Corte di Cassazione, civile, Sentenza|29 maggio 2024| n. 15026.
In tema di impresa familiare il partecipante che agisce per ottenere la propria quota e l’onere della prova
In tema di impresa familiare, il partecipante che agisce per ottenere la propria quota di utili ha l’onere di provare la consistenza del patrimonio aziendale e la quota astratta della propria partecipazione, potendo a tal fine ricorrere anche a presunzioni semplici, tra cui la predeterminazione delle quote operata a fini fiscali; sul familiare esercente l’impresa grava invece l’onere di fornire la prova contraria rispetto alle eventuali presunzioni semplici, nonché di dimostrare il pagamento degli utili spettanti pro quota a ciascun partecipante.
Sentenza|29 maggio 2024| n. 15026. In tema di impresa familiare il partecipante che agisce per ottenere la propria quota e l’onere della prova
Data udienza 23 maggio 2024
Integrale
Tag/parola chiave: Divisione – Impresa individuale di uno dei coniugi costituita dopo il matrimonio – Inclusione nella comunione “de residuo” dei beni destinati all’esercizio dell’impresa – Prova degli utili prodotti dall’impresa familiare – Imputazione a ciascun familiare proporzionalmente alla sua quota di partecipazione – Valore probatorio delle dichiarazioni fiscali prodotte – Annullamento con rinvio
REPUBBLICA ITALIANA
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SECONDA CIVILE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. MANNA Felice – Presidente
Dott. CAVALLINO Linalisa – Consigliere
Dott. PICARO Vincenzo – Consigliere
Dott. FORTUNATO Giuseppe – Consigliere
Dott. CRISCUOLO Mauro – Rel. Consigliere
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
sul ricorso 27516-2018 proposto da:
Sg.Ma., Sg. Srl, elettivamente domiciliati in ROMA al (…), presso lo studio dell’avvocato Fr.Ri., rappresentati e difesi dall’avvocato Gi.Di., giusta procura speciale in sostituzione dei precedenti difensori;
– ricorrenti –
contro
Ma.Ma., elettivamente domiciliata in ROMA alla (…), presso lo studio dell’avvocato Gu.Or., rappresentata e difesa dall’avvocato An.Au., giusta procura in calce al controricorso;
– ricorrente incidentale –
avverso la sentenza n. 1239/2018 della CORTE D’APPELLO di BOLOGNA, depositata l’11/05/2018;
lette le conclusioni scritte del Pubblico Ministero, nella persona del Sostituto Procuratore Generale, dott. Tr.Fu., che ha chiesto l’accoglimento del primo, sesto e settimo motivo del ricorso incidentale, il rigetto del primo motivo del ricorso principale, con assorbimento degli altri motivi del ricorso principale ed incidentale;
lette le memorie delle parti;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 23/05/2024 dal Consigliere Dott. MAURO CRISCUOLO;
Udite le conclusioni del Pubblico Ministero, nella persona del Sostituto Procuratore Generale, dott. Tr.Fu., che ha chiesto l’accoglimento del primo, sesto e settimo motivo del ricorso incidentale, il rigetto del primo motivo del ricorso principale, con assorbimento degli altri motivi del ricorso principale ed incidentale;
uditi l’avvocato Gi.Di. per i ricorrenti principali, e l’avvocato An.Au. per la ricorrente incidentale;
In tema di impresa familiare il partecipante che agisce per ottenere la propria quota e l’onere della prova
FATTI DI CAUSA E RAGIONI DELLA DECISIONE
1. Ma.Ma. conveniva in giudizio dinanzi al Tribunale di Ferrara l’ex coniuge Sg.Ma., la Sg. Srl e la Banca di Credito Cooperativo di Cento -Crevalcore, poi divenuta Ba. soc. coop., chiedendo accertare la nullità ovvero la simulazione dell’atto di costituzione dell’impresa familiare del 22 dicembre 1989, con l’annullamento del contratto di affitto di azienda concluso dal convenuto in favore della Sg. Srl; disporsi la divisione dei beni oggetto della comunione legale dei coniugi, comprensivi dell’azienda coniugale, nonché degli utili e degli incrementi maturati sino alla divisione, e dei canoni di locazione percepiti e percipiendi per l’affitto dell’azienda, oltre le somme liquide versate sui conti correnti intestati al solo convenuto, il quale andava condannato anche ai rimborsi ex art. 192 c.c., per le somme indebitamente prelevate per finalità estranee rispetto a quelle relative alla gestione della comunione.
