Corte di Cassazione, civile, Ordinanza|23 febbraio 2024| n. 4821.
Il recesso da una società di persone è un atto unilaterale recettizio
Il recesso da una società di persone è un atto unilaterale recettizio e, pertanto, la liquidazione della quota non è una condizione sospensiva del medesimo, ma un effetto stabilito dalla legge, con la conseguenza che il socio, una volta comunicato il recesso alla società, perde lo “status socii” nonché il diritto agli utili, anche se non ha ancora ottenuto la liquidazione della quota, e non sono a lui opponibili le successive vicende societarie. Infatti, trattandosi di una dichiarazione recettizia, a cui si rende applicabile l’art. 1334 cod. civ., la dichiarazione di recesso del socio produce i suoi effetti nel momento in cui la volontà del socio di sciogliersi dal vincolo societario viene portata a conoscenza della società, di modo che a seguito di essa, il rapporto sociale si scioglie limitatamente alla posizione del recedente, che perde la qualifica di socio, cessa di essere obbligato in relazione alle future obbligazioni che dovessero gravare sulla società (art. 2290 cod. civ.) e diviene titolare nei confronti di questa di un diritto di credito alla liquidazione della quota
Ordinanza|23 febbraio 2024| n. 4821. Il recesso da una società di persone è un atto unilaterale recettizio
Data udienza 25 settembre 2023
Integrale
Tag/parola chiave: Società di persone – Scioglimento del singolo rapporto sociale – Recesso del socio – Qualificazione – Natura di atto unilaterale recettizio – Conservazione dello “status socii” – Esclusione – Conseguenze – Azienda agricola – Comunione ereditaria – Divisione – Validità degli accordi divisionali – Comunione familiare – Esecuzione delle opere come conguaglio spettante in virtù dell’accordo divisionale – Risarcimento dei danni per il mancato adempimento degli accordi raggiunti
REPUBBLICA ITALIANA
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SECONDA CIVILE
Composta da:
Dott. MANNA Felice – Presidente
Dott. FALASCHI Milena – Consigliere Rel.
Dott. FORTUNATO Giuseppe – Consigliere
Dott. CRISCUOLO Mauro – Consigliere
Dott. ROLFI Federico – Consigliere
ha pronunciato la seguente
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 30488/2018 R.G. proposto da
To.Ca., rappresentato e difeso, con procura speciale allegata al frontespizio del ricorso, dall’avvocato Fa.To. del foro di Brescia e dall’avvocato Da.Bi. del foro di Roma ed elettivamente domiciliato in Roma, via (…), presso lo studio del secondo difensore;
– ricorrente –
contro
La Società Ag. Sas, in persona del legale rappresentante pro tempore, To.Gi. Altri Omessi, rappresentati e difesi, con procura speciale allegata al controricorso, dall’avvocato Ma.Si. del foro di Brescia ed elettivamente domiciliati all’indirizzo PEC del difensore iscritto nel REGINDE;
controricorrenti –
avverso la sentenza della Corte di appello di Brescia n. 1305/2018, pubblicata il 24 luglio 2018 e notificata il 25 luglio 2018.
Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 25 settembre 2023 dal Consigliere Milena Falaschi.
