Corte di Cassazione, penale, Sentenza|3 febbraio 2021| n. 4106.
In tema di riparazione per l’ingiusta detenzione, l’assenza della condizione ostativa dell’avere l’interessato dato causa, per dolo o per colpa grave, all’instaurazione o al mantenimento della custodia cautelare costituendo condizione necessaria al sorgere del diritto all’equa riparazione, deve essere accertata d’ufficio dal giudice, indipendentemente dalle deduzioni della Amministrazione resistente.
Sentenza|3 febbraio 2021| n. 4106
Data udienza 13 gennaio 2021
Integrale
Tag – parola chiave: Ingiusta detenzione – Giudizio penale e giudizio sulla richiesta di indennizzo – Autonomia – Valutazione sull’assenza o meno di dolo e colpa grave da parte dell’imputato – Effettuazione d’ufficio dal giudice senza necessità di specifiche deduzioni di parte
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE QUARTA PENALE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. CIAMPI Francesco Mari – Presidente
Dott. BELLINI Ugo – Consigliere
Dott. PEZZELLA Vincenzo – rel. Consigliere
Dott. RANALDI Alessandro – Consigliere
Dott. BRUNO Mariarosaria – Consigliere
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
MINISTERO DELL’ECONOMIA E FINANZE;
nel procedimento a carico di:
(OMISSIS), nato a (OMISSIS);
avverso l’ordinanza del 22/06/2020 della CORTE APPELLO di PERUGIA;
udita la relazione svolta dal Consigliere VINCENZO PEZZELLA;
lette le conclusioni del PG e la memoria difensiva.
RITENUTO IN FATTO
1. La Corte di Appello di Perugia, con ordinanza del 22/6/2020 (dep. il 27/7/2020) accoglieva, per quanto di ragione, la richiesta di riparazione per ingiusta detenzione avanzata in data 14/11/2019 ex articolo 314 c.p.p., da (OMISSIS), dichiarando che lo stesso aveva diritto alla corresponsione di 124.328 Euro, con condanna del Ministero dell’Economia resistente al pagamento delle spese del giudizio.
Il (OMISSIS) nel 2009 era stato accusato di tre episodi di violenza sessuale nei confronti della cugina e gli era stata applicata dal GIP del Tribunale di Avezzano la misura cautelare della custodia in carcere dal 6/5/2009 al 10/6/2010 nell’ambito del procedimento n. 312/2009 RGNR. A seguito del giudizio era stato condannato per uno solo degli episodi dal Tribunale di Avezzano con sentenza n. 85/2011 del 6.06.2011 ed assolto dalle altre accuse, con conferma di tale condanna e rideterminazione della pena in sede di appello da parte della Corte di Appello di L’Aquila con sentenza n. 2469/2013 del 2/10/2013.
A seguito del proposto ricorso per Cassazione, questa Corte di legittimita’, con la sentenza n. 19495/2016 annullava con rinvio la sentenza e la Corte di Appello di Perugia, con sentenza n. 966/2017, assolveva definitivamente il (OMISSIS) dal residuo reato per cui era stato condannato con la formula perche’ il fatto non sussiste, sentenza divenuta irrevocabile il 27.11.2017.
Il (OMISSIS), quindi, con istanza depositata il 14.11.2019, chiedeva alla Corte di Appello di Perugia, ex articoli 314 e 315 c.p.p., il riconoscimento dell’indennita’ per ingiusta detenzione subita per 400 giorni dal 6/5/2009 al 10/6/2010; allegava a supporto della domanda una corposa documentazione riguardante il procedimento penale presupposto. E, con la ricordata ordinanza 66/2020 oggi impugnata la Corte di Appello di Perugia accoglieva il ricorso e condannava il Ministero dell’Economia e delle Finanze a pagare al (OMISSIS) la somma di Euro 124.328,00 e le spese di lite.
La Corte umbra accoglieva integralmente le richieste dell’istante sul rilievo dell’assenza di profili colposi ne’ tantomeno dolosi nella sua condotta ne’ in merito all’applicazione della misura cautelare detentiva ne’ riguardo al successivo mantenimento della medesima.
2. Avverso tale provvedimento ha proposto ricorso per Cassazione, a mezzo dell’Avvocatura Distrettuale dello Stato, il Ministero dell’Economia e delle Finanze, deducendo i motivi di seguito enunciati nei limiti strettamente necessari per la motivazione, come disposto dall’articolo 173 disp. att. c.p.p., comma 1.
Con il primo motivo, rubricato tanto con riferimento alla violazione di legge che alla mancanza o manifesta illogicita’ della motivazione, ci si duole dell’omessa acquisizione di atti del procedimento penale e della mancanza o illogicita’ della motivazione dal punto di vista della valutazione dei fatti accaduti.