Chiedeva altresì assegnarsi la metà dell’azienda caduta in comunione, anche per equivalente in denaro, ed in via subordinata, ove si fosse ritenuto che l’attrice era una mera collaboratrice dell’impresa familiare, che fosse disposta la divisione dei beni caduti in comunione de residuo, con la condanna del convenuto al versamento della quota di utili di sua spettanza per il lavoro prestato nell’azienda familiare, previo annullamento della rinuncia contenuta nell’atto per notar Ma. del 31 gennaio 2003.
Nella resistenza dei convenuti, all’esito dell’istruttoria, il Tribunale adito, preso atto che nelle more il mutuo ipotecario, a garanzia del quale erano stati offerti i beni oggetto di causa, era stato integralmente rimborsato all’istituto di credito, condannava lo Sg.Ma. al pagamento della somma di Euro 287.976,38, oltre interessi e rivalutazione, stante l’accertamento della natura comune dei beni individuati dall’attrice, e ciò in ragione della loro assegnazione in esclusiva al convenuto, trattandosi di beni caduti in comunione de residuo a seguito dello scioglimento della comunione legale.
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Era però rigettata la domanda di condanna del convenuto al pagamento della quota di utili asseritamente non percetti, nonché la domanda di nullità del contratto costitutivo dell’impresa familiare e del contratto di affitto di azienda. Avverso tale sentenza proponeva appello loSg.Ma., cui resistevano sia la Sg. Srl che la Ma.Ma. proponendo entrambi appello incidentale.
La Corte d’Appello di Bologna, con la sentenza n. 1239 dell’11 maggio 2018, ha rigettato tutti i gravami, condannando lo Sg.Ma. al rimborso delle spese in favore dell’ex coniuge, compensando le spese tra le altre parti.
Nell’esaminare l’appello principale, la Corte distrettuale reputava che non potesse riscontrarsi la nullità dell’atto di citazione, in quanto la causa petendi andava identificata tenendo conto non solo delle richieste finali, ma anche della parte espositiva. In tal senso emergeva che la domanda attorea era finalizzata ad accertare che l’impresa commerciale del marito, il Tappeto Verde, rientrava nella comunione legale, in quanto costituita e gestita dopo il matrimonio da entrambi i coniugi, essendo stata avanzata in via subordinata la richiesta di accertare che, ove invece si fosse ritenuto che l’impresa era stata gestita dal solo marito, la medesima rientrava nella comunione de residuo ex art. 178 c.c.
Una volta esclusa la gestione comune, il Tribunale aveva correttamente reputato che i beni acquistati dal convenuto, e destinati allo svolgimento dell’attività imprenditoriale, erano poi ricaduti nella comunione una volta venuta meno la comunione legale, non potendo rilevare a tal fine la dichiarazione resa dall’attrice al momento dell’acquisto, essendo necessario, sulla scorta delle previsioni normative, distinguere tra i beni destinati all’esercizio dell’attività professionale (effettivamente costituenti beni personali ex art. 179 c.c.), ed i beni destinati all’esercizio dell’attività imprenditoriale, che invece ricadono nella comunione de residuo ex art. 178 c.c.
Né poteva attribuirsi alla dichiarazione, resa dalla Ma.Ma. al momento dell’acquisto, il valore di rinuncia, avendo la giurisprudenza escluso tale possibilità.
Passando alla valutazione dei beni, la Corte distrettuale reputava condivisibile la stima operata dal CTU, la cui metodologia di indagine appariva corretta, ed in grado di offrire il reale valore venale dei beni comuni.
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Dovendosi, quindi, condividere le conclusioni del giudice di primo grado, risultava corretta anche la condanna del convenuto al pagamento delle spese di lite in favore dell’attrice, attesa la sua prevalente soccombenza.
In relazione all’appello incidentale della Ma.Ma., finalizzato a pretendere il pagamento degli utili maturati durante la collaborazione prestata nell’impresa familiare, la sentenza impugnata osservava che il rapporto di collaborazione era cessato il 31 gennaio 2003 e che l’appellante incidentale non aveva offerto la prova dell’ammontare delle somme percepite a titolo di utili, così come non aveva offerto alcuna prova circa il fatto che nessuna somma le fosse stata corrisposta dal 1989 al 2003. Né poteva ritenersi irrilevante la “liberatoria” sottoscritta dalla attrice in occasione della stipula dell’atto con il quale era venuta meno la comunione legale, in quanto nella stessa aveva dichiarato di reputarsi soddisfatta di ogni sua eventuale pretesa nascente dalla cessata collaborazione, dichiarazione che, anche a voler ammettere che dovesse essere sottoposta alla disciplina di cui all’art. 2113 c.c., non era stata tempestivamente impugnata.
