Espropriazione parziale il criterio di stima differenziale

Corte di Cassazione, civile, Ordinanza|9 settembre 2024| n. 24122.

Espropriazione parziale il criterio di stima differenziale

In tema di espropriazione parziale, il criterio di stima differenziale, previsto dall’art. 40 della legge n. 2359 del 1865 (recepito dal d.lgs. n. 327 del 2001), è rivolto a garantire che l’indennità di espropriazione riguardi l’intera diminuzione patrimoniale subita dal soggetto passivo del provvedimento ablativo e, quindi, anche il deprezzamento subito dalle parti residue del bene espropriato; tale risultato può essere conseguito detraendo dal valore venale che l’intero cespite aveva prima dell’esproprio il valore successivamente attribuibile alla parte residua (non espropriata), oppure accertando e calcolando detta diminuzione di valore, anziché attraverso tale comparazione diretta, mediante il computo delle singole perdite, ovvero aggiungendo al valore dell’area espropriata quello delle spese e degli oneri che, incidendo sulla parte residua, ne riducono il valore.

 

Ordinanza|9 settembre 2024| n. 24122. Espropriazione parziale il criterio di stima differenziale

Data udienza 19 giugno 2024

Integrale

Tag/parola chiave: Espropriazione per pubblico interesse (o utilita’) – Procedimento – Liquidazione dell’indennita’ – Determinazione (stima) – In genere espropriazione parziale – Criterio di stima differenziale di cui all’art. 40 legge n. 2359 del 1865 – Finalità – Modalità.

REPUBBLICA ITALIANA

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sig.ri Magistrati

Dott. ABETE Luigi – Presidente

Dott. VAROTTI Luciano – Consigliere

Dott. CAIAZZO Rosario – Consigliere Rel.

Dott. D’ORAZIO Luigi – Consigliere

Dott. REGGIANI Eleonora – Consigliere

Ha pronunciato la seguente
ORDINANZA

sul ricorso 5056/2019

proposto da:

PROVINCIA DI SASSARI (c.f. (Omissis)), in persona del legale rappres. p.t., elett.te domiciliati presso l’avv. Cl.Mo., dal quale è rappresentata e difesa, per procura speciale in atti;

– ricorrente –

– contro –

Co.Fe. (c.f. (Omissis)), Co.Ma. (c.f. (Omissis)); Co.An. (c.f. (Omissis)); Cu.Ma. (c.f. (Omissis)); An.An. (c.f. (Omissis)); An.Ca. (c.f. (Omissis)); An.St. (c.f. (Omissis)); An.El. (c.f. (Omissis)); tutti elett.te domiciliati in Roma, via (…), presso l’avv. Ma.Mu., che li rappresenta e difende, per procura speciale in atti;

– controricorrenti –

avverso l’ordinanza n. 3107/18 della Corte d’Appello di Cagliari – Sezione distaccata di Sassari – depositata il 30.11.2018;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 19/06/2024 dal Cons. rel., dott. ROSARIO CAIAZZO.

Espropriazione parziale il criterio di stima differenziale

RILEVATO CHE

Con ricorso ex art. 702 bis c.p.c. depositato il 18.01.2016, Co.Fe., quale procuratore generale di Ga.Gi., Cu.Ma., An.An., An.Ca., An.St. ed An.El. adivano la Corte di appello di Cagliari – sezione distaccata di Sassari – proponendo opposizione alla stima avverso l’indennità di acquisizione sanante ex art. 42 bis del D.P.R. 327/2001, determinata nella somma complessiva di Euro 60.166,60 con delibera del Commissario Straordinario della Provincia di Sassari n. 28 del 08.10.2015, avente ad oggetto i “lavori di realizzazione di un’area verde attrezzata e valorizzazione delle aree circostanti le fonti e la chiesa di S” nel territorio del Comune di B (mappali (Omissis) del foglio (Omissis)).

I ricorrenti denunciavano: a) l’erronea quantificazione del valore venale dell’area nell’irrisorio prezzo di Euro 2,12/mq, nonostante l’effettiva edificabilità dei suoli; b) il mancato riconoscimento di danni ulteriori subiti per l’acquisizione parziale dei mappali, con conseguente discontinuità di quelli rimasti nella loro proprietà, a seguito del provvedimento di acquisizione; c) il mancato riconoscimento dell’indennità per occupazione d’urgenza.

Si costituiva in giudizio la Provincia di Sassari, che insisteva per la congruità e correttezza dell’indennizzo offerto.