Il recesso da una società di persone è un atto unilaterale recettizio
Osserva in fatto e in diritto
Ritenuto che:
– con atto di citazione notificato il 3 agosto 2010 To.Ca. evocava, dinanzi al Tribunale di Brescia, i fratelli, To.Gi. al fine di sentire accertare la validità degli accordi divisionali intercorsi fra di loro e relativi all’Azienda Agricola familiare, avviata inizialmente dal padre To.Gi. e poi ampliata dai figli, anche se condotta prevalentemente dai convenuti, svolgendo l’attore l’attività di autotrasportatore, ma non mancando egli di riversare per intero nella comunione familiare i proventi del proprio lavoro, cui contribuiva anche con la gestione dell’attività agricola; in particolare, voleva sentire dichiarare la debenza da parte dei convenuti della somma di euro 75.000,00, in aggiunta al valore della quota stabilita come buonuscita, determinata in euro 191.322,03, oltre all’assegnazione dei beni e all’esecuzione delle opere come conguaglio spettante in virtù dell’accordo divisionale del 1°.08.2006, alla corresponsione della quota parte di utili maturati dall’azienda agricola fino al momento della liquidazione e soprattutto al risarcimento dei danni per il mancato adempimento degli accordi raggiunti, azione di responsabilità il cui giudizio era ancora pendente in Corte di appello;
– con successivo atto di citazione notificato il 28 novembre 2011 la Società Ag. s.s., nonché i soci personalmente, To.Gi. evocavano, dinanzi al Tribunale di Brescia, il fratello To.Ca., chiedendo che venisse accertato e dichiarato che il convenuto aveva percepito da parte degli attori, e trattenuto a titolo di liquidazione della propria quota della Soc. Agricola, la complessiva somma di euro 328.562,24 a fronte di un credito di euro 328.327,00 e che nulla più fosse dovuto;
– instaurato regolare contraddittorio solo nel secondo giudizio (per essere stata nel primo dichiarata la nullità della domanda ex art. 164, comma 4 c.p.c.), nella resistenza del convenuto, che proponeva anche domanda riconvenzionale ex art. 1337 c.c. per essere stato estromesso dai fratelli dalla gestione della propria quota aziendale dal 30.03.2007, il giudice adito, espletata CTU, con sentenza n. 1685/2015, respingeva sia le domande attoree sia quella riconvenzionale, con compensazione delle spese di lite;
-sul gravame interposto da To.Ca., la Corte di appello di Brescia, nella resistenza dell’appellata società, rimasti contumaci i soci, con sentenza n. 1305 del 2018, rigettava l’appello e per l’effetto confermava la sentenza di primo grado, con condanna dell’appellante al pagamento delle spese di lite. A sostegno della decisione adottata il Giudice di secondo grado osservava che il giudice di prime cure aveva escluso la litispendenza o la continenza con il giudizio introdotto da To.Ca., per non essere al momento della pronuncia ancora pendente alcun valido giudizio (atto di citazione nullo ex art. 164 c.p.c.), e dichiarato inammissibile la domanda riconvenzionale di divisione immobiliare ai sensi dell’art. 36 c.p.c., in quanto eccedente la tematica della liquidazione della quota sociale. Inoltre, era stato rilevato che il recesso del socio e la liquidazione della sua quota costituivano domande autonome e non poteva prospettarsi che dalla seconda dipendesse la validità e l’efficacia del primo, anche tenendo conto che To.Ca. aveva percepito euro 309.374,12 in conto della liquidazione quota e che nel verbale di assemblea del 30.03.2007 era stato deliberato di revocare la messa in liquidazione della società e di “accettare il recesso del socio To.Ca.”; e che all'”accettazione del recesso” aveva fatto seguito l’esecuzione del programma finanziario, non corrisposta la buonuscita di euro 75.000,00 in quanto condizionata alla definizione di tutti i rapporti patrimoniali tra fratelli mai formalizzata, in relazione alla quale era stato introdotto l’altro giudizio pendente, con conseguente infondatezza della relativa domanda.
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Il giudice di primo grado, inoltre, aveva accertato che il valore della quota sociale era maggiore rispetto a quello indicato dai periti incaricati dalle parti e pari ad euro 353.818,45, per cui la domanda attorea di accertamento negativo era da ritenere infondata, per essere stata versata al convenuto a mezzo di bonifico la minore somma di euro 309.374,12, oltre ad euro 13.674,10 a mezzo del trasferimento di titoli PAC, non imputabili a tal fine i prelievi effettuati dal convenuto di euro 5.509,78.
Nel condividere la statuizione del Tribunale secondo cui la tematica relativa agli accordi divisionali fosse estranea al thema decidendum del presente giudizio, riguardando la domanda proposta con separato atto di citazione, al pari delle molteplici domande riconvenzionali, confermava che la cognizione doveva essere limitata alla questione del recesso del socio e alla liquidazione della relativa quota. In siffatto ambito trovava applicazione la clausola di cui all’art. 11 dello Statuto sociale, relativa all’ipotesi di decesso del socio. Del resto, tutti gli invocati accordi divisionali, riguardanti peraltro anche il patrimonio immobiliare, non erano stati mai formalizzati. Aggiungeva che l’accettazione del recesso del socio costituiva atto a forma libera ed emergeva dal verbale di assemblea (totalitaria) del 30.03.2007 con efficacia immediata, anche per la corresponsione di euro 309.374,12.