In merito, infine, all’appello incidentale della Sg. Srl, la Corte d’Appello osservava che nella fattispecie trovava applicazione l’art. 92, co. 2, C.P.C., nella sua originaria formulazione, così che la compensazione poteva essere disposta anche facendo richiamo alla complessità dell’istruttoria e delle questioni giuridiche trattate, come appunto fatto dal Tribunale.
2. Sg.Ma. e la Sg.Srl hanno proposto ricorso per la cassazione della sentenza d’appello sulla base di tre motivi.
Ma.Ma. ha resistito con controricorso, proponendo a sua volta ricorso incidentale affidato ad undici motivi.
Il ricorrente principale ha resistito con controricorso al ricorso incidentale.
3. Il Pubblico Ministero ha depositato conclusioni scritte ed entrambe le parti hanno depositato memorie.
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4. Preliminarmente deve essere disattesa l’eccezione di inammissibilità del ricorso incidentale per essere stato tardivamente notificato, e ciò sul presupposto che, avendo la parte in ricorso eletto il proprio domicilio digitale, la notifica avvenuta a mezzo posta del controricorso contenente ricorso incidentale, sarebbe invalida, risultando poi tardiva la successiva notifica avvenuta a mezzo pec, oltre il termine previsto dall’art. 370 C.P.C. .
Infatti, questa Corte ha in passato affermato che la notificazione del controricorso per cassazione, contenente ricorso incidentale, effettuata al domicilio eletto per il giudizio di appello e non a quello eletto per il giudizio di legittimità, in violazione dell’art. 370 cod. proc. civ., è da ritenere nulla e non inesistente allorché, essendo identico il difensore della parte nel giudizio di appello e in quello di cassazione, e risultando dalla relata di notifica dell’atto d’impugnazione un collegamento tra il luogo in cui questo è stato notificato ed il luogo in cui avrebbe dovuto esserlo ai sensi degli artt. 366, 370 e 371 cod. proc. civ., sussista un collegamento tra professionista, parte ed affare, che giustifichi la valutazione per cui il difensore è in tale ipotesi normalmente messo a conoscenza dell’impugnazione; ne consegue che la suddetta nullità ben può essere sanata mediante rinnovazione della notificazione (cfr. ex multis Cass. n. 1666/2004).
Attesa l’evidente assimilazione della fattispecie ora indicata a quella della notifica effettuata a mezzo posta ordinaria al domicilio fisico in luogo della notifica presso il domicilio digitale, la prima notifica, evidentemente tempestiva, in quanto avvenuta nel rispetto del termine di cui al primo comma dell’art. 370 (e precisamente in data 10 ottobre 2018, essendo stato il ricorso principale notificato il 31 luglio 2018), ove anche reputata nulla, era però suscettibile di sanatoria con efficacia ex tunc per effetto della sua rinnovazione, avvenuta con la successiva notifica avvenuta a mezzo pec (e ciò anche a voler ignorare la circostanza che la notifica era stata effettuata già in data 10 ottobre 2019 anche all’indirizzo pec di uno dei difensori dei ricorrenti principali).
5. Il primo motivo del ricorso principale denuncia la violazione e falsa applicazione dell’art. 112 e 183 C.P.C., con omessa pronuncia.
Si evidenzia che la Corte d’Appello ha confermato l’accoglimento della domanda dell’attrice di divisione dei beni asseritamente comuni, ma senza tenere conto del fatto che tale domanda era stata in realtà avanzata solo in occasione della precisazione delle conclusioni dinanzi al giudice di primo grado.
Infatti, le conclusioni dell’atto di citazione, cui sostanzialmente si rifacevano quelle articolate nella memoria di cui all’art. 183 C.P.C., miravano alla divisione del complesso aziendale sul presupposto che lo stesso fosse caduto in comunione legale, nel mentre solo in occasione della precisazione delle conclusioni è stata formulata la richiesta di accertare che i beni destinati all’esercizio dell’impresa costituita dopo il matrimonio dal ricorrente nonché gli incrementi dovessero essere divisi, in quanto caduti in comunione ex art. 178 c.c. .