Disposta ed espletata consulenza tecnica d’ufficio, con ordinanza n. 3107 del 30.11.2018 la Corte di appello di Cagliari – sezione distaccata di Sassari – in parziale accoglimento dei motivi di opposizione alla stima proposti dagli eredi An., condannava la Provincia di Sassari a corrispondere a questi ultimi la complessiva somma di Euro 334.890,558 (di cui Euro 93.600,78 a titolo di danno patrimoniale, Euro 65.520,54 per il danno da occupazione illegittima, Euro 9.360,078 per danno non patrimoniale ed Euro 166.409,16 da deprezzamento delle porzioni residue), oltre interessi al tasso legale dal 28.10.2015 al saldo e spese legali.

La Corte di appello, riconosciuta la potenziale edificabilità delle aree espropriate, quantificava il valore venale degli immobili oggetto di espropriazione in Euro 8,06/mq, in luogo dei Euro 10/mq stimati dal c.t.u., in applicazione del metodo sintetico-comparativo; inoltre, in adesione alle conclusioni del c.t.u., ricorrendo al metodo del valore differenziale, quantificava il deprezzamento del valore delle superfici relitte dall’acquisizione nella misura del 15%.

Avverso tale sentenza ha proposto ricorso per cassazione la Provincia di Sassari, con quattro motivi, illustrati da memoria.

Resistono con controricorso Co.Fe., Co.Ma., Co.An., nella qualità di eredi della loro madre Ga.Gi., nonché Cu.Ma., An.An., An.Ca., An.St. ed An.El., chiedendo la declaratoria di inammissibilità o il rigetto dell’impugnazione.

Espropriazione parziale il criterio di stima differenziale

RITENUTO CHE

Con il primo motivo di ricorso, proposto ex art. 360 comma 1 n. 5 c.p.c., il ricorrente lamenta l’omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti.

In particolare, la Provincia ricorrente censura la sentenza della Corte di appello laddove ha qualificato edificabile una delle aree espropriate, ossia il mappale (Omissis), omettendo di considerare che su di esso gravava un vincolo archeologico di inedificabilità apposto dall’Amministrazione statale a tutela di un monumento archeologico (l’ipogeo preistorico “(Omissis)”).

Si deduce che, se il giudice avesse esaminato il vincolo archeologico di inedificabilità, avrebbe attribuito al predetto mappale un valore venale inferiore a quello stabilito con l’ordinanza impugnata.

Con il secondo motivo di ricorso, proposto ex art. 360 comma 1 n. 3 c.p.c., il ricorrente denuncia la violazione o falsa applicazione dell’art. 32 comma 1, 37 comma 4, 42-bis comma 3 del Decreto del Presidente della Repubblica 8 giugno 2001 n. 327 (Testo unico in materia di espropriazioni per pubblica utilità).

La Provincia ricorrente denuncia, dunque, l’errata ricostruzione operata dalla Corte di appello in ordine alla quaestio facti, risultato della ritenuta edificabilità del mappale (Omissis), che ha condotto i giudici di merito ad applicare l’art. 37, comma 3, del D.P.R. n. 327/2001, anziché, come sarebbe stato corretto, gli artt. 32, comma 1, 37, comma 4, e 42-bis, comma 3, del medesimo Testo unico, concernenti l’incidenza del vincolo di inedificabilità sulla determinazione dell’indennizzo.

Con il terzo motivo di ricorso, proposto ex art. 360 comma 1 n. 4 c.p.c., la ricorrente lamenta la nullità della sentenza per violazione dell’art. 115 c.p.c., per travisamento della prova. Al riguardo, con riferimento alle aree espropriate non coperte dal vincolo archeologico di inedificabilità (mappali (Omissis)), la ricorrente lamenta il travisamento, ovvero l’errata percezione, da parte della Corte di appello, del parere di congruità, prot. n. (Omissis), utilizzando il quale l’Agenzia del Territorio – Ufficio Provinciale di Sassari – aveva effettuato la stima alla stregua del valore venale di area considerata edificabile.

La ricorrente lamenta, in particolare, che la Corte territoriale ha desunto dal suddetto parere reso dall’Agenzia del Territorio che le aree espropriande erano classificate non edificabili, per cui la loro stima era equivalente al valore agricolo medio.

Espropriazione parziale il criterio di stima differenziale

Con il quarto motivo di ricorso, proposto ex art. 360 comma 1 n. 3 c.p.c., la ricorrente denuncia la violazione o falsa applicazione dell’art. 33 comma 1 del TU del 2001 n. 327, per non aver la Corte d’Appello correttamente utilizzato, in tema di esproprio parziale di un bene unitario, il criterio differenziale quale metodo di calcolo della relativa indennità, che comprende sia il valore della parte espropriata che la diminuzione di valore della parte non espropriata.

