Corte di Cassazione, sezione prima civile, Ordinanza 12 luglio 2019, n. 18779

Massima estrapolata:

La dichiarazione di fallimento dell’imprenditore non costituisce giusta causa di risoluzione del contratto di lavoro, in quanto l’azienda, nella sua universalità, sopravvive e l’impresa non cessa, passando soltanto da una gestione per fini di produzione, suscettibile peraltro di essere continuata o ripresa, ad una gestione per fini di liquidazione, sicché, nel caso in cui la prestazione lavorativa sia proseguita dopo la dichiarazione di fallimento e, di fatto, anche oltre il periodo di esercizio provvisorio dell’impresa autorizzato dal tribunale, i crediti maturati dal lavoratore devono essere ammessi al passivo in prededuzione.

Ordinanza 12 luglio 2019, n. 18779

Data udienza 6 giugno 2019

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. DIDONE Antonio – Presidente

Dott. DI MARZIO Mauro – Consigliere

Dott. LAMORGESE Antonio Pietro – Consigliere

Dott. NAZZICONE Loredana – rel. Consigliere

Dott. CAMPESE Eduardo – Consigliere

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA
sul ricorso 22362/2014 proposto da:
Curatela del Fallimento della (OMISSIS) S.p.a., in persona del Curatore avv. (OMISSIS), domiciliata in Roma, Piazza Cavour, presso la Cancelleria Civile della Corte di Cassazione, rappresentata e difesa dall’avvocato (OMISSIS), giusta procura a margine del ricorso;
– ricorrente –
contro
(OMISSIS), domiciliato in Roma, Piazza Cavour, presso la Cancelleria Civile della Corte di Cassazione, rappresentato e difeso dall’avvocato (OMISSIS), giusta procura a margine del controricorso;
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 1031/2014 della CORTE D’APPELLO di PALERMO, depositata il 20/06/2014;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 06/06/2019 dal cons. Dott. NAZZICONE LOREDANA.

FATTI DI CAUSA

La Corte d’appello di Palermo con sentenza del 20 giugno 2014, in riforma della decisione del Tribunale della stessa citta’, ha ammesso allo stato passivo del Fallimento (OMISSIS) s.p.a. il credito dell’opponente, derivante da rapporto di lavoro, oltre interessi e rivalutazione, in prededuzione.
Ha ritenuto la corte territoriale, per quanto ancora rileva, che: a) in punto di fatto, l’istante presto’ la propria attivita’ di lavoro, in qualita’ di operaio, dal 6 maggio 1998 al 30 settembre 1998, in occasione del periodo di esercizio provvisorio dell’impresa autorizzato dal tribunale, e, poi, sino al 9 giugno 2003, in via di fatto, quando la curatela comunico’ la cessazione del rapporto di lavoro con lettera di licenziamento; b) la prestazione lavorativa si e’ protratta, avendo la procedura mantenuto in vita il rapporto lavorativo sino al licenziamento, nulla rilevando che sia mancata l’autorizzazione all’esercizio provvisorio ed altro essendo eventuali profili di responsabilita’ del curatore, onde il rapporto fa capo al fallimento, rientrando nell’ambito della L. Fall., articolo 111, n. 1,; c) il credito non e’ prescritto, non avendo la curatela provato la stabilita’ reale del rapporto di lavoro, onde il termine e’ iniziato a decorrere solo il 9 giugno 2003; d) il rapporto lavorativo e’ dimostrato dalla prova testimoniale assunta e dai documenti in atti, laddove il quantum dovuto e’ stato determinato sulla base della condivisibile c.t.u. espletata; e) l’ultimo motivo di appello, vertente sulla novita’ della domanda di arricchimento senza causa proposta con la memoria ex articolo 183 c.p.c., e’ assorbito.
Avverso tale decisione propone ricorso la procedura, affidato a due motivi. Si difende con controricorso l’intimato.
La ricorrente ha depositato la memoria.

