territoriale dichiarato inammissibili i motivi di illegittimita’ del licenziamento dedotti nel corso del processo di merito di primo grado, ma dopo la sua introduzione e riguardanti (profilo poi riproposto con il secondo motivo di ricorso per cassazione) il fatto che la contestazione dell’addebito fosse stata effettuata dal solo Presidente dell’U.P.D. e non dall’organo collegiale, in violazione del Decreto Legislativo n. 165 del 2001, articolo 55 bis, comma 1 e 4, nonche’ il fatto che, essendo egli dirigente, la sanzione avrebbe dovuto essere irrogata dal dirigente generale o titolare di incarico conferito ai sensi dell’articolo 19, comma 3, e non dall’U.P.D., il tutto anche sub specie (terzo motivo del ricorso per cassazione) dell’erronea interpretazione (articolo 1362 c.c.) del Regolamento disciplinare del personale del comparto Regioni e Autonomie Locali, ove non inteso nel senso che il collegio disciplinare fosse da considerare “perfetto” e dovesse conseguentemente operare in tale forma, senza contare (ancora terzo motivo) che anche un collegio imperfetto non avrebbe potuto ridursi ad operare attraverso uno solo dei suoi membri, di fatto venendosi ad equiparare ad un organo monocratico.
2. In fatto e’ accaduto che il ricorrente avesse impugnato il licenziamento disciplinare nelle forme del c.d. rito Fornero.
Respinto il ricorso con ordinanza sommaria, lo (OMISSIS) aveva proposto opposizione.
Solo a verbale di udienza del giudizio di opposizione erano state avanzate le ragioni di illegittimita’ sopra evidenziate e riproposte poi, in esito al rigetto di tale opposizione, anche con il reclamo proposto avverso di essa e, quindi, con il secondo e terzo motivo del ricorso per cassazione.
Il ricorrente sostiene che, trattandosi di nullita’ c.d. di protezione, i vizi del licenziamento sarebbero sempre rilevabili d’ufficio e quindi non vi sarebbe mai tardivita’, senza contare che il difetto di legittimazione rispetto all’irrogazione della sanzione comporterebbe l’inesistenza giuridica dello stesso e non una mera causa di invalidita’.
3. Il primo motivo e’ infondato.
Va infatti data continuita’ all’orientamento gia’ espresso da questa Corte (Cass. 24 marzo 2017, n. 7687, poi seguita da Cass. 11 dicembre 2018, n. 31987 e Cass. 5 aprile 2019, n. 9675), secondo cui l’impugnativa di licenziamento resta delimitata dalle ragioni di nullita’ dell’atto quali introdotte nel proporre il giudizio, cui non e’ consentito alla parte aggiungere ulteriori ragioni di invalidita’ nel corso del processo, se non per fatti che fossero sopravvenuti o che si provi non fossero conoscibili, ne’ al giudice di procedere a rilievo officioso di ragioni di nullita’ del licenziamento diverse da quella eccepite.
L’orientamento e’ stato argomentato da Cass. 7687/2017 rinnovando, sulla base di piu’ complesse considerazioni sollecitate dall’evolversi dell’ordinamento, un tradizionale indirizzo di questa Corte, che va anch’esso qui confermato.
3.1 La questione non attiene tanto all’individuazione del solo atto quale oggetto del processo, dovendosi ritenere che l’effetto del giudicato necessariamente si estenda, all’esito del giudizio, anche all’esistenza o inesistenza del rapporto, cosi’ come che eventuali vicende relative al rapporto (ad es. fatti estintivi successivi rispetto ad un licenziamento in ipotesi riconosciuto come illegittimo) rientrino certamente nell’ambito del processo, pur non riguardando direttamente il contenuto dell’atto.