Secondo la ricorrente, la Corte di appello non si è attenuta a tale principio, utilizzando il metodo differenziale per determinare esclusivamente il minor valore cagionato al bene residuo dall’esproprio parziale, riconoscendo per ben due volte ai proprietari il valore venale dei suoli effettivamente espropriati, così raddoppiando l’importo di Euro 93.600,78.

Il primo e secondo motivo – esaminabili congiuntamente poiché tra loro connessi – sono infondati.

Va osservato, anzitutto, che il vincolo archeologico, che non sarebbe stato considerato dalla Corte d’Appello, non è propriamente un fatto storico. Sicché non si giustifica la denuncia – veicolata dal primo mezzo – sub specie di “omesso esame”.

Invero, l’art. 360, primo comma, n. 5, cod. proc. civ., riformulato dall’art. 54 del D.L. 22 giugno 2012, n. 83, conv. in legge 7 agosto 2012, n. 134, ha introdotto nell’ordinamento un vizio specifico denunciabile per cassazione, relativo all’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e abbia carattere decisivo (vale a dire che, se esaminato, avrebbe determinato un esito diverso della controversia) (Cass., SU, n. 8053/14; n. 27415/18).

Nella specie, la Corte d’Appello ha effettuato la stima del valore venale del mappale in questione, n. (Omissis), rilevando che all’epoca dell’acquisizione il terreno era inserito in un’area utilizzabile per scopi produttivi e di reddito e non poteva pertanto essere considerato in assoluto inedificabile.

Inoltre, non emerge dagli atti quando e come la ricorrente avrebbe allegato l’invocato vincolo archeologico, dato che si è limitata a rilevare che tale questione era stata segnalata dal suo c.t.p., senza chiarire il tipo e la modalità della stessa.

Pertanto, i motivi in questione non sono specifici, perché non forniscono chiara ed univoca indicazione del riscontro documentale del preteso vincolo, che non può essere affidato ai rilievi del c.t.p. della Provincia, costituenti meri argomenti difensivi; al contempo, il riferimento alla c.t.u. (p. 13 del ricorso) non è integrale e, dunque, al riguardo emerge un difetto di autosufficienza (le note del 13.7.17 sono sempre della stessa Provincia: pag. 15).

D’altra parte, come eccepito dai controricorrenti, la ricorrente non ha neppure prodotto l’atto amministrativo costitutivo del medesimo vincolo, viepiù che l’omesso esame di elemento istruttorio non integra, di per sé, il vizio di omesso esame di un fatto decisivo qualora il fatto storico, rilevante in causa, sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, ancorché la sentenza non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie (Cass., n. 27415/18, cit.).

L’ente ricorrente deduce che l’omesso esame del vincolo archeologico abbia comportato un errore di sussunzione, una falsa applicazione dell’art. 32 TU n. 327/01, perché non si sarebbe tento conto del vincolo conformativo, cioè del vincolo archeologico di inedificabilità.

Sovviene al riguardo l’elaborazione di questa Corte.

Ossia l’insegnamento secondo cui, in materia di espropriazione per pubblica utilità sussiste un indissolubile collegamento tra l’indennità di espropriazione ed il momento del trasferimento della proprietà del bene. Ne consegue che l’ammontare dell’indennità va determinato alla data del provvedimento ablatorio, con riferimento al regime urbanistico vigente, tenendo conto di tutti i vincoli a carattere conformativo, e tra questi del vincolo archeologico, che è idoneo a far classificare il terreno come legalmente non edificabile e comporta una compressione dello “ius aedificandi”, a salvaguardia di interessi pubblici di natura culturale, da ritenersi legittima alla luce della giurisprudenza della Corte EDU e della Corte costituzionale. Tale vincolo, peraltro, non è di ostacolo alla commercialità del bene o a considerarne una redditività diversa da quella del suo sfruttamento meramente agricolo, sicché, ai fini della determinazione dell’indennità di espropriazione, occorre tenere conto delle ulteriori possibili utilizzazioni del fondo, diverse da quelle edificatorie, avendo presente l’incremento di valore determinato dai suoi particolari pregi, anche riconnessi alla natura del vincolo apposto (Cass., n. 10785/14).