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. – Il fallimento propone due motivi di ricorso, come di seguito riassunti:
1) nullita’ della sentenza per ultrapetizione, in violazione dell’articolo 112 c.p.c., in quanto l’istante aveva chiesto l’ammissione del credito in prededuzione con riguardo alla prestazione resa nel corso dell’esercizio provvisorio dell’impresa, quale ipotesi tipica contemplata dalla L. Fall., articolo 111, comma 1, mentre la domanda subordinata di arricchimento senza causa, dichiarata inammissibile per tardivita’ dal tribunale, non fu riproposta in appello: dunque, pur avendo preso atto della cessazione dell’esercizio provvisorio il 30 settembre 1998, la corte del merito ha nondimeno accolto la domanda al di la’ di quanto richiesto; onde il generico richiamo alla L. Fall., articolo 111, comma 1, n. 1, contenuto nell’impugnata decisione, non puo’ giustificare l’ammissione in prededuzione con una diversa causa petendi, individuata nell’utilita’ della massa, a fronte di una richiesta attinente l’esercizio provvisorio dell’attivita’ che ha invece caratterizzato il procedimento;
2) violazione e falsa applicazione della L. Fall., articolo 111 (nel testo precedente alle modifiche apportate dal Decreto Legislativo n. 5 del 2006), avendo la sentenza impugnata omesso di considerare che i debiti contratti per l’amministrazione del fallimento necessitano di un preventivo provvedimento autorizzativo del giudice delegato; infatti, la dedotta “dipendenza causale con la procedura concorsuale” avrebbe presupposto una valutazione sull’utilita’ dei costi gestionali da sopportare e, quindi, l’autorizzazione del giudice delegato.
2. – Il primo motivo e’ inammissibile.
Esso, denunziando vizio processuale, non e’ adeguatamente specifico, onde viola il disposto dell’articolo 366 c.p.c., noto essendo che (e multis, Cass. 13 marzo 2018, n. 6014; Cass. 20 luglio 2012, n. 12664) “(a)nche laddove vengano denunciati con il ricorso per cassazione errores in procedendo, in relazione ai quali la corte e’ anche giudice del fatto, potendo accedere direttamente all’esame degli atti processuali del fascicolo di merito, si prospetta preliminare ad ogni altra questione quella concernente l’ammissibilita’ del motivo in relazione ai termini in cui e’ stato esposto, con la conseguenza che, solo quando sia stata accertata la sussistenza di tale ammissibilita’ diventa possibile valutare la fondatezza del motivo medesimo e, dunque, esclusivamente nell’ambito di quest’ultima valutazione, la corte di cassazione puo’ e deve procedere direttamente all’esame ed all’interpretazione degli atti processuali”.
Ne’ viene proposta censura con riguardo alla eventuale violazione dei criteri previsti dagli articoli 1362 c.c. e ss..
Invero, costituisce principio costantemente affermato che l’interpretazione della domanda spetta al giudice del merito, in quanto la sua statuizione attiene al momento logico relativo all’accertamento in concreto della volonta’ della parte: ne’ si verte, pertanto, in tema di violazione dell’articolo 112 c.p.c. o si pone un problema di natura processuale – per la soluzione del quale la suprema corte ha il potere-dovere di procedere all’esame diretto degli atti onde acquisire gli elementi di giudizio necessari ai fini della pronuncia richiesta – al contrario potendosi censurare in sede di legittimita’ detta individuazione del contenuto della domanda, quale tipico accertamento di fatto riservato al giudice del merito, solo mediante il controllo della completezza dell’esame dei fatti decisivi oppure del rispetto delle regole legali di interpretazione degli atti dei privati (cfr. Cass. 13 agosto 2018, n. 20718; Cass. 21 dicembre 2017, n. 30684; v. pure Cass. 16 novembre 2018, n. 29609).
Nella interpretazione della domanda giudiziale, infatti, il giudice deve avvalersi degli stessi criteri ermeneutici dettati dagli articoli 1362 c.c. e ss. per i contratti ed i negozi giuridici in genere (Cass. 12 agosto 2005, n. 16888).
Ed anche con riguardo al rito del lavoro, le cui peculiarita’ il ricorrente ha inteso richiamare, e’ stato affermato che “l’esame del ricorso deve riguardare, ai fini dell’interpretazione della domanda, la valutazione complessiva dell’atto; ove, tuttavia, difetti una chiara omogeneita’ delle allegazioni esposte nel contenuto complessivo del ricorso stesso rispetto alla domanda formulata nelle conclusioni, espressamente e senza condizioni circoscritte, il giudice non puo’ d’ufficio, in contrasto con l’articolo 112 c.p.c., pronunciarsi in difformita’” (Cass. 14 maggio 2018, n. 11631; Cass. 10 settembre 2013, n. 20727).