3.2 Il tema e’ invece quello della disciplina concreta di tale impugnativa dell’atto.
Come osservato dalla citata Cass. 7687/2017, l’azione di invalidita’ finalizzata alla declaratoria di invalidita’ del licenziamento e’ costruita, dal diritto vigente, come tale da doversi attuare in un dato termine e dalla “molteplicita’ dei profili di nullita’, annullabilita’ e inefficacia che possono incidere sulla validita’ in senso lato del recesso e che implicano la deduzione e la allegazione di circostanze di fatto che, per le peculiarita’ proprie del rito, devono entrare a far parte del thema decidendum e del thema probandum sin dal primo atto introduttivo”.
Tale conclusione, si e’ rilevato in dottrina, si radica nella scelta, da parte del legislatore, di una ben precisa tecnica processuale c.d. impugnatoria, diffusa in ambito di atti unilaterali (licenziamento; sanzioni amministrative ai sensi della L. n. 689 del 1981; impugnative tributarie; impugnative atti amministrativi) e caratterizzata dal fatto che l’azione giudiziale e’ da attuare in un dato termine, pena l’irreversibile consolidarsi degli effetti dell’atto rispetto al rapporto sostanziale su cui esso insiste.
Tale tecnica, rispetto al caso del licenziamento, si e’ affinata in una delle sue forme piu’ evolute, in quanto l’atto che manifesta il diritto potestativo di recesso e’ ormai costantemente destinatario ex ante, di regole procedurali, quanto meno sotto il profilo della motivazione (sempre necessaria, L. n. 604 del 1966, articolo 2, comma 2, come modificato dalla L. n. 92 del 2012) ma anche, talora, procedimentali (licenziamento disciplinare; licenziamento per g.m.o. nei casi di cui alla L. n. 604 del 1966, articolo 7, come modificato dalla L. n. 92 del 2012).
Tali regole sono destinate a definire un quadro giuridico di esercizio del potere che delinea il perimetro, dal lato datoriale, dei fatti rilevanti e consente al destinatario la reazione giudiziale nei termini stabiliti dalla legge: tanto e’ vero che l’azione ancor oggi non e’ in senso stretto impugnatoria ed e’ dunque svincolata dai termini decadenziali, allorquando manchi la forma minima e ricorra il licenziamento orale (Cass. 11 gennaio 2019, n. 523; Cass. 12 ottobre 2018, n. 25561).
In tale contesto, l’impostazione legale non consente a priori, come rilevato sempre da Cass. 7687/2017, di fare riferimento al concetto di diritti c.d. autodeterminati in quanto, a fronte di azioni impugnatorie, e’ solo la legge, qualora intenda derogare all’assetto processuale di delimitazione delle cognizione sull’atto quale sopra delineato, a stabilirlo espressamente (come accade, ad es., rispetto alle nullita’ degli atti amministrativi, regolate come perpetua ad excipiendum e munita di un regime di rilievo officioso: Decreto Legislativo n. 104 del 2010, articolo 31, comma 4; v. invece, per il divieto di rilevazione d’ufficio di vizi non dedotti dal ricorrente, v. in tema di sanzioni amministrative Cass. 31 ottobre 2018, n. 27909; Cass. 10 agosto 2007, n. 17625; Cass. 16 aprile 2003, n. 6013; in tema di impugnative tributarie: Cass. 12 luglio 2018, n. 18425; Cass. 6 aprile 2017, n. 9020).
Il che esclude altresi’ la possibilita’ di estendere alla materia i principi affermati da Cass., S.U., 12 dicembre 2014, n. 26242, rispetto alle impugnative negoziali ed alle c.d. nullita’ di protezione, “posto che la applicabilita’ agli atti unilaterali della normativa che regola la materia contrattuale in tanto e’ possibile ex articolo 1324 c.c., in quanto la disciplina, che a tal fine non puo’ essere disgiunta dalla sua interpretazione, sia compatibile con la natura dell’atto che viene in rilievo e non sia derogata da diverse disposizioni di legge” (cosi’, ancora Cass. 7687/2017), come invece e’ nel caso del licenziamento e sulla base del diverso sistema processuale per esso delineato dal legislatore e sopra sinteticamente descritto.
La disciplina processuale concentra dunque la cognizione giudiziale, con riferimento al licenziamento in se’ considerato, agli aspetti reciprocamente incardinati dal procedimento-atto di recesso (dal lato datoriale) e dalla sua impugnativa (dal lato del lavoratore).