Ossia l’insegnamento secondo cui il vincolo di inedificabilità di un’area archeologica non può ritenersi sempre assoluto in astratto, potendosi ipotizzare un’attività edificatoria che non pregiudichi la conservazione dei reperti archeologici esistenti sull’area, fermo restando che il giudice di merito, con apprezzamento in fatto incensurabile in Cassazione, può ritenere il vincolo assoluto in concreto, quando l’interesse archeologico non rimanga circoscritto ad alcuni dei ritrovamenti, ma si correli al luogo nel suo complesso integrando un parco archeologico, inteso quale sede di una pluralità di reperti testimonianti uno specifico assetto storico di insediamento (Cass., n. 205/2020).

Ebbene, nella specie, come sopra esposto, la Corte d’Appello ha effettuato la stima del valore venale del mappale in questione, n. (Omissis), rilevando che all’epoca dell’acquisizione del terreno esso era inserito in un’area utilizzabile per scopi produttivi e di reddito, e non poteva pertanto essere considerato in assoluto inedificabile. La Corte ha dunque tenuto conto del vincolo archeologico, ovvero, comunque, nel quadro di una valutazione complessiva, ha ritenuto che l’area in questione non fosse del tutto inedificabile, con argomentazioni congrue, esaustive, plausibili e non censurabili in questa sede.

Espropriazione parziale il criterio di stima differenziale

Il terzo motivo è inammissibile. La ricorrente lamenta che la Corte d’Appello abbia travisato il contenuto del parere di congruità espresso dall’Agenzia del territorio (come trascritto nel motivo) in ordine al valore di alcuni terreni espropriati, stimati per Euro 2,12 mq, nell’affermare che tale parere fosse fondato su una stima effettuata alla stregua del valore agricolo medio di un’area considerata inedificabile, mentre esso esprimeva il valore di area edificabile, essendo basato sull’indice di fabbricabilità e sulle relative possibilità edificatorie della medesima area.

Al riguardo, la Corte territoriale ha affermato che: l’amministrazione provinciale aveva determinato l’indennità d’acquisizione sulla base del valore di 2,12 al mq, non essendo però chiaro se tale stima esprimesse il valore agricolo del bene, senza trascurare che tale parere facesse riferimento all’art. 5 bis della L. n. 359/92, dichiarato incostituzionale con la sentenza n. 181/2011; tale parere di congruità era stato comunque superato dalla stima effettuata dal c.t.u. attraverso il concetto dell’edificabilità intermedia, posto che le aree espropriate ricadevano in zona G, tra quelle d’interesse generale ove era previsto un indice territoriale massimo di 0,01 mq, relativo alla zona termale, destinata all’epoca – in attesa dell’approvazione di strumento attuativo ancora in corso di elaborazione – a scopi produttivi e di reddito, non potendo dunque essere considerate assolutamente inedificabili.

Pertanto, la valutazione della Corte d’Appello in ordine al contenuto del suddetto parere di congruità non configura alcun travisamento, bensì una valutazione probatoria, insindacabile in sede di legittimità.

Va osservato, peraltro, che il travisamento del contenuto oggettivo della prova – che ricorre in caso di svista concernente il fatto probatorio in sé e non di verifica logica della riconducibilità dell’informazione probatoria al fatto probatorio – trova il suo istituzionale rimedio nell’impugnazione per revocazione per errore di fatto, laddove ricorrano i presupposti richiesti dall’art. 395, n. 4, c.p.c., mentre – se il fatto probatorio ha costituito un punto controverso sul quale la sentenza ebbe a pronunciare e, cioè, se il travisamento rifletta la lettura del fatto probatorio prospettata da una delle parti – il vizio va fatto valere ai sensi dell’art. 360, n. 4, o n. 5, c.p.c., a seconda che si tratti di fatto processuale o sostanziale (Cass., SU, n. 5792/24).

In tema di ricorso per cassazione, ai sensi degli artt. 115 e 360, comma 1, n. 4, c.p.c. possono essere denunciate l’errata percezione e la conseguente utilizzazione, da parte del giudice di merito, di prove inesistenti e, cioè, riferite a fonti che non sono mai state dedotte in giudizio dalle parti oppure, se riferite a fatti o fonti appartenenti al processo, costituite dall’elaborazione di contenuti informativi non riconducibili a dette fonti in alcun modo, neppure in via indiretta o mediata, sempre che tali contenuti informativi abbiano, specularmente interpretati, il carattere della decisività (Cass., n. 37382/22).