Il Ministero ricorrente censura l’ordinanza impugnata, in particolare, nella parte in cui ha affermato che “nemmeno potrebbe essere addotto – quale elemento ostativo alla richiesta riparazione- l’atteggiamento tenuto dall’imputato in sede di interrogatorio, esente da significative contraddizioni e falsita’ (meramente assente da parte resistente) e comunque privo di valenza causale in ordine al mantenimento della misura cautelare”.
La Corte, dunque, in violazione del principio per cui e’ necessario verificare d’ufficio l’assenza di elementi di dolo o colpa grave in capo all’istante indipendentemente dalla deduzione della parte (il richiamo e’ a questa Sez. 4, n. 34181 del 5/11/2002, dep. 2003, Guadagno, Rv. 226004), ha ritenuto sufficiente ad escludere detto elemento ostativo la circostanza che le contraddizioni e falsita’ delle dichiarazioni del (OMISSIS) sarebbero state solo asserite – e non provate – da parte resistente.
La motivazione del provvedimento impugnato, prosegue il ricorso, del tutto generica e solo apparente, porta ad escludere che cio’ sia avvenuto. Invero, avendo l’Amministrazione, nel costituirsi in giudizio, fatto rilevare la sussistenza di indici di un comportamento assolutamente non collaborativo e reticente da parte del (OMISSIS), avanzando l’ipotesi che detto comportamento potesse aver concorso all’applicazione della misura cautelare, la Corte, esaminando approfonditamente gli atti e provvedendo all’acquisizione di tutti gli atti del procedimento, come richiesto, avrebbe ben potuto accertare la sussistenza della denunciata contraddittorieta’, reticenza e spirito non collaborativo del (OMISSIS), rigettando la domanda. In particolare, secondo la tesi proposta in ricorso, dalla lettura degli atti di indagine, e piu’ specificamente dal confronto di quanto dichiarato dal (OMISSIS) in sede di interrogatorio e quanto riferito dai diversi testi sentiti a sommarie informazioni, emergerebbero lacune, divergenze ed incongruenze – rilevate dalla stessa Autorita’ inquirente – che avrebbero indubbiamente concorso all’applicazione e al mantenimento della misura, anche in considerazione del fatto che, come rilevato dallo stesso Tribunale di Avezzano l’imputato non ha mai fornito convincenti smentite alle accuse mosse dalla (OMISSIS), limitandosi a generiche dichiarazioni di innocenza ed impostando la propria difesa esclusivamente su un’opera demolitoria della moralita’ della persona offesa. Proprio con riferimento all’episodio del 2007, ritenuto provato sia in primo che in secondo grado, a fronte della dichiarazione della ragazza di aver incontrato in corridoio il (OMISSIS) nel tardo pomeriggio, l’indagato dapprima ha escluso categoricamente la circostanza, rappresentando, del tutto inverosimilmente, di uscire di casa solo per andare a lavoro dopo le otto, per poi necessariamente ammettere di uscire di casa (potendo dunque trovarsi nel corridoio) anche per motivi diversi dal lavoro.
Numerose si assumono essere state anche le contraddizioni e le divergenze che emergono dal confronto di quanto dichiarato dall’indagato in sede di interrogatorio e quanto riferito in sede di sommarie informazioni dai diversi testi. In relazione all’episodio, di ottobre 2008, della riparazione del motorino di (OMISSIS), il (OMISSIS), in sede di interrogatorio, riferiva che aveva riparato il mezzo che era collocato fuori, nel cortile, infatti alla domanda dove si trovasse il motorino, (OMISSIS) rispondeva che “stava fuori, sulla strada”, pertanto non era in un luogo
chiuso tantoche’ il nonno (OMISSIS) lo aveva protetto con un telo di copertura. La dichiarazione, tuttavia, non trovava riscontro in quanto riferito da (OMISSIS), che in sede di informazioni sommarie affermava “(…) sono stato informato che mio nipote (OMISSIS) era nel magazzino, che si trova sotto l’abitazione di mio figlio (OMISSIS), dalla parte di via (OMISSIS), insieme ad (OMISSIS) cercando di riparare il guasto del motorino di quest’ultima. Sono sceso sotto al magazzino, dove ho trovato (OMISSIS) ed (OMISSIS) (…) e ancora “il posto dove (OMISSIS) lasciava il motorino era quello nel magazzino ma capitava che lo lasciasse anche fuori casa”.
Manifesta dimostrazione della reticenza dell’indagato apparirebbe, a fronte della domanda volta alla descrizione dell’aspetto di (OMISSIS), la radicale negazione del ricordo delle fattezze della cugina, nonche’ la radicale negazione della frequentazione della stessa pur risultando pacifica ed incontestata, sia in base ad altre dichiarazioni del medesimo indagato, che dalle sommarie informazioni assunte, che da dati oggettivi (abitazioni sullo stesso pianerottolo dello stesso edificio), l’assidua frequentazione tra i due.
