Suprema Corte di Cassazione
sezione II
sentenza 11 maggio 2016, n. 9639
Svolgimento del processo
Nel 1999 la signora M.G. E. conveniva in giudizio i signori R. e M.R., in proprio e quali legali rappresentati della società EL.DA. di R. R. & C. s.a.s., deducendo, per quanto qui ancora interessa, che la società EL.DA. le aveva offerto per circa 15 anni prestazioni di consulenza e assistenza fiscale; che, a seguito di un controllo, essa attrice aveva rilevato di aver versato alla società l’importo di lire 31.077.850 in eccedenza rispetto a quanto effettivamente dovuto per pagamenti fiscali e previdenziali; che i soci della suddetta società, M.R., R. R. e F. A. erano stati processati per il delitto di truffa e l’attrice, insieme a numerosi altri clienti della società, si era costituita parte civile; che il menzionato procedimento penale si era definito con sentenza di applicazione della pena su richiesta ex art. 444 c.p.p.; che gli imputati avevano versato, a titolo di risarcimento dei danni, la complessiva somma di 600 milioni di lire, ripartita fra le parti civili; che la quota di tale somma attribuita alla signora E. ammontava a lire 3.647.956. Sulla scorta di tali premesse la signora E. chiedeva la condanna dei convenuti al pagamento della suddetta somma di lire 27.428.524 , oltre interessi e risarcimento del danno morale. Il tribunale condannava i convenuti al pagamento di E 14.181,70, oltre interessi e spese. La sentenza di primo grado veniva appellata dai convenuti nonché, ìn via incidentale, dalla stessa attrice la quale chiedeva il risarcimento anche per il danno morale, escluso dal primo giudice in ragione del mancato accertamento del reato in sede penale. La Corte di appello di Genova ha respinto 1′ appello principale ed ha accolto quello incidentale. Avverso la sentenza di appello i signori R. e M. R. e la società EL.DA. S.a.s., hanno proposto ricorso per cassazione articolato su sette motivi.
La signora E. ha notificato controricorso.
I ricorrenti hanno depositato memoria illustrativa.
Il ricorso è stato discusso alla pubblica udienza del 25.1.16 nella quale il Procuratore Generale ha concluso come in epigrafe.
Motivi delle decisioni
Con il primo motivo, riferito all’articolo 360 n. 5 c.p.c., i ricorrenti censurano la statuizione con cui la Corte distrettuale ha disatteso l’eccezione di inammissibilità ex art. 246 c.p.c. della testimonianza del signor F. A., sulla quale il primo giudice aveva basato la ricostruzione dei fatti posti a base della propria decisione, poi confermata in appello. Al riguardo, nella sentenza gravata si argomenta che “la capacità a testimoniare del teste A. non e stato oggetto di tempestiva contestazione in primo grado e non può più essere contestata”. Nel mezzo di ricorso si deduce che, contrariamente a quanto ritenuto dal giudice di secondo grado, l’eccezione di inammissibilità del teste A. era stata sollevata in prime cure nella memoria ex art. 184 c.p.c. e reiterata nell’atto di appello.
Il motivo – che, ancorché rubricato con riferimento all’articolo 360 n. 5 c.p.c., si risolve nella denuncia di un error in procedendo – va giudicato inammissibile per mancanza di autosufficienza, in quanto si fonda sulla deduzione che i convenuti abbiano eccepito l’inammissibilità del teste A. nella memoria ex articolo 184 c.p.c. e l’abbiano reiterata nell’atto di appello, senza che si deduca che la nullità della deposizione A. fosse stata eccepita subito dopo l’espletamento della prova e riproposta in sede di precisazione delle conclusioni. La deduzione di tali circostanze costituiva onere dei ricorrenti alla stregua del principio affermato da questa Corte nella sentenza n. 23054/09, a cui il Collegio intende dare conferma e seguito, che la nullità di una testimonianza resa da persona incapace ai sensi dell’art. 246 cod. proc. civ, essendo posta a tutela dell’interesse delle parti, è configurabile come una nullità relativa e, in quanto tale, deve essere eccepita subito dopo l’espletamento
della prova, rimanendo altrimenti sanata ai sensi dell’art. 157, secondo comma, c.p.c..