La novità della domanda era stata eccepita e dedotta come motivo di appello, ma la risposta sul punto del giudice di secondo grado è stata sostanzialmente elusiva della questione posta, in quanto non è stata colta la differenza tra la richiesta di accertare la comunione sull’azienda e quella di accertare la comunione sui singoli beni aziendali. Il motivo è infondato.
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La sentenza impugnata, nel replicare alla deduzione dell’appellante secondo cui l’atto di citazione era affetto da nullità per difetto di specificità della causa petendi, ha ritenuto che la domanda dovesse essere interpretata, così come formulata in citazione, nel senso che contenesse già in quella veste la richiesta subordinata di appurare, una volta esclusa la natura comune della stessa impresa (per essersi al cospetto di un’impresa costituita e gestita unicamente dal marito) che fossero comuni ai sensi dell’art. 178 c.c. i beni destinati all’esercizio dell’impresa (così pag. 7).
Alla luce di tale specificazione deve perciò escludersi che ricorra la violazione dell’art. 112 C.P.C., quanto al motivo di appello formulato a tal proposito, avendo la sentenza evidentemente risposto alla censura formulata dall’appellante principale, reputando che non vi fosse stata alcuna extra petizione, e trovando la richiesta di divisione dei beni comuni un suo fondamento nelle conclusioni già avanzate con l’atto di citazione.
Tuttavia, anche a voler diversamente opinare, ed a voler attestarsi al tenore letterale delle espressioni utilizzate in citazione e nella memoria ex art. 183 C.P.C., ove si fa richiesta di procedere alla divisione del complesso aziendale, la correttezza della soluzione cui sono pervenuti i giudici di merito appare evidente alla luce del richiamo fatto dalla stessa attrice in citazione alla previsione di cui all’art. 178 c.c. (cfr. pag. 3 del ricorso principale che riproduce le conclusioni di cui all’atto introduttivo del giudizio), che appunto, per l’ipotesi di impresa individuale di uno dei coniugi, costituita dopo il matrimonio, come appunto appurato nella fattispecie in esame, prevede che cadano in comunione de residuo i beni destinati all’esercizio dell’impresa, che coincidono con quelli per i quali è stata pronunciata la divisione.
La subordinazione della richiesta poi accolta all’ipotesi in cui fosse accertato che in realtà l’impresa era gestita unicamente dal convenuto, come appunto avvenuto, rende evidente, al di là di qualche imprecisione terminologica, che la domanda de qua fosse appunto rivolta alla divisione della comunione venutasi a creare sui beni oggetto della comunione de residuo, e quindi sui beni destinati all’esercizio dell’impresa costituita in epoca successiva al matrimonio (e ciò con modalità rispettose del principio secondo cui il coniuge non imprenditore, in caso di comunione de residuo, vanta solo un diritto di credito – Cass. S.U. n. 15889/2022 – essendo stata liquidata all’attrice solo una quota in denaro).
A tali considerazioni deve poi aggiungersi che, ancorché l’azienda, quale complesso dei beni organizzati per l’esercizio dell’impresa, debba essere considerata come un bene distinto dai singoli elementi, suscettibile di essere unitariamente posseduto e, nel concorso degli altri elementi indicati dalla legge, usucapito (Cass. S.U. n. 5087/2014), evidentemente ricomprende anche tutte le componenti attraverso le quali viene ad essere esercitata l’attività di impresa, e quindi anche quei beni dei quali l’imprenditore abbia la proprietà e che, quindi, siano inseriti ed utilizzati nell’azienda vantando un titolo proprietario.
In tal caso rivendicare la titolarità dell’azienda o, come in questo caso, la comproprietà della stessa implica anche che sia pretesa la titolarità dei beni nella medesima inseriti, di tal che, a fronte dell’originaria pretesa di essere riconosciuta comproprietaria dell’intero complesso aziendale, la successiva richiesta di attribuzione della comproprietà solo dei beni destinati all’esercizio dell’impresa al più si configura come una riduzione dell’originaria domanda, da reputarsi comunque ammissibile anche in sede di precisazione delle conclusioni (cfr. Cass. S.U. n. 3453/2024, a mente della quale, anche nel giudizio di appello la parte può sempre rinunciare alla domanda, o a parti di essa, anche dopo la precisazione delle conclusioni, perché la restrizione del thema decidendum, a differenza dell’estensione, è sempre permessa, in quanto il principio dispositivo, secondo cui la parte è sovrana delle scelte difensive e delle domande poste al giudice, prevale sugli effetti che esso produce nei confronti delle altre parti, presentando il sistema idonee modalità procedurali per assicurare il pieno rispetto del contraddittorio e del diritto di difesa).