Condivise le conclusioni del c.t.u. quanto alla quantificazione del valore della quota, la Corte distrettuale rilevava che la doglianza relativa alla mancata ammissione dei capitoli di prova era infondata alla luce degli argomenti esposti con riferimento all’esame delle domande, e comunque inammissibile per non avere l’appellante trascritto gli stessi. Concludeva che la domanda di pagamento del saldo di liquidazione della quota accertata come dovuta non era stata formulata, né nella comparsa di costituzione né nella memoria ex art. 183, comma 6 n. 1 c.p.c.
– avverso la sentenza della Corte di appello di Brescia ricorre To.Ca., sulla base di due motivi, cui hanno resistito con controricorso la Ag. Sas con i soci To.Gi.;
– in prossimità dell’adunanza camerale i controricorrenti hanno curato anche il deposito di memoria ex art. 380 bis.1 c.p.c.
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Considerato che:
– con il primo motivo il ricorrente deduce la nullità della sentenza e la violazione e la falsa applicazione degli artt. 342 e 112 c.p.c., ai sensi dell’art. 360 n. 4 c.p.c., oltre a vizio di motivazione per avere la Corte di merito omesso di esaminare i motivi di impugnazione. Violazione ed errata applicazione dell’art. 1362 c.c. e seguenti in relazione all’art. 1324 c.c. Nella sostanza il ricorrente lamenta che il Giudice del gravame avrebbe omesso di esaminare la sua contestazione circa l’avere il giudice di prime cure mancato di statuire sulla sua domanda di condanna della controparte al risarcimento del danno procurato sia per violazione dell’art. 1337 c.c. sia per l’occupazione perpetrata dai fratelli della sua quota di beni aziendali. Aggiunge che la controparte nei propri atti di causa avrebbe cercato di sminuire la questione relativa alla mancata costruzione del capannone ovvero alla sottoscrizione congiunta della domanda di concessione edilizia per la sua edificazione, inadempimento che avrebbe comportato danni ingenti al ricorrente “ingabbiato” in presunti accordi che non avevano consentito l’avviamento della nuova impresa con i figli. Ad avviso del ricorrente la Corte distrettuale, nel condividere la pronuncia di primo grado che aveva reputato la questione estranea all’oggetto di causa come logica conseguenza della premessa costituita dalla delimitazione del thema decidendum alle sole domande inerenti alla liquidazione della quota, aveva omesso di trattare questioni sicuramente connesse con la materia del contendere. Da cui conseguiva – sempre secondo il ricorrente – un vizio di motivazione sull’interpretazione della domanda.
Nel merito, il ricorrente ribadisce che il suo recesso dalla compagine societaria costituiva solo un tassello dell’intera definizione di tutti gli interessi in comune, definizione che, tuttavia, non veniva effettuata a seguito dell’interruzione di ogni adempimento da parte degli appellati, per cui il recesso del ricorrente doveva essere ritenuto un recesso condizionato al complessivo adempimento di tutti i punti degli accordi divisionali raggiunti con i fratelli.
La censura è infondata.
La questione che viene posta dalla doglianza presuppone preliminarmente che vengano definiti i limiti dell’indagine che il giudice di legittimità è chiamato a compiere in presenza della denuncia di vizi che, come nella specie, attengono alla corretta applicazione di norme da cui è disciplinato il processo che ha condotto alla decisione del giudice di merito; ma, al tempo stesso, comportano anche la verifica del modo in cui uno o più atti di quel processo sono stati intesi e motivatamente valutati da parte dello stesso giudice di merito.