Con il secondo motivo, riferito all’articolo 360 numero 5 c.p.c., i ricorrenti censurano la valutazione di attendibilità del teste A. operata dalla Corte di appello, assumendo che il ragionamento decisorio della stessa sarebbe illogico ed incoerente, non avendo il giudice di secondo grado considerato l’interesse dell’ A. all’esito del giudizio, la sua qualità di socio accomandante, i suoi rapporti con i R.. Il motivo è inammissibile, perché chiede alla Corte di cassazione un riesame delle risultanze istruttorie estraneo all’ambito del giudizio di legittimità.
Con il terzo motivo, riferito all’articolo 360 numero 5 c.p.c., i ricorrenti denunciano il vizio di omessa motivazione circa il fatto controverso e decisivo della prova dei versamenti effettuati dalla signora E.. Si argomenta nel ricorso che “qualora il giudice di seconde cure avesse correttamente vagliato le risultanze istruttorie, senza peraltro fermarsi alla dichiarazioni di un testimone, l’ A., incapace ex art. 246 c.p.c. e inattendibile avrebbe concluso diversamente riconoscendo la grave carenza di prova connotato di questo giudizio e quindi l’infondatezza della pretesa attorce”. Il motivo va disatteso. In primo luogo va escluso che la Corte distrettuale abbia omesso di motivare il proprio giudizio in ordine al soddisfacimento, da parte della signora E., dell’onere probatorio sulla stessa incombente; al riguardo è sufficiente considerare che l’intero paragrafo 2 della sentenza gravata è dedicato all’illustrazione delle ragioni per le quali la Corte genovese ha ritenuto provato il credito dell’attrice. Ciò premesso, anche in relazione al terzo mezzo di ricorso, la doglianza si risolve in una richiesta di riesame delle risultanze istruttorie che non può trovare ingresso nella giudizio di legittimità.
Con il quarto motivo, riferito all’articolo 360 n. 5 c.p.c., i ricorrenti denunciano il vizio di omessa motivazione circa il fatto controverso e decisivo della natura interamente satisfattiva del versamento che i ricorrenti ebbero ad effettuare, in sede penale, a titolo di risarcimento del danno in favore della signora E. e delle altre parti civili. Al riguardo i ricorrenti lamentano che la Corte territoriale:
a) avrebbe dato per scontato fatti non provati, ossia che il credito dell’attrice fosse maggiore
della quota a lei pervenuta dell’importo di 600 milioni di lire complessivamente versato dai R. alle parti civili costituite in sede penale;
b) avrebbe omesso di considerare come nel verbale 16.6.98 redatto innanzi al pretore di Albenga, nella frase: “gli imputati tramite i loro difensori offrono a titolo di parziale risarcimento del danno la somma di lire 600 milioni ….” la parola “parziale” risulti incasellata e depennata;
e) avrebbe omesso di considerare il comportamento tenuto dalle parti civili (tra cui la sig.ra E.) in sede penale, ossi la duplice circostanza che la stessa, per un verso, accettò ed incassò senza riserve le somme offerte a titolo risarcitorio e, per altro verso, prestò acquiescenza alla sentenza di patteggiamento che aveva riconosciuto agli imputati 1′ attenuante del risarcimento del danno;
d) avrebbe erroneamente valorizzato una quietanza “in acconto” rilasciata dalla E. non agli imputati ma al professionista incaricato della ripartizione tra le parti civili del suddetto importo di 600 milioni di lire complessivamente offerto dagli imputati.
Anche tale motivo va disatteso.
La Corte distrettuale ha motivato con argomenti congrui e pertinenti il proprio giudizio in ordine alla natura non satisfattiva dell’importo ricevuto dalla sig.ra E. in sede penale nei paragrafi 5.2, 5.3 e 5.4 della sentenza gravata. Le critiche mosse dai ricorrenti al ragionamento decisorio svolto in tale sentenza non individuano lacune o vizi logici, ma si risolvono nella inammissibile richiesta al giudice di legittimità di operare una rilettura delle risultanze probatorie diversa da quella dei giudice territoriale e per loro più proficua.