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6. Rispetto all’esame degli altri motivi di ricorso principale, si impone, in base all’ordine logico delle questioni, la preventiva disamina dei motivi di ricorso incidentale.
Il primo motivo di ricorso incidentale denuncia la violazione degli artt. 230-bis, 1218 e 2697 c.c., nonché dell’art. 5 del D.P.R. n. 597/73, come sostituito dall’art. 5, co. 4, del D.P.R. n. 917/1986, in relazione al rigetto dell’appello incidentale della Ma.Ma., concernente la mancata liquidazione degli utili maturati per il periodo di collaborazione prestata all’interno dell’impresa familiare.
Si deduce che, pur avendo i giudici di merito ritenuto provata la collaborazione prestata dall’attrice dal 1989 al 2003, la domanda de qua è stata rigettata sul presupposto che non fosse stato adempiuto l’onere probatorio che le incombeva, e che quindi non fosse stata fornita la prova degli utili maturati né del fatto che alcuna somma le fosse stata versata dal marito.
Una volta esclusa la cogestione dell’impresa costituita successivamente al matrimonio, e ritenuto che si trattasse di un’impresa familiare nella quale l’attrice aveva prestato la personale attività lavorativa, alla luce del contenuto dell’atto costitutivo dell’impresa familiare del 22 dicembre 1989, si evidenzia che in tale atto era previsto che l’utile sarebbe stato ripartito tra i due coniugi “in proporzione alla quantità e qualità del lavoro da ciascuno effettivamente apportato in modo continuativo e prevalente a norma dell’art. 5 D.P.R. 29/9/1973 n. 597”.
Tale ultima norma è stata poi sostituita dall’art. 5, co. 4, del D.P.R. n. 917/86 che prevede che i redditi delle imprese familiari, limitatamente al 49% dell’ammontare risultante dalla dichiarazione annuale dell’imprenditore, possono essere imputati a ciascun familiare, proporzionalmente alla sua quota di partecipazione.
Dalle dichiarazioni dei redditi prodotte nel corso del giudizio di primo grado erano emersi i redditi attribuiti per la quota in genere del 49 % alla ricorrente incidentale, ed era stata quindi determinata la quota di utili non percetti tenendo proprio conto delle dichiarazioni dei redditi fatte predisporre unilateralmente da parte del convenuto.
Tali dati erano poi stati verificati anche dal CTU nominato in corso di causa, che aveva effettivamente riscontrato che la quota di utili lordi spettanti alla Ma.Ma. sulla base delle dichiarazioni fiscali prodotte in atti era pari all’importo oggetto della domanda attorea.
Deve perciò reputarsi che sia stata offerta la prova degli utili prodotti dall’impresa familiare, essendo stato assolto il relativo onere probatorio, e non potendosi porre a carico della ricorrente incidentale anche la prova del fatto che tali utili non le siano stati versati.
Il secondo motivo del ricorso incidentale denuncia la violazione degli artt. 2730, 2733, 2734 c.c., nonché 116, 228 e 230 C.P.C., nella parte in cui la Corte d’Appello ha negato che l’attrice avesse assolto all’onere probatorio circa la mancata percezione degli utili.
Si evidenzia che in sede di interrogatorio formale lo Sg.Ma. aveva riferito che non versava alcuna somma mensilmente alla moglie, la quale accedeva liberamente alla cassa dell’attività. Trattasi però di dichiarazione che non consente di affermare che i soldi siano stati effettivamente prelevati, come confermato dalla deposizione di altra teste che ha riferito che il contante incassato era utilizzato solo per pagare i fornitori e dietro autorizzazione delloSg.Ma. .
Deve, quindi, reputarsi che quest’ultimo abbia confessato di non avere versato la quota di utili spettante all’attrice.
Analogamente risulta oggetto di confessione che tutti gli incassi erano gestiti dal soloSg.Ma., che era l’unico intestatario dei conti correnti sui quali le somme incassate erano riversate.