Il principio, assolutamente consolidato, secondo il quale, in caso di denuncia di errores in procedendo del giudice di merito, la Corte di cassazione è anche giudice del fatto (inteso qui, ovviamente, come fatto processuale) ed è perciò investita del potere di procedere direttamente all’esame ed alla valutazione degli atti del processo di merito (si vedano tra le altre, a mero titolo d’esempio, Cass. n. 14098 del 2009, n. 11039 del 2006, n. 15859 del 2002 e n. 6526 del 2002), non sempre si armonizza agevolmente con l’affermazione, pure assai frequente, che assegna in via esclusiva al giudice di merito il compito di qualificare le domande e d’interpretare gli atti processuali di parte, e quindi d’individuarne il significato ed il contenuto giuridico, circoscrivendo il sindacato della Cassazione ai soli eventuali vizi di motivazione nei quali detto giudice di merito sia eventualmente incorso nell’espletamento di tale compito (v. Cass. n. 5876 del 2011; Cass. n. 20373 del 2008; Cass. n. 7074 del 2005 e Cass. n. 19416 del 2004; ma si veda anche Cass. n. 9471 del 2004, che ha ammesso la possibilità di esame diretto degli atti di causa ad opera della Suprema corte al fine di stabilire se l’errore processuale in cui sia eventualmente incorso il giudice di merito abbia dato luogo ad un vizio di motivazione nell’interpretazione del contenuto della domanda). In particolare, con riferimento all’ipotesi, come quella in esame, di errata qualificazione della domanda e di omessa pronuncia su capi della stessa che si assumono correttamente formulati, si è in presenza di un “error in procedendo”, con la conseguenza che spetta al giudice di legittimità il potere-dovere di procedere direttamente all’esame e alla interpretazione degli atti processuali e, in particolare, delle istanze e delle deduzioni delle parti (Cass., 14 marzo 2006, n. 5442).
Il recesso da una società di persone è un atto unilaterale recettizio
Questi principi sono stati confermati della decisione delle Sezioni Unite di questa Corte che, con la sentenza del 22 maggio 2012, n. 8077, hanno affermato che, in tutti i casi accomunati dalla natura processuale del vizio denunciato dal ricorrente e dalla sua interdipendenza con l’interpretazione da dare ad una domanda o ad un’eccezione di parte, l’oggetto dello scrutinio del giudice di legittimità (a differenza di quel che accade con riferimento agli errores in iudicando denunciati a norma dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3), non è costituito dal contenuto della decisione formulata nella sentenza, bensì direttamente dal modo in cui il processo si è svolto, ossia dai fatti processuali che quel vizio possono aver provocato. È perciò del tutto naturale che la Corte di cassazione debba prendere essa stessa cognizione di quei fatti, sempre che la censura sia proposta dal ricorrente in conformità “alle regole di ammissibilità e di procedibilità stabilite dal codice di rito, in nulla derogate dall’estensione ai profili di fatto del potere cognitivo della corte”, e quindi anche nel rispetto del principio di autosufficienza del ricorso per cassazione (Cass. Sez. Un. n. 8077/2012 cit.). Alla luce di questi chiari ed autorevoli principi, compete a questa Corte l’esame degli atti, nei limiti in cui essi sono stati compiutamente portati alla cognizione del Collegio.
Alla luce dei suddetti principi, deve osservarsi che è lo stesso ricorrente ad affermare che si tratta di domanda implicitamente e tacitamente avanzata (v. pag. 38 e 50-51 del ricorso) da riferirsi a responsabilità precontrattuale.
Orbene dall’esame degli atti emerge evidente che il giudizio è stato instaurato dall’Azienda agricola e dai suoi associati nei confronti di To.Ca. per ottenere un accertamento (negativo) sull’entità della quota sociale di spettanza del fratello, cui quest’ultimo ha contrapposto domanda riconvenzionale per essere stato estromesso dall’azienda di famiglia a far tempo dal 30.03.2007, pur essendone egli ancora comproprietario, non perfezionato il suo recesso.
Come sottolineato dalla corte distrettuale e non contestato dal ricorrente, a nulla rilevando la circostanza dedotta di non avere precisato il tipo di responsabilità posto a fondamento della domanda, il thema decidendum era stato correttamente limitato dal giudice di prime cure a siffatte domande, con esclusione di tutta la tematica relativa agli accordi divisionali, oggetto dell’altro giudizio, ancora pendente, statuizione sulla quale il ricorrente risulta non avere mosso alcuna critica con l’atto d’appello. Né in sede di legittimità chiarisce quali obblighi, non esaminati dai giudici di merito, sarebbero stati violati dai soci in suo danno.