A fronte di dette emergenze, per le quali il Ministero ricorrente allega i relativi atti e richiama gli specifici punti, sarebbe dunque chiaro come la motivazione della Corte d’Appello di Perugia, che ha omesso di dar conto delle suddette circostanze, risulterebbe meramente apparente e dunque inesistente.
Viene ricordato che in una fattispecie analoga, questa Corte, con la recente sentenza n. 20884/2020, ha evidenziato che se e’ indubbio che la reticenza e la menzogna costituiscono modalita’ e contenuti dell’esercizio concreto del diritto di difesa, e’ anche vero che secondo il costante orientamento della giurisprudenza (il richiamo e’ a Sez. 4, n. 22642/2017, De Gregorio, Rv. 270001) il concreto esercizio del diritto di difendersi tacendo, non collaborando e persino mentendo puo’, eventualmente, rilevare sotto il profilo del dolo o della colpa grave nel caso in cui l’indagato sia in grado di rappresentare specifiche circostanze, non note all’organo inquirente, idonee a prospettare una logica spiegazione alfine di escludere e caducare il valore indiziante degli elementi acquisiti in sede investigativa che determinarono l’emissione del provvedimento cautelare, ed invece le taccia.
A fronte delle riportate dichiarazioni dell’indagato e tenuto conto dei principi appena richiamati, non sarebbe assolutamente condivisibile l’affermazione della Corte umbra per cui non sarebbero ravvisabili contraddizioni e falsita’ aventi un’incidenza causale nel mantenimento della misura, apparendo invece evidente come quelle dichiarazioni – del tutto inverosimili, contraddittorie e comunque reticenti abbiano infinito, concausalmente, sull’applicazione e mantenimento dello stato detentivo.
Il giudice della riparazione – lamenta il Ministero ricorrente – avrebbe fatto discendere il diritto all’indennizzo, in modo del tutto automatico, dall’avvenuta assoluzione.
Il ricorrente ricorda che con la pronuncia n. 39183/2018, la Suprema Corte ha cassato altra decisione della Corte d’Appello di Perugia evidenziando come la Corte di merito avesse confuso i piani della responsabilita’ penale – gia’ negativamente acclarata e presupposto della procedura – con la necessaria valutazione dell’eventuale comportamento colposo dell’imputato sinergico rispetto all’adottata misura cautelare, ribadendo come il riconoscimento dell’indennizzo non possa farsi discendere automaticamente dall’assoluzione. La Corte di legittimita’, in definitiva ha affermato che “difetta nel provvedimento impugnato – il che produce i vizi di legittimita’ denunciati- quella necessaria valutazione globale di tutta la condotta posta in essere dal D., indipendentemente da quelli che erano i singoli reati ipotizzati”.
Analogamente, nel caso di specie, si chiede che l’ordinanza impugnata venga annullata poiche’ la Corte di merito avrebbe chiaramente omesso di procedere alla valutazione globale di tutta la condotta posta in essere dall’istante. Il rapporto fra il comportamento processuale tenuto dall’imputato nel corso del procedimento, e piu’ in generale fra l’esercizio del diritto di difesa ed il momento in cui tale esercizio integri gli estremi del dolo o della colpa grave ex articolo 314 c.p.p., con che si viene a negare il diritto (sostanziale) all’indennizzo sotto il profilo della mancata nascita di una obbligazione a carattere civile nei confronti dell’Amministrazione, appare complesso, mentre l’ordinanza impugnata ne avrebbe completamente svalutato la rilevanza, applicando criteri penalistici in questa sede non invocabili.
Il ricorrente fa riferimento all’ormai consolidato orientamento giurisprudenziale secondo cui una medesima situazione dl fatto, valutata sotto profili ed ordinamenti diversi, puo’ generare effetti diversi: assoluzione nel processo penale, disconoscimento del diritto all’indennizzo nel procedimento civile.
Con il secondo motivo il Ministero ricorrente lamenta erronea applicazione dell’articolo 314 c.p.p., comma 1, e articolo 315 c.p.p., e mancanza o manifesta illogicita’ della motivazione in ordine alla quantificazione della somma riconosciuta.
Si evidenzia preliminarmente in ricorso che, comunque, l’importo riconosciuto di 124.328 Euro sarebbe errato.
Premesso che la riparazione per l’ingiusta detenzione (articolo 314 c.p.p..
e segg.), si ricollega alla figura dell’atto lecito dannoso, e’ indubbio che il giudice dovrebbe utilizzare criteri equitativi per la liquidazione dell’indennizzo.
La riparazione – evidenzia il ricorso – tende a soddisfare un diritto soggettivo pubblico ad ottenere dallo Stato una prestazione che possa compensare il ricorrente dalle sofferenze subite, quale espressione di una doverosa solidarieta’ verso chi ha sopportato una detenzione che appare ingiusta, ma che non assume i connotati di un fatto illecito, idoneo a generare, secondo i principi civilistici, un obbligo risarcitorio.