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Risulta di conseguenza erronea l’affermazione del giudice di appello che ha ritenuto che l’attrice non abbia fornito prova dell’assenza di versamenti in suo favore ad opera del marito. Il terzo motivo del ricorso incidentale denuncia l’omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio oggetto di discussione tra le parti ex art. 360, co. 1, n. 5, C.P.C., sempre in relazione al medesimo capo, in quanto la Corte d’Appello ha omesso di valutare le dichiarazioni dei redditi dalle quali emerge come all’attrice fosse riservata una quota di utili quale compenso per la collaborazione prestata nell’impresa familiare, trascurando altresì le dichiarazioni confessorie rese dal convenuto, in merito agli incassi ed alla loro gestione.
Il quarto motivo del ricorso incidentale denuncia la violazione ed errata applicazione dell’art. 115 C.P.C., per non avere i giudici di merito valutato il materiale probatorio versato in atti, e quindi le dichiarazioni dei redditi relative all’impresa, le dichiarazioni rese in sede di interrogatorio formale dallo Sg.Ma., le deposizioni testimoniali, nonché gli esiti della consulenza tecnica d’ufficio.
Il quinto motivo di ricorso incidentale denuncia la violazione e falsa applicazione dell’art. 132, co. 2, n. 4, C.P.C. per avere la sentenza offerto in parte qua una motivazione meramente apparente, essendo stato apoditticamente affermato che l’attrice non avesse assolto all’onere probatorio che le incombeva, ma senza specificare le ragioni del proprio convincimento, alla luce del compendio probatorio versato in atti.
I motivi, da esaminare congiuntamente per la loro connessione, sono fondati.
Questa Corte ha precisato che l’impresa familiare di cui all’art. 230-bis c.c. appartiene solo al suo titolare, anche nel caso in cui alcuni beni aziendali siano di proprietà di uno dei familiari, in ciò differenziandosi dall’impresa collettiva, come quella coltivatrice, la quale appartiene per quote, eguali o diverse, a più persone, e dalla società, con la quale è incompatibile. L’inesistenza di quote in base alle quali determinare gli utili da distribuire implica che questi ultimi sono assegnati in relazione alla quantità e qualità del lavoro prestato e, in assenza di un patto di distribuzione periodica, non sono naturalmente destinati ad essere ripartiti tra i partecipanti ma al reimpiego nell’azienda o all’acquisto di beni (Cass. n. 24560/2015).
Tuttavia, nel caso in cui il partecipante agisca per ottenere la propria quota di utili, questi ha l’onere di provare la consistenza del patrimonio aziendale e la quota astratta della propria partecipazione, potendo a tal fine ricorrere anche a presunzioni semplici, tra cui la predeterminazione delle quote operata a fini fiscali; sul familiare esercente l’impresa grava invece l’onere di fornire la prova contraria rispetto alle eventuali presunzioni semplici, nonché di dimostrare il pagamento degli utili spettanti “pro quota” a ciascun partecipante (Cass. n. 27966/2018; Cass. n. 5224/2016, che fa proprio riferimento alla predeterminazione della distribuzione, ai sensi dell’art. 9 della L. n. 576 del 1975; Cass. n. 9683/2003).
Alla luce di tali principi, si palesa evidentemente erronea l’affermazione del giudice di appello che ha reputato che non fosse stata offerta la prova né dell’ammontare degli utili, né della quota spettante all’attrice né che alcuna somma le fosse stata versata.
Le dichiarazioni fiscali prodotte, come evidenziato, costituiscono un elemento presuntivo dal quale poter inferire la prova sia dell’ammontare degli utili prodotti sia della misura in cui gli stessi fossero stati riservati al familiare collaboratore, così che, una volta offerta tale prova, ancorché tramite il ricorso a presunzioni semplici, era poi onere del familiare imprenditore documentare che la quota di utili spettanti al familiare non imprenditore fosse stata effettivamente corrisposta.
La sentenza impugnata, peraltro in maniera sostanzialmente immotivata, ha proceduto ad un’indebita inversione dell’onere probatorio, trasferendo sulla ricorrente incidentale la prova di fatti che invece spettava alla controparte provare, tenuto conto della documentazione fiscale idonea ad ingenerare una ragionevole presunzione sia in ordine al quantum degli utili prodotti, sia in merito alla percentuale riservata alla moglie quale compenso per la collaborazione prestata.
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La sentenza deve pertanto essere cassata in parte qua.