In particolare il Collegio osserva:
– La critica di cui al punto sub a) va respinta in base al rilievo che è la stessa Corte di appello ad accertare l’entità del credito della sig.ra E. in misura superiore all’importo da costei ricevuto in sede penale.
– La critica di cui al punto sub b) va respinta in base al rilievo che il verbale dell’udienza davanti al pretore di Albenga è stato valutato nel paragrafo 5.2 della sentenza gravata e, d’altra parte, rientrava nel potere di valutazione delle risultanze istruttorie proprio dei giudice di merito scegliere se valorizzare il rilievo, sottolineato dai ricorrenti, che in tale verbale la parola “risarcimento ” era preceduta dalla parola “parziale” incasellata e depennata, o valorizzare, come è stato fatto nella sentenza, il rilievo che la parola “risarcimento” non era accompagnata da alcuna “indicazione di ricezione a saldo delle maggiori somme azionate dalle parti civili” (paragrafo 5.2 della sentenza gravata ). Non può quindi aderirsi alla opinione al riguardo espressa nella sentenza di questa Corte n. 11842115, resa in causa analoga alla presente tra gli odierni ricorrenti ed altri danneggiati, secondo cui la cancellazione e depennamento dell’aggettivo “parziale” non lascerebbe spazio a dubbi interpretativi circa la esaustività del risarcimento; opinione, va sottolineato, che non trova riscontro né nella sentenza n. 8421/11 né nella sentenza n. 21985111, pur esse rese in cause analoghe alla presente tra gli odierni ricorrenti ed altri danneggiati.
– La critica di cui al punto sub c) va respinta perché l’argomento dei ricorrenti secondo cui la mancata impugnazione, da parte del danneggiato costituitosi parte civile, della sentenza penale di applicazione della pena su richiesta implicherebbe rinuncia del danneggiato stesso all’esercizio dei propri diritti in sede civile è destituito di giuridico fondamento, come peraltro correttamente evidenziato nell’affermazione che si legge nel paragrafo 5.5 della sentenza gravata secondo cui il “giudizio di adeguatezza del risarcimento ai fini penali non ha, all’evidenza, alcun rilievo in sede civile.”
– La critica di cui al punto sub d) va respinta perché si fonda su un presupposto di fatto – che, cioè, il destinatario della dichiarazione di quietanza in acconto sottoscritta dalla sig.ra E. fosse un fiduciario delle parti civili, incaricato dai relativi difensori dei riparto delle somme cumulativamente versate dagli imputati (pag. 19 del ricorso) – che non emerge dalla sentenza gravata, non può formare di accertamento in questa sede e non si precisa in ricorso in quali atti ed in quali termini sia stato dedotto in sede di merito.
Con il quinto motivo, riferito all’articolo 360 numero 3 c.p.c., i ricorrenti denunciano la violazione falsa applicazione dell’articolo 100 c.p.c., in relazione all’articolo 1965 cc, in cui la Corte territoriale sarebbe incorsa non rilevando la carenza di interesse della sig. E. ad agire in sede civile, nonostante che tra le parti fosse intervenuta transazione. Il motivo è prima di tutto inammissibile, perché propone in sede di legittimità una questione non dedotta in sede di merito. Al riguardo è sufficiente rilevare che gli stralci dell’appello dei ricorrenti trascritti alle pagine 6 e 7 della loro memoria ex articolo 378 c.p.c. deducono la carenza di interesse ad agire della signora E. non in ragione dell’avvenuta conclusione di una transazione, ma perché la stessa sarebbe già stata integralmente soddisfatta col pagamento ricevuto nel corso del giudizio penale. Sotto altro aspetto, comunque, le argomentazioni svolte nel motivo – tendenti a desumere dal comportamento tenuto dalle parti in sede penale la conclusione di una transazione tra le stesse – ricalcano quelle svolte nel motivo precedente per sostenere l’errore motivazionale in cui sarebbe incorsa la sentenza gravata non rilevando che la portata interamente soddisfattiva del pagamento ricevuto dalla signora E. in sede penale e, al pari di quelle, vanno disattese perché si risolvono in una richiesta di rivalutazione de 1 risultanze istruttorie inammissibile in sede di legittimità.