Quindi, anche a differenza di quanto avviene in relazione all’articolo 643, non sussisterebbero spazi per dare ingresso ai canoni risarcitori ulteriori.
Come chiaramente affermato dalla giurisprudenza di legittimita’ “La riparazione per ingiusta detenzione costituisce uno strumento indennitario da atto lecito e non risarcitorio, diretto a compensare solo le ricadute sfavorevoli (patrimoniali e non) procurate dalla privazione della liberta’, attraverso un sistema di chiusura con il quale l’ordinamento riconosce un ristoro per la liberta’ ingiustamente, ma senza colpe, compressa, correlando, percio’, la quantificazione dell’indennizzo alla sola durata ed intensita’ della privazione della liberta’, salvo gli aggiustamenti resi necessari dall’evidenziazione di profili di pregiudizio piu’ vasti ed esuberanti rispetto al fisiologico danno da privazione della liberta’ (il riferimento e’ a questa Sez. 4 n. 21077/2014, Rv. 259237).
Nel caso di specie, invece, la Corte d’Appello di Perugia, riconoscendo l’ulteriore importo di 30.000 Euro. oltre quello determinato in base al criterio matematico, si sarebbe discostata dai suddetti principi dando ingresso ad una ulteriore liquidazione dei danni riconducibili alla misura subita.
L’indennizzo – prosegue il ricorso – non e’ integrale ristoro dei pregiudizi subiti e la somma massima prevista dalla legge rappresenta il ristoro di chi abbia subito il massimo della carcerazione preventiva ritraendone pregiudizi della massima gravita’. La liquidazione avrebbe dovuto essere dunque limitata all’importo di 94.328 Euro correlata dallo stesso giudice al criterio legale.
Viene ricordato che, secondo quanto precisato da questa Corte di legittimita’ con sentenza n. 23211/2004 “il riferimento all’equita’ si traduce… nell’attribuzione al giudice di un piu’ vasto potere di apprezzamento per la soluzione del caso concreto, ma non in funzione additiva rispetto al parametro aritmetico, e la massima indennita’ giornaliera va tenuta presente dal giudice di merito come parametro per modulare concretamente l’indennizzo in relazione alle specifiche conseguenze personali e familiari patite dall’istante per effetto dell’ingiusta detenzione”.
Chiede, pertanto, l’annullamento della ordinanza impugnata con le conseguenti statuizioni di rito.
3. Il P.G. presso questa Corte Suprema in data 30/12/2020 ha rassegnato le proprie conclusioni scritte chiedendo annullarsi il provvedimento impugnato limitatamente alla quantificazione dell’indennizzo rimettendosi gli atti alla Corte di Appello di Perugia in diversa composizione per una nuova valutazione sul punto.
4. In data 22/12/2020 e’ stata depositata memoria difensiva nell’interesse di (OMISSIS) con cui, in primis (pag. 4), viene dedotta l’inammissibilita’ del primo motivo di ricorso laddove si lamentano le mancate acquisizioni documentali da parte della Corte umbra, evidenziando la gran mole di provvedimenti prodotti dal ricorrente e comunque come i verbali di sommarie informazioni rese il 25.5.2009 e prodotti solo dinanzi a questa Corte rappresentano elementi probatori la cui acquisizione doveva essere chiesta gia’ al giudice di Perugia, ma cio’ non fu fatto dal Ministero che nella memoria del 9.6.2020 si limito’ a chiedere genericamente l’acquisizione di tutti gli atti di indagine nonche’ dell’incidente probatorio.
Ebbene, ricorda il difensore del (OMISSIS) che il verbale dell’incidente probatorio, nell’ottica di collaborazione che deve caratterizzare il processo, fu prodotto dalla difesa all’udienza del 22.6.2020 e che, quanto agli altri atti di indagine, la generica richiesta di acquisizione era evidentemente di nessun valore giuridico e percio’, correttamente, la Corte umbra a pag. 3, primo periodo, dell’ordinanza impugnata l’ha ritenuta meramente esplorativa.
Non essendo stata correttamente avanzata davanti al giudice della riparazione una richiesta di acquisizione di specifici atti di indagine, ed in particolare dei verbali di sommarie informazioni rese il 25/5/2009, ne conseguirebbe l’inammissibilita’ della produzione di detti’ verbali dinanzi al giudice di Legittimita’ e da cio’ deriverebbe l’inammissibilita’ del ricorso.
Il difensore del (OMISSIS), in ogni caso, richiamando vari arresti giurisprudenziali di questa Corte di legittimita’ (Sez. 4 nn. 370/1998; 3707/1998; 485/1997; 18448/2012; 32891/2020) evidenzia come, a suo avviso, nel caso di specie la nuova prova richiesta dal Ministero ricorrente non sarebbe decisiva e cio’ comporterebbe l’inammissibilita’ del ricorso.