7. Il sesto motivo di ricorso incidentale denuncia la violazione e/o errata applicazione degli artt. 1362-1371 e 2113 c.c. nella parte in cui ha affermato l’irrilevanza della “liberatoria” sottoscritta dall’attrice nell’atto per notar Ma. del 31 marzo 2003 con il quale si provvedeva allo scioglimento dell’impresa familiare. Si evidenzia che in realtà tale dichiarazione, avente il seguente tenore “La signora Maria Morena Ma.Ma. rinuncia fin d’ora a ogni e qualsiasi diritto ad ella spettante ai sensi dell’art. 230 bis del Codice Civile, dichiarandosi soddisfatta di ogni sua eventuale pretesa nascente dalla cessata collaborazione”, costituisce una vera e propria rinuncia ai diritti spettanti in base alle previsioni di cui all’art. 230-bis c.c., non potendo quindi essere liquidata come una semplice liberatoria.
Trattandosi, pertanto, di rinuncia, la medesima è sottoposta alla disciplina di cui all’art. 2113 c.c., norma che trova applicazione anche nel caso di parasubordinazione, fenomeno cui viene ricondotto anche il rapporto che si instaura all’interno dell’impresa familiare.
Nella specie, l’attrice aveva impugnato detta rinuncia con la raccomandata del 4 agosto 2003, chiedendone l’annullamento ovvero l’accertamento della nullità.
Il settimo motivo del ricorso incidentale denuncia la violazione o errata applicazione dell’art. 2969 c.c. nella parte in cui il giudice di appello ha affermato che, anche a voler ricondurre tale dichiarazione nel novero delle rinunce ex art. 2113 c.c., la sua impugnazione era stata avanzata tardivamente ai sensi del secondo comma dell’articolo de quo.
Si rileva che la decadenza posta dalla norma è correlata al decorso di sei mesi dalla cessazione del rapporto, ma costituisce oggetto di un’eccezione in senso stretto, non essendo quindi rilevabile d’ufficio dal giudice.
Nella vicenda in esame, lo Sg.Ma. non aveva sollevato alcuna eccezione di decadenza nella comparsa di risposta, essendone quindi precluso il rilievo della tardività alla Corte d’Appello.
L’ottavo motivo di ricorso incidentale lamenta la violazione e/o errata applicazione degli artt. 112 e 167 C.P.C. in quanto, in assenza di una tempestiva eccezione del convenuto circa la tardiva impugnazione della rinuncia, la Corte d’Appello ha deciso in realtà su di un’eccezione mai sollevata.
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Il nono motivo di ricorso incidentale denuncia la violazione degli artt. 2113 e 2733 c.c., 115 co. 1 e 116 co. 1 C.P.C., in quanto è stata ravvisata la tardività dell’impugnazione senza tenere conto del fatto che l’attrice aveva prestato la propria attività lavorativa nell’impresa familiare fino al mese di maggio del 2003, e cioè sino a quando lo Sg.Ma. le richiese la restituzione delle chiavi del locale ove era svolta l’attività imprenditoriale.
Tale circostanza è comprovata dalle dichiarazioni rese dal convenuto in sede di interrogatorio formale, con la conseguenza che deve escludersi la tardività dell’impugnazione. Il decimo motivo di ricorso incidentale denuncia l’omesso esame circa un fatto decisivo che è stato oggetto di discussione tra le parti ex art. 360, co. 1, n. 5, C.P.C., sempre in relazione alla data di cessazione dell’attività lavorativa, in quanto la Corte d’Appello non ha considerato le dichiarazioni confessorie della controparte, nonché la deposizione resa dalla sorella dell’attrice, confermative del fatto che l’attività è proseguita anche nella primavera del 2003.
L’undicesimo motivo di ricorso incidentale lamenta la violazione e/o errata applicazione dell’art. 115, co. 1, C.P.C. nella parte in cui la Corte d’Appello ha reputato che il rapporto collaborativo dell’attrice fosse cessato in coincidenza con l’atto per notar Ma. del 3 gennaio 2003, con il quale era stata sciolta l’impresa familiare, trascurando il materiale probatorio che invece permetteva di affermare che la collaborazione fosse proseguita anche successivamente e fosse durata sino al mese di maggio del 2003, rendendo quindi tempestiva l’impugnazione della rinuncia effettuata con la missiva del 4/8/2003.
I motivi, da esaminare congiuntamente per la loro connessione, sono fondati.
Rileva il Collegio che la Corte d’Appello, senza profondersi sull’esegesi della dichiarazione resa dall’attrice nell’atto del 3 gennaio 2003, ha soffermato la sua attenzione sulla intempestività della sua impugnazione.