In definitiva, l’invocato sindacato di legittimita’ non puo’ investire il risultato interpretativo in se’, che appartiene all’ambito dei giudizi di fatto riservati a quel giudice, ma deve appuntarsi esclusivamente sul mancato rispetto dei canoni normativi di interpretazione dettati dal legislatore agli articoli 1362 c.c. e ss..
3. – Il secondo motivo e’ infondato.
Questa Corte ha per vero stabilito che “in caso di fallimento del datore di lavoro, salvo che sia autorizzato l’esercizio provvisorio, il rapporto di lavoro entra in una fase di sospensione, sicche’ il lavoratore non ha diritto di insinuarsi al passivo per le retribuzioni spettanti nel periodo compreso tra l’apertura del fallimento e la data in cui il curatore abbia effettuato la dichiarazione L. Fall., ex articolo 72, comma 2, in quanto il diritto alla retribuzione non sorge in ragione dell’esistenza e del protrarsi del rapporto di lavoro ma presuppone, in conseguenza della natura sinallagmatica del contratto, la corrispettivita’ delle prestazioni” (Cass. 30 maggio 2018, n. 13693; Cass. 11 gennaio 2018, n. 522).
Ma tali pronunce presuppongono, appunto, la mancanza di ogni prestazione lavorativa.
Al contrario, in caso di prosecuzione dell’attivita’ lavorativa, questa Corte ha affermato (Cass. 23 giugno 2001, n. 8617; nello stesso senso, Cass. 6 maggio 2009, n. 10400) che “il sistema normativo e’ chiaramente nel senso che i rapporti di lavoro continuano con l’azienda in quanto tale” e che “anche quando l’amministrazione della procedura concorsuale non opti per l’esercizio provvisorio dell’impresa, puo’ ben permanere il bene giuridico azienda, inteso come il complesso di elementi materiali e giuridici organizzati al fine dell’esercizio di un’impresa, poiche’ la mera cessazione dell’attivita’ per un periodo piu’ o meno lungo, non implica di per se’ il venire meno dell’organizzazione aziendale”.
Ed e’ stato altresi’ ritenuto, nel sistema anteriore alle riforme della legge fallimentare, spettare l’indennita’ sostitutiva del preavviso al lavoratore, il cui rapporto di lavoro sia continuato con l’amministrazione fallimentare per le esigenze del fallimento dopo la dichiarazione di questo, da soddisfare in prededuzione: cio’, in quanto “a norma dell’articolo 2119 c.c., comma 2, (…) il fallimento dell’imprenditore non costituisce giusta causa di risoluzione del contratto di lavoro e la ratio di tale disposto si fonda sulla considerazione della unitarieta’ della azienda e della sua sopravvivenza alla dichiarazione di fallimento, alla quale non consegue la cessazione dell’impresa “che passa soltanto da una gestione per fini di produzione, suscettibile per altro di essere continuata o ripresa (come non infrequentemente accade), ad una gestione per fini di liquidazione” (Cass. n. 3493 del 1979)” (Cass. 7 febbraio 2003, n. 1832).
Nel caso di specie, in punto di fatto, come accertato dal giudice del merito, l’azienda non e’ venuta mai meno e, del pari, la prestazione lavorativa e’ stata pacificamente e continuativamente svolta, dapprima nell’esercizio provvisorio autorizzato dell’impresa, e, poi, per la prosecuzione in fatto del medesimo.
All’epoca dei fatti, la L. Fall., articolo 90 prevedeva che il tribunale potesse disporre la continuazione temporanea dell’esercizio dell’impresa (c.d. esercizio provvisorio) “quando dall’interruzione improvvisa puo’ derivare un danno grave ed irreparabile”, fattispecie progressivamente intesa con riguardo non solo all’interesse dei creditori, ma anche a quello all’occupazione in capo agli stessi lavoratori dell’azienda, secondo una prospettiva piu’ attenta agli interessi generali sottesi all’impresa che opera sul mercato, nel convincimento che la preservazione del valore del patrimonio si consegua attraverso la conservazione del complesso produttivo al fine della sua proficua liquidazione.
La natura sinallagmatica del contratto di lavoro fa sorgere dunque l’obbligo del pagamento delle retribuzioni nell’ipotesi di utilizzazione della controprestazione da parte del curatore.
Ne consegue l’infondatezza del motivo.
4. – Le spese seguono la soccombenza.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese di lite, liquidate nella somma di Euro 4.200,00, di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre alle spese forfetarie nella misura del 15% sui compensi ed agli accessori di legge.
Da’ inoltre atto, ai sensi del Decreto del Presidente della Repubblica 30 maggio 2002, n. 115, articolo 13, comma 1 quater, della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso a norma dello stesso articolo 13, comma 1-bis.

 

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