Nel caso concreto, alla stregua del citato orientamento di questa Corte, la valutazione che il giudice d’appello ha fatto del suddetto parere di congruità non può essere ricondotta al concetto di “travisamento”, atteso che si tratta di un apprezzamento discrezionale che, comunque, non assume neppure decisività in quanto superato dalla stima, da parte del c.t.u,. dell’effettivo valore venale delle aree in questione.

Espropriazione parziale il criterio di stima differenziale

In definitiva, il motivo non coglie, dunque, la ratio decidendi, dato che il valore a mq. è stato determinato autonomamente dal ctu in Euro 8,06.

Il quarto motivo è infondato. L’art. 33 D.P.R. n. 327/01 dispone che “nel caso di esproprio parziale di un bene unitario, il valore della parte espropriata è determinata tenendo conto della relativa diminuzione di valore”.

Nel caso concreto, il c.t.u. ha utilizzato il cd. metodo differenziale, quantificando il deprezzamento dell’area residua nella misura del 15%, sulla base di dati oggettivi connessi allo smembramento del fondo, che aveva cagionato un innegabile deprezzamento del fondo, che non trovava compensazione nella valorizzazione del sito, il cui pregio originario, derivante dalle antiche terme, preesisteva all’intervento della Provincia.

Pertanto, il c.t.u. ha sottratto al valore del bene residuo, stimato in Euro 8,06 mq rispetto ai 10,00, la percentuale del 15% per determinare, appunto, il minor valore delle superfici residue.

Orbene, la stima in questione risulta conforme ai criteri dettati dalla giurisprudenza di questa Corte, a tenore della quale: in tema di espropriazione parziale, l’art. 40 della L. n. 2359 del 1865 (recepito dal D.Lgs. n. 327 del 2001) e quindi il criterio di stima differenziale ivi previsto (che sottrae all’iniziale valore dell’intero immobile quello della parte rimasta in capo al privato) non è vincolante, potendo essere sostituito dal criterio che procede al calcolo del deprezzamento della sola parte residua, per poi aggiungerlo alla somma liquidata per la parte espropriata, purché si raggiunga il risultato di compensare l’intero pregiudizio arrecato dall’ablazione alla proprietà residua (Cass., n. 34745 del 31/12/2019).

In tema di espropriazione parziale, il criterio di stima differenziale, previsto dall’art. 40 della legge n. 2359 del 1865 (recepito dal D.Lgs. n. 327 del 2001), è rivolto a garantire che l’indennità di espropriazione riguardi l’intera diminuzione patrimoniale subita dal soggetto passivo del provvedimento ablativo e, quindi, anche il deprezzamento subito dalle parti residue del bene espropriato. Tale risultato può essere conseguito detraendo dal valore venale che l’intero cespite aveva prima dell’esproprio il valore successivamente attribuibile alla parte residua (non espropriata), oppure accertando e calcolando detta diminuzione di valore, anziché attraverso tale comparazione diretta, mediante il computo delle singole perdite, ovvero aggiungendo al valore dell’area espropriata quello delle spese e degli oneri che, incidendo sulla parte residua, ne riducono il valore (Cass., n. 24304 del 18/11/2011).

Nella specie, la ricorrente lamenta che l’ordinanza impugnata avrebbe effettuato un’erronea applicazione dei suddetti principi, raddoppiando l’importo del valore venale dei beni espropriati, di Euro 93.600,78. Tuttavia, tale errore non emerge dalla motivazione, pur richiamata dalla ricorrente, in quanto ai proprietari dei beni ablati, sulla base della c.t.u., con la riduzione di valore del 15%, sono state riconosciute le somme di: Euro 93.600,78 quale danno patrimoniale subito per effetto dell’acquisizione sanante, per complessivi mq 11.613; Euro 65.520,54 per il danno da occupazione illegittima, Euro 9.360,078 per danno non patrimoniale e Euro 166.409,16 per deprezzamento delle porzioni residue.

Le spese seguono la soccombenza e sono liquidate come da dispositivo.

Espropriazione parziale il criterio di stima differenziale

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento, in favore della parte controricorrente, delle spese del giudizio che liquida nel complesso nella somma di Euro 8.200,00, di cui 200,00 per esborsi, oltre alla maggiorazione del 15% quale rimborso forfettario delle spese generali ed accessori di legge.

Ai sensi dell’art. 13, comma l quater, del D.P.R. n. 115/02, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale, a norma del comma 1bis dello stesso articolo 13, ove dovuto.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio del 19 giugno 2024.

Depositato in Cancelleria il 9 settembre 2024.

In caso di diffusione omettere le generalità e gli altri dati identificativi dei soggetti interessati nei termini