Ha, infatti, reputato che, anche a voler ricondurre la dichiarazione nel novero delle rinunce di cui all’art. 2113 c.c., era precluso l’esame della sua impugnazione stante la sua tardiva formulazione, risalendo la cessazione della collaborazione alla data in cui era stata redatta (30/01/2003).
Ritiene il Collegio che sia risolutiva ai fini dell’accoglimento delle censure della ricorrente incidentale la deduzione secondo cui i giudici di merito avrebbero rilevato la tardività dell’impugnazione in assenza di una tempestiva eccezione da parte dell’attore.
Ancorché esuli dal novero delle questioni sottoposte a questo giudice quella relativa alla necessità di riservare la controversia de qua alla cognizione del giudice del lavoro, la costante giurisprudenza di questa Corte ha affermato che le controversie aventi ad oggetto i diritti patrimoniali riconosciuti ai familiari dall’art. 230-bis c.c. appartengono alla competenza per materia del pretore in funzione di giudice del lavoro, a norma dell’art. 409, n.3, cod. proc. civ., vertendosi in tema di collaborazione tra i diversi componenti della famiglia, ed attesa la sussistenza del carattere della parasubordinazione nell’attività svolta dai medesimi (Cass. n. 5875/1997; Cass. n. 6060/1996; Cass. n. 11374/1995).
Alla riconduzione del rapporto di collaborazione nel novero dei rapporti di subordinazione si riconnette poi anche l’applicazione alle eventuali rinunce dell’art. 2113 c.c., essendo stato precisato che la disciplina delle rinunzie e transazioni dettate dall’art. 2113 cod. civ., è applicabile anche ai rapporti dei lavoratori cosiddetti parasubordinati, considerati nell’art. 409, n. 3, cod. proc. civ. (Cass. n. 7111/1995; Cass. n. 7550/1987).
Come ulteriore conseguenza deve poi richiamarsi il principio per cui la decadenza del lavoratore dal diritto d’impugnare una rinuncia ai sensi dell’art. 2113 cod. civ. (sostituito dall’art. 6 della legge n. 533 del 1973) costituisce oggetto di una eccezione propria – cui si applicano le preclusioni degli artt. 416 e 437 cod. proc. civ. – e non può essere dichiarata d’ufficio (art. 2969 cod. civ.), non concernendo una materia sottratta alla disponibilità delle parti ma solo l’osservanza di norme inderogabili poste a tutela del trattamento minimo garantito (Cass. n. 13466/2004; Cass. n. 7550/1987).
In tema di impresa familiare il partecipante che agisce per ottenere la propria quota e l’onere della prova
In assenza di una tempestiva eccezione di decadenza formulata dal titolare dell’impresa individuale, ne consegue che il giudice di merito non poteva rilevarne la tardività, a nulla rilevando anche l’eventuale accettazione del contraddittorio, essendo quella delle preclusioni materia sottratta alla disponibilità delle parti (Cass. n. 24040/2019; Cass. n. 17121/2020, con specifico riferimento al regime delle eccezioni in senso stretto).
Anche tali motivi devono quindi essere accolti, e la sentenza deve essere cassata nella parte in cui la attingono.
8. In ragione della cassazione della sentenza di appello, restano assorbiti il secondo ed il terzo motivo di ricorso principale che lamentano, il primo, la violazione degli artt. 91 e 92 C.P.C., quanto alla valutazione di soccombenza del ricorrente principale, ed il secondo, la violazione degli artt. 91 e 92 C.P.C., quanto alla decisione del giudice di appello di confermare la compensazione delle spese di lite nei rapporti tra l’attrice e la Sg. Srl .
9. Il giudice di rinvio che si designa nella Corte d’Appello di Bologna in diversa composizione, provvederà anche sulle spese del presente giudizio.
P.Q.M.
La Corte accoglie il ricorso incidentale, nei limiti di cui in motivazione, rigetta il primo motivo del ricorso principale e dichiara assorbiti gli altri due motivi; cassa la sentenza impugnata in relazione ai motivi accolti e nei limiti di cui in motivazione, con rinvio alla Corte d’Appello di Bologna, in diversa composizione, che provvederà anche sulle spese del presente giudizio.
Così deciso nella camera di consiglio del 23 maggio 2024.
Depositato in Cancelleria il 29 maggio 2024.
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