Evidenzia anche l’infondatezza del primo motivo di ricorso, in punto di genericita’ ed apparenza della motivazione dell’ordinanza del giudice della riparazione.
Si sottolinea, al contrario, che la motivazione fornita dalla Corte perugina sarebbe esente da vizi logici e ben strutturata, poiche’ dall’analisi dell’istanza del (OMISSIS) e della copiosa documentazione prodotta, la Corte ha rilevato che non emergeva dalla condotta dell’istante nessun elemento di dolo o colpa grave che avesse contribuito all’applicazione ed al mantenimento della misura custodiale, dato che l’applicazione della misura detentiva scaturiva solo ed esclusivamente dalle dichiarazioni accusatorie rese dalla persona offesa, ritenute infine inaffidabili (v. pag. 3).
Cio’ che rileverebbe e’ che la Corte di Appello di Perugia ha ben analizzato tutta la vicenda giudiziaria dell’istante ed ha motivato la decisione in modo logico e puntuale, richiamando compiutamente sia la fase precedente l’applicazione della misura cautelare, sia il prosieguo degli accadimenti procedimentali fino al momento in cui ha continuato a trovare applicazione la misura.
Il Ministero – si fa presente- solo con il ricorso in Cassazione ha depositato la documentazione da cui vorrebbe far emergere che il (OMISSIS) avrebbe concorso con il proprio comportamento all’applicazione e al mantenimento della misura cautelare detentiva. E, in ogni caso, la documentazione prodotta dal Ministero invero non fornirebbe nessun elemento di contraddittorieta’ ne’ di menzogna o reticenza o falsita’ delle dichiarazioni fornite dal (OMISSIS) in sede di interrogatorio, in quanto: quelle evidenziate dal Ministero sarebbero mere discrepanze.
Il (OMISSIS) – prosegue il suo difensore- ha sempre partecipato a tutta l’attivita’ giudiziaria che fo ha visto indagato e imputato, sia sottoponendosi all’interrogatorio di garanzia e rispondendo compiutamente a tutte le domande sia rivolgendo ai giudicanti plurime istanze di revoca della misura nonche’ ricorrendo al tribunale del riesame. La misura cautelare. detentiva e’ stata applicata solo ed esclusivamente sulla base delle dichiarazioni della persona offesa, avvenute in un momento di molto successivo rispetto alle presunte violenze subite e non sorrette da altri elementi probatori della colpevolezza del (OMISSIS), il quale, dal canto suo, ha utilizzato, tutti i possibili strumenti processuali per ottenerne la revoca.
Pure sul motivo attinente alla quantificazione dell’indennizzo, infine, per il difensore del (OMISSIS) l’ordinanza impugnata sarebbe priva di vizi di legittimita’.
Si sottolinea, in particolare, che nell’ordinanza della Corte perugina il riconoscimento di una somma ulteriore per un ammontare di 30.000 Euro e’ stato motivato in modo logico e’ razionale dato che e’ espressamente riportato nell’ordinanza che l’elemento “peculiare” e “caratterizzante” il caso del (OMISSIS) si puo’ rinvenire nella giovane eta’ in cui e’ stata subita la detenzione e dal fatto che era incensurato ed alla sua prima (ed allo stato unica) esperienza carceraria, che lo ha segnato e traumatizzato poiche’ innocente oltre che nella lunga durata della carcerazione che ha reso la conseguente afflizione piu’ che proporzionalmente gravosa di una di breve durata.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. Il primo motivo di ricorso sopra illustrato appare fondato e, pertanto, l’ordinanza impugnata va annullata con rinvio per nuovo esame alla Corte di Appello di Perugia.
La fondatezza del profilo di doglianza che attiene alla motivazione sull’an dell’indennizzo e’ assorbente, pertanto, rispetto al secondo motivo, riguardante il quantum.
2. Va premesso che e’ principio consolidato nella giurisprudenza di questa Corte Suprema che nei procedimenti per riparazione per ingiusta detenzione la cognizione del giudice di legittimita’ deve intendersi limitata alla sola legittimita’ del provvedimento impugnato, anche sotto l’aspetto della congruita’ e logicita’ della motivazione, e non puo’ investire naturalmente il merito. Cio’ ai sensi del combinato disposto di cui all’articolo 646 c.p.p., secondo capoverso, da ritenersi applicabile per il richiamo contenuto nell’articolo 315 c.p.p., comma 3.