Il recesso da una società di persone è un atto unilaterale recettizio
Ciò soprattutto se si tiene conto del consolidato orientamento di questa Corte (da ultimo ribadito da Cass. 8 marzo 2013 n. 5836) secondo cui “il recesso da una società di persone è un atto unilaterale recettizio, e, pertanto, la liquidazione della quota non è una condizione sospensiva del medesimo, ma un effetto stabilito dalla legge, con la conseguenza che il socio, una volta comunicato il recesso alla società, perde lo “status sodi” nonché il diritto agli utili, anche se non ha ancora ottenuto la liquidazione della quota”. Infatti, trattandosi di una dichiarazione recettizia, a cui si rende applicabile l’art. 1334 c.c., la dichiarazione di recesso del socio produce i suoi effetti nel momento in cui la volontà del socio di sciogliersi dal vincolo societario viene portata a conoscenza della società (Cass. 24 settembre 2009 n. 20544), di modo che a seguito di essa, il rapporto sociale si scioglie limitatamente alla posizione del recedente, che perde la qualifica di socio, cessa di essere obbligato in relazione alle future obbligazioni che dovessero gravare sulla società (art. 2290 c.c.) e diviene titolare nei confronti di questa di un diritto di credito alla liquidazione della quota (Cass. 23 ottobre 2001 n. 22574).
La circostanza, dunque, che per effetto della comunicazione di recesso il rapporto sociale tra il socio e la società si sciolga hinc et inde e che si caduca perciò a far tempo dalla sua conoscenza da parte della società ogni vincolo nascente dal rapporto pregresso, con eccezione dei soli rapporti obbligatori sorti fino al giorno in cui si verifica lo scioglimento, rende inopponibili al recedente tutte le successive vicende che dovessero interessare la società, sicché sono conseguentemente irrilevanti nei suoi confronti, tra l’altro, i mutamenti che abbiano ad oggetto il suo assetto organizzativo.
Ad avviso del ricorrente, infine, le clausole statutarie sarebbero di contenuto differente rispetto a quello ritenuto dalla Corte territoriale, ma di questa generica diversità nulla espone, non trascrivendone neanche il contenuto;
– con il secondo motivo il ricorrente lamenta la violazione e la falsa applicazione degli artt. 132, 342 e 356 c.p.c. in relazione all’art. 360, comma 1 nn. 3 e 4 c.p.c., oltre ad omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti, ai sensi dell’art. 360, comma 1 n. 5 c.p.c.
Ad avviso del ricorrente, sarebbe erronea la statuizione della Corte distrettuale di avere ritenuto inammissibile il mero rinvio agli atti del giudizio di primo grado quanto all’esame dei capitoli di prova articolati, senza la loro trascrizione. Infatti, costituisce principio noto quello secondo cui l’appello è una revisio prioris instantiae.
Aggiunge che anche con riferimento all’ulteriore argomento di rigetto nel merito, la motivazione è da ritenere solo apparente laddove ha affermato che la doglianza travolta dall’esito dell’esame dei precedenti motivi, dalla Corte ritenuti infondati e relativi alla ribadita necessità di esaminare l’intera operazione di scioglimento dei vincoli patrimoniali e societari tra l’appellante e i fratelli, in proprio e quali soci della Sas
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Il motivo si espone a vari profili di inammissibilità. Anzitutto le critiche prendono di mira nella sostanza le motivazioni della sentenza di primo grado e non quelle della sentenza d’appello quanto alla mancata ammissione delle prove articolate, senza neanche precisare gli argomenti di critica.
In secondo luogo, va ricordato che, secondo principio consolidato nella giurisprudenza di questa Corte e che va qui ribadito, “la parte che si sia vista rigettare dal giudice di primo grado le proprie richieste istruttorie ha l’onere di reiterarle al momento della precisazione delle conclusioni poiché, diversamente, le stesse debbono intendersi rinunciate e non possono essere riproposte in appello; tale onere non è assolto attraverso il richiamo generico al contenuto dei precedenti atti difensivi, atteso che la precisazione delle conclusioni deve avvenire in modo specifico, coerentemente con la funzione sua propria di delineare con precisione il thema sottoposto al giudice e di porre la controparte nella condizione di prendere posizione in ordine alle (sole) richieste – istruttorie e di merito – definitivamente proposte” (Cass. n. 19352 del 2017; v. anche, in precedenza, Cass. n. 16290 del 2016).
Tale onere non si afferma essere stato assolto nel caso di specie, e in ogni caso manca nella doglianza qualsiasi illustrazione della decisività del mezzo di prova di cui si lamenta la mancata ammissione. Infatti, non è in alcun modo indicata l’efficacia causale che si assume abbia avuto la circostanza posta ad oggetto del capitolo di prova, essendo state solo genericamente indicate quali fossero le allegazioni iniziali poste a fondamento della dedotta censura.