3.3 L’utilizzazione per legge della predetta tecnica processuale, allorquando operi in ambito di atti unilaterali, svincola dunque il regime giuridico dalla disciplina delle nullita’ di protezione.
Tale impostazione non va d’altra parte disgiunta dai profili di diritto sostanziale che parimenti la ispirano.
Infatti, il riconoscimento di situazioni potestative (potere datoriale di far cessare il rapporto di lavoro; poteri amministrativi; facolta’ della P.A. di formare titoli esecutivi per i propri crediti sanzionatori o tributari) e’ conseguenza del fatto che l’ordinamento reputa volta a volta adeguato che la disciplina degli interessi sottesi a determinate vicende sia esercitata attraverso atti unilaterali.
La tecnica impugnatoria sopra esaminata, nella propria concreta disciplina delle singole ipotesi, manifesta il risvolto e la misura della specialita’ della tutela processuale assicurata a tali assetti sostanziali, il che, vedendo la questione per quanto attiene al licenziamento, si realizza delimitando la cognizione giudiziale attraverso una disciplina di rigorosa attuazione del principio di preclusione, gia’ in se’ proprio del rito del lavoro, anche sotto il profilo della delimitazione ab origine, sulla scorta dell’impugnativa di parte, dei vizi dell’atto suscettibili di trattazione.
4. Va quindi ribadito e generalizzato quanto affermato dalla citata giurisprudenza, affermandosi il principio per cui “la disciplina della invalidita’ del licenziamento e’ caratterizzata da specialita’ rispetto a quella generale delle invalidita’ contrattuali, desumibile dalla previsione di un termine di decadenza, dopo la necessaria impugnazione stragiudiziale, per il promovimento dell’azione giudiziale. Ne consegue che la parte, dopo avere proposto il ricorso giudiziale, non puo’ sollevare in giudizio nuove ragioni di invalidita’ del recesso datoriale, che non siano giustificate da fatti sopravvenuti o che si provi non fossero conoscibili, ne’ il giudice puo’ rilevare di ufficio ragioni di invalidita’ del licenziamento diverse da quelle eccepita dalla parte”.
5. Rispetto al caso di specie, le ragioni di asserita illegittimita’ sollevate solo nel corso del giudizio, risultando palesemente circostanze note, sono state dunque ritenute giustamente tardive dalla Corte territoriale.
5.1 Ne’ ha pregio l’affermazione di cui alle difese del ricorrente secondo la quale la violazione delle regole di competenza per la contestazione dell’infrazione si riporterebbe ad un’ipotesi di “inesistenza” dell’atto finale poi impugnato.
5.2 Tale distinzione non e’ infatti contenuta nella legge.
D’altra parte, trattandosi di profili riguardanti la legittimazione all’esercizio di competenze comunque spettanti ad organi o uffici della P.A. convenuta, non vi e’ luogo ad ipotizzare profili di insussistenza, per difetto assoluto di attribuzione, dei corrispondenti atti (per il principio, pur se in un diverso settore in cui opera il modello delle azioni impugnatorie in senso stretto: Cass. 5 novembre 2018, n. 28108).
6. Da quanto sopra deriva l’assorbimento del secondo e del terzo motivo, che riguardano il merito delle censure di illegittimita’ del licenziamento da ritenere inammissibili per le ragioni teste’ evidenziate.
7. Alla reiezione del ricorso segue la regolazione secondo soccombenza delle spese del giudizio di legittimita’.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento in favore della controparte delle spese del giudizio di legittimita’, che liquida in Euro 4.500,00 per compensi ed Euro 200,00 per esborsi, oltre spese generali in misura del 15 % ed accessori di legge.
Ai sensi del Decreto del Presidente della Repubblica n. 115 del 2002, articolo 13, comma 1 quater, da’ atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso articolo 13, comma 1 bis.

 

In caso di diffusione omettere le generalità e gli altri dati identificativi dei soggetti interessati nei termini indicati.

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