Dalla circostanza che nella procedura per il riconoscimento di equo indennizzo per ingiusta detenzione il giudizio si svolga in un unico grado di merito (in sede di corte di appello) non puo’ trarsi la convinzione che la Corte di Cassazione giudichi anche nel merito, poiche’ una siffatta estensione di giudizio, pur talvolta prevista dalla legge, non risulta da alcuna disposizione che, per la sua eccezionalita’, non potrebbe che essere esplicita. Al contrario l’articolo 646 c.p.p., comma 3 (al quale rinvia l’articolo 315 c.p.p., u.c.) stabilisce semplicemente che avverso il provvedimento della Corte di Appello, gli interessati possono ricorrere per Cassazione: conseguentemente tale rimedio rimane contenuto nel perimetro deducibile dai motivi di ricorso enunciati dall’articolo 606 c.p.p., con tutte le limitazioni in essi previste (cfr. ex multis, Sez. 4, n. 542 del 21/4/1994, Bollato, Rv. 198097, che, affermando tale principio, ha dichiarato inammissibile il ricorso avverso ordinanza del giudice di merito in materia, col quale non si deduceva violazione di legge, ma semplicemente ingiustizia della decisione con istanza di diretta attribuzione di equa somma da parte della Corte).
3. L’articolo 314 c.p., com’e’ noto, prevede al comma 1 che “chi e’ stato prosciolto con sentenza irrevocabile perche’ il fatto non sussiste, per non aver commesso il fatto, perche’ il fatto non costituisce reato o non e’ previsto dalla legge come reato, ha diritto a un’equa riparazione per la custodia cautelare subita, qualora non vi abbia dato o concorso a darvi causa per dolo o colpa grave”.
In tema di equa riparazione per ingiusta detenzione, dunque, costituisce causa impeditiva all’affermazione del diritto alla riparazione l’avere l’interessato dato causa, per dolo o per colpa grave, all’instaurazione o al mantenimento della custodia cautelare (articolo 314 c.p.p., comma 1, ultima parte); l’assenza di tale causa, costituendo condizione necessaria al sorgere del diritto all’equa riparazione, deve essere accertata d’ufficio dal giudice, indipendentemente dalla deduzione della parte (cfr. sul punto questa Sez. 4, n. 34181 del 5/11/2002, Guadagno, Rv. 226004).
In proposito, le Sezioni Unite di questa Corte hanno da tempo precisato che, in tema di presupposti per la riparazione dell’ingiusta detenzione, deve intendersi dolosa – e conseguentemente idonea ad escludere la sussistenza del diritto all’indennizzo, ai sensi dell’articolo 314 c.p.p., comma 1, – non solo la condotta volta alla realizzazione di un evento voluto e rappresentato nei suoi termini fattuali, sia esso confliggente o meno con una prescrizione di legge, ma anche la condotta consapevole e volontaria i cui esiti, valutati dal giudice del procedimento riparatorio con il parametro dell'”id quod plerumque accidie secondo le regole di esperienza comunemente accettate, siano tali da creare una situazione di allarme sociale e di doveroso intervento dell’autorita’ giudiziaria a tutela della comunita’, ragionevolmente ritenuta in pericolo (Sez. Unite n. 43 del 13/12/1995 dep. 1996, Sarnataro ed altri, Rv. 203637)
Poiche’ inoltre, la nozione di colpa e’ data dall’articolo 43 c.p., deve ritenersi ostativa al riconoscimento del diritto alla riparazione, ai sensi del predetto articolo 314 c.p.p., comma 1, quella condotta che, pur tesa ad altri risultati, ponga in essere, per evidente, macroscopica negligenza, imprudenza, trascuratezza, inosservanza di leggi, regolamenti o norme disciplinari, una situazione tale da costituire una non voluta, ma prevedibile, ragione di intervento dell’autorita’ giudiziaria che si sostanzi nell’adozione di un provvedimento restrittivo della liberta’ personale o nella mancata revoca di uno gia’ emesso.
In altra successiva condivisibile pronuncia e’ stato affermato che il diritto alla riparazione per l’ingiusta detenzione non spetta se l’interessato ha tenuto consapevolmente e volontariamente una condotta tale da creare una situazione di doveroso intervento dell’autorita’ giudiziaria o se ha tenuto una condotta che abbia posto in essere, per evidente negligenza, imprudenza o trascuratezza o inosservanza di leggi o regolamenti o norme disciplinari, una situazione tale da costituire una prevedibile ragione di intervento dell’autorita’ giudiziaria che si sostanzi nell’adozione di un provvedimento restrittivo della liberta’ personale o nella mancata revoca di uno gia’ emesso (Sez. 4, n. 43302 del 23/10/2008, Maisano, Rv. 242034).