Giova al riguardo rammentare che il provvedimento reso sulle richieste istruttorie è, in astratto, censurabile, o per inosservanza di norme processuali o per vizio di motivazione, ma in tale secondo caso solo nei ristretti limiti nei quali è oggi deducibile secondo il ristretto paradigma di cui all’art. 360, comma primo n. 5 c.p.c.
Non può, in via di principio, essere posto in dubbio il rilievo che il diritto alla prova assume quale strumento di un effettivo esercizio del diritto di agire e difendersi in giudizio attraverso un giusto processo (artt. 24 e 111 Cost.; art. 6, par. 1, CEDU) di guisa che la sua violazione, ove per l’appunto si risolva in violazione anche di tali diritti-fine, è certamente censurabile in cassazione ai sensi dell’art. 360, comma 1 n. 4 c.p.c. Una tale violazione è, però, configurabile allorquando il giudice del merito rilevi decadenze o preclusioni insussistenti (cfr. Cass. n. 910 del 1977) ovvero affermi tout court l’inammissibilità del mezzo di prova richiesto per motivi che prescindano da una valutazione, di merito, della sua rilevanza in rapporto al tema controverso ed al compendio delle altre prove richieste o già acquisite; ove invece ci si muova in tale seconda prospettiva, ancorché la decisione del giudice di merito si risolva pur sempre nel rifiuto di ammettere il mezzo di prova richiesto, non viene in rilievo una regola processuale rigorosamente prescritta dal legislatore ma piuttosto – come è stato rilevato – “il potere (del giudice) di operare nel processo scelte discrezionali, che, pur non essendo certamente libere nel fine, lasciano tuttavia al giudice stesso ampio margine nel valutare se e quale attività possa o debba essere svolta” (Cass., Sez. Un., 22 maggio 2012 n. 8077). In tal caso, “la decisione si riferisce, certo, ad un’attività processuale, ma è intrinsecamente ed inscindibilmente intrecciata con una valutazione complessiva dei dati già acquisiti in causa e, in definitiva, della sostanza stessa della lite. Il che spiega perché siffatte scelte siano riservate in via esclusiva al giudice di merito e perché, quindi, pur traducendosi anche esse in un’attività processuale, esse siano suscettibili di essere portate all’attenzione della Corte di cassazione solo per eventuali vizi della motivazione che le ha giustificate, senza che a detta Corte sia consentito sostituirsi al giudice di merito nel compierle” (Cass., Sez. Un., n. 8077/2012, cit.).
Il recesso da una società di persone è un atto unilaterale recettizio
La mancata ammissione della prova pone, dunque, in tale ipotesi, solo un problema di coerenza e completezza della ricostruzione del fatto in rapporto agli elementi probatori offerti dalle parti e può pertanto essere denunciata in sede di legittimità (solo) per vizio di motivazione in ordine all’attitudine dimostrativa di circostanze rilevanti ai fini della decisione (Cass. n. 20693 del 2015; Cass. n. 66 del 2015; Cass. n. 5377 del 2011; Cass. n. 4369 del 1999).
Nel caso di specie si verte, evidentemente, in questa seconda ipotesi e la mancata ammissione delle prove – alla luce delle considerazioni svolte con riferimento al primo mezzo, soprattutto tenendo conto dell’ambito del thema decidendum relativo all’oggetto dedotto in giudizio – che per stessa affermazione di To.Ca. attengono alla disciplina e natura del recesso dal medesimo esercitato (v. pag. 55 del ricorso) non comporta alcun error in procedendo o in iudicando.
In definitiva, alla stregua delle complessive argomentazioni svolte, il ricorso deve essere respinto, con la conseguente condanna del ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio, che si liquidano nei sensi di cui in dispositivo.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater del d.P.R. n. 115 del 2002, occorre dare atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte dello stesso ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma 1-bis dello stesso articolo 13, se dovuto.
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P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso;
condanna il ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio in favore dei controricorrenti che si liquidano in complessivi euro 6.200,00, di cui euro 200,00 per esborsi, oltre a contributo forfettario, iva e cap nella misura e sulle voci come per legge.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater del d.P.R. n. 115 del 2002 dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma 1-bis dello stesso articolo 13, se dovuto.
Così deciso nella camera di consiglio della Seconda Sezione civile in data 25 settembre 2023.
Depositata in Cancelleria il 23 febbraio 2024.
In caso di diffusione omettere le generalità e gli altri dati identificativi dei soggetti interessati nei termini indicati.
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