Con il sesto motivo, riferito all’articolo 360 numero 5 c.p.c., si denuncia il vizio di omessa motivazione circa il mancato riconoscimento delle fatture emesse dalla società per l’attività professionale svolta. Anche questo motivo va disatteso perché la Corte distrettuale ha adeguatamente motivato, nei paragrafi da 3_4 a 3.6 le ragioni di fatto del proprio convincimento e la doglianza dei ricorrenti si risolve, ancora una volta, nello sviluppo di considerazioni di puro merito, inammissibili in questa sede.
Con il settimo motivo, riferito all’articolo 360 numero 5 c.p.c., si denuncia il vizio di omessa motivazione circa il riconoscimento in favore della signora E. del danno non patrimoniale. In particolare i ricorrenti lamentano, da un lato, che la Corte d’appello abbia fondato la propria decisione sull’ intervenuta sentenza di applicazione della pena su richiesta, ancorché la stessa non potesse costituire accertamento di responsabilità penale; d’altro lato, che la Corte di appello abbia ritenuto provato il danno morale come sussistente in re ipsa per effetto del reato. In relazione a tali censure i ricorrenti hanno altresì richiamato, nella memoria ex art. 378 c.p.c., la già citata sentenza di questa Corte n. 8421/11 (resa, come detto, in causa analoga alla presente) ove appunto – premessi i condivisibili principi che dalla sentenza di patteggiamento non può farsi discendere la prova dell’ ammissione di responsabilità dell’imputato e che il danno risarcibile ex art. 2059 c.c. è pur sempre un danno conseguenza (il quale, pertanto, deve essere provato da chi ne chiede il risarcimento) – ha cassato con rinvio, per vizi di motivazione, altra sentenza della stessa Corte di appello tra gli odierni ricorrenti ed altri danneggiati.
Il motivo non può trovare accoglimento. La Corte distrettuale ha adeguatamente assolto al proprio onere di motivazione nei paragrafi 6.5 e segg. della sentenza gravata. In tali paragrafi, dopo la corretta affermazione del principio che il giudice civile può accertare autonomamente la sussistenza degli elementi costitutivi del reato (in termini, da ultimo, Cass. 13085/15), si individuano gli elementi di prova delle specifiche condotte illecite, desumendoli sia dallo svolgimento del procedimento penale (paragrafo 6.7) – in conformità alla giurisprudenza di questa Corte secondo la quale la sentenza di patteggiamento, pur non facendo stato nel giudizio civile, contiene pur sempre una ipotesi di responsabilità di cui il giudice di merito non può escludere il rilievo (Cass. 26263111) – sia dagli specifici elementi probatori acquisiti in sede civile (paragrafo 6.8) e sul complesso di tali elementi si fonda il riconoscimento del diritto della persona offesa di vedersi riconosciuto il danno non patrimoniale conseguente alle suddette condotte (paragrafo 6.9). Quanto alla prova di tale danno, va sottolineato che, contrariamente a quanto argomentato nel mezzo di ricorso in esame, la sentenza gravata non considera il danno da reato sussistente in re ipsa, ma, nella specie, ne desume la prova – sulla base di un implicito (e legittimo) ragionamento presuntivo – dall’oggetto giuridico del reato e dell’entità del danno patrimoniale (paragrafo 6.10).
In conclusione, il ricorso va respinto in relazione a tutti i motivi nei quali si articola.
Le spese seguono la soccombenza.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso.
Condanna i ricorrenti a rifondere alla contro ricorrente le spese del giudizio di cassazione, che liquida in euro 3.000,00, oltre E 200,00 per esborsi.
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