Ancora le Sezioni Unite, hanno affermato che il giudice, nell’accertare la sussistenza o meno della condizione ostativa al riconoscimento del diritto all’equa riparazione per ingiusta detenzione, consistente nell’incidenza causale del dolo o della colpa grave dell’interessato rispetto all’applicazione del provvedimento di custodia cautelare, deve valutare la condotta tenuta dal predetto sia anteriormente che successivamente alla sottoposizione alla misura e, piu’ in generale, al momento della legale conoscenza della pendenza di un procedimento a suo carico (Sez. Unite, n. 32383 del 27/5/2010, D’Ambrosio, Rv. 247664). E, ancora, piu’ recentemente, il Supremo Collegio ha ritenuto di dover precisare ulteriormente che in tema di riparazione per l’ingiusta detenzione, ai fini del riconoscimento dell’indennizzo puo’ anche prescindersi dalla sussistenza di un “errore giudiziario”, venendo in considerazione soltanto l’antinomia “strutturale” tra custodia e assoluzione, o quella “funzionale” tra la durata della custodia ed eventuale misura della pena, con la conseguenza che, in tanto la privazione della liberta’ personale potra’ considerarsi “ingiusta”, in quanto l’incolpato non vi abbia dato o concorso a darvi causa attraverso una condotta dolosa o gravemente colposa, giacche’, altrimenti, l’indennizzo verrebbe a perdere ineluttabilmente la propria funzione riparatoria, dissolvendo la “ratio” solidaristica che e’ alla base dell’istituto (cosi’ Sez. Unite, n. 51779 del 28/11/2013, Nicosia, Rv. 257606, fattispecie in cui e’ stata ritenuta colpevole la condotta di un soggetto che aveva reso dichiarazioni ambigue in sede di interrogatorio di garanzia, omettendo di fornire spiegazioni sul contenuto delle conversazioni telefoniche intrattenute con persone coinvolte in un traffico di sostanze stupefacenti, alle quali, con espressioni “travisanti”, aveva sollecitato in orario notturno la urgente consegna di beni).
Va poi osservato che vi e’ totale autonomia tra giudizio penale e giudizio per l’equa riparazione anche atteso che i due afferiscono piani di indagine del tutto diversi che ben possono portare a conclusioni affatto differenti pur se fondanti sul medesimo materiale probatorio acquisito agli atti, in quanto sottoposto ad un vaglio caratterizzato dall’utilizzo di parametri di valutazione del tutto differenti. Cio’ perche’ e’ prevista in sede di riparazione per ingiusta detenzione la rivalutazione dei fatti non nella loro portata indiziaria o probatoria, che puo’ essere ritenuta insufficiente e condurre all’assoluzione, occorrendo valutare se essi siano stati idonei a determinare, unitamente ed a cagione di una condotta negligente od imprudente dell’imputato, l’adozione della misura cautelare, traendo in inganno il giudice.
E’ pacifico (cfr. tra le tante questa Sez. 4, ord. 25/11/2010, n. 45418) che, in sede di giudizio di riparazione ex articolo 314 c.p.p., ed al fine della valutazione dell’an debeatur occorra prendere in considerazione in modo autonomo e completo tutti gli elementi probatori disponibili ed in ogni modo emergenti dagli atti, al fine di valutare se chi ha patito l’ingiusta detenzione vi abbia dato o abbia concorso a darvi causa con dolo o colpa grave, con particolare riferimento alla sussistenza di condotte che rivelino eclatante o macroscopica negligenza, imprudenza o violazione di leggi o regolamenti. A tale fine e’ necessario che venga esaminata la condotta posta in essere dall’istante sia prima che dopo la perdita della liberta’ personale e, piu’ in generale, al momento della legale conoscenza della pendenza di un procedimento a suo carico (cfr. Sez. Un. 32383/2010), onde verificare, con valutazione ex ante, in modo del tutto autonomo e indipendente dall’esito del processo di merito, se tale condotta, risultata in sede di merito tale da non integrare un fatto-reato, abbia ciononostante costituito il presupposto che abbia ingenerato, pur in eventuale presenza di un errore dell’autorita’ procedente, la falsa apparenza della sua configurabilita’ come illecito penale, dando luogo alla detenzione con rapporto di “causa ad effetto” (cfr. anche la precedente Sez. Un. 26/6/2002, Di Benedictis).
4. Fondato e’ il rilievo sul fatto che dell’ordinanza impugnata, in particolare nella parte in cui affermato che “nemmeno potrebbe essere addotto – quale elemento ostativo alla richiesta riparazione- l’atteggiamento tenuto dall’imputato in sede di interrogatorio, esente da significative contraddizioni e falsita’ (meramente assente da parte resistente) e comunque privo di valenza causale in ordine al mantenimento della misura cautelare” adombra una sorta di principio dispositivo secondo cui il giudice della riparazione sarebbe tenuto a valutare la sussistenza di comportamenti dolosi o gravemente colposi soltanto in relazione a quanto documentato dall’Amministrazione resistente.
In realta’ non e’ affatto cosi’.
Questa Corte di legittimita’ ha da tempo chiarito -e va qui ribadito- che, in tema di equa riparazione per ingiusta detenzione, costituisce causa impeditiva all’affermazione del diritto alla riparazione l’avere l’interessato dato causa, per dolo o per colpa grave, all’instaurazione o al mantenimento della custodia cautelare (articolo 314 c.p.p., comma 1, ultima parte) e che l’assenza di tale causa, costituendo condizione necessaria al sorgere del diritto all’equa riparazione, deve essere accertata d’ufficio dal giudice, indipendentemente dalla deduzione della parte (Sez. 4, n. 34181 del 5/11/2002 dep. 2003, Guadagno, Rv. 226004).
Gia’ in precedenza, peraltro, si era rilevato che l’assenza di siffatta causa costituisce una condizione dell’azione che, come tale, va verificata dal giudice. indipendentemente dalla deduzione della parte (Sez. 4, n. 1558 del 18/12/1993, Le-gnaro, Rv. 197378).
Va ricordato, in proposito, che per condizioni dell’azione si intendono le condizioni necessarie perche’ il giudice possa dichiarare esistente ed attuare la volonta’ di legge invocata dall’attore, ed e’ noto che, secondo autorevolissima dottrina, la prima condizione dell’azione e’ l’esistenza di una volonta’ di legge che garantisca ad alcuno un bene, obbligando il convenuto ad una prestazione.
Il giudice della riparazione, pertanto, al fine di valutare la sussistenza o meno del diritto all’indennizzo, ha il diritto-dovere di acquisire ed esaminare con piena ed ampia liberta’ il materiale acquisito nel processo penale, al fine di controllare la ricorrenza, o meno, delle condizioni dell’azione (di natura civilistica), sia in senso positivo che negativo, come il verificare la sussistenza di una causa di esclusione del diritto all’indennizzo, quale l’avere l’istante dato concausa all’evento che produsse il pregiudizio (perdita della liberta’) tenendo un comportamento doloso ovvero gravemente colposo e, inoltre, ai fini della quantificazione, tenendo una condotta anche lievemente colposa.
Il rapporto tra giudizio penale e giudizio della riparazione si risolve solo nel condizionamento del primo rispetto al presupposto dell’altro, vale a dire all’accertamento della ingiustizia della detenzione; il che non conduce automaticamente all’indennizzo, spettando al giudice di quest’ultimo una serie, di accertamenti e valutazioni da condurre in piena autonomia e con l’ausilio di criteri diversi da quelli dettati dalla legge al giudice penale (cfr. questa Sez. 4 n. 1533 del 17/12/1992 dep. 1993, Campione, Rv. 194089).
5. Al di la’ dell’avvenuta acquisizione di questo o di quel documento afferente al giudizio di cognizione, il provvedimento impugnato si caratterizza per la sua assoluta genericita’ ed apoditticita’, riducendosi la valutazione in ordine alla sussistenza del diritto all’indennizzo, pur a fronte dei rilievi del Ministero resistente in relazione alla sussistenza di discordanze nelle dichiarazioni rese dall’imputato in sede di interrogatorio rispetto alle successive emergenze processuali, alle seguenti affermazioni che si leggono a pag. 3 dell’ordinanza impugnata: “Pure nel merito sono infondate le osservazioni svolte dall’Avvocatura dello Stato in ordine a possibili profili colposi addebitabili a (OMISSIS). Non emerge alcun profilo colposo di condotta riferibile al prevenuto; l’originario quadro indiziario, che aveva portato alla misura cautelare e all’imputazione processuale, derivava infatti da dichiarazioni accusatorie rese dalla persona offesa, ritenute alfine inaffidabili. Nemmeno potrebbe essere addotto – quale elemento ostativo alla richiesta riparazione – l’atteggiamento tenuto dall’imputato in sede di interrogatorio, esente da significative contraddizioni e falsita’ (meramente assente da parte resistente) e comunque privo di valenza causale in ordine al mantenimento della misura cautelare. Non essendo dato ravvisare concrete condotte di dolo o di colpa grave da parte dell’istante che abbiano significativamente contribuito a dare causa alla misura cautelare in oggetto andra’ pertanto riconosciuto il diritto alla riparazione richiesta”.
Si tratta, con palmare evidenza, di una motivazione apparente, che non opera un buon governo della giurisprudenza di legittimita’ sopra ricordata e che non offre alcuna disamina atta a comprendere il percorso logico che il giudice della riparazione ha compiuto per addivenire alla conclusione in ordine all’insussistenza di discordanze tra quanto dichiarato dall’imputato in sede di interrogatorio e gli elementi di fatto su cui torna in questa sede il Ministero ricorrente e che erano gia’ stati sottoposti al giudice della riparazione, in ultimo, con la memoria dell’Avvocatura Distrettuale dello Stato del 9/6/2020.
6. In caso di diffusione del presente provvedimento omettere le generalita’ e gli altri dati identificativi, a norma del Decreto Legislativo n. 196 del 2003, articolo 52, in quanto imposto dalla legge.
P.Q.M.
Annulla l’ordinanza impugnata e rinvia per nuovo esame alla Corte di Appello di Perugia.
Oscuramento dati.
In caso di diffusione omettere le generalità e gli altri dati identificativi dei soggetti interessati nei termini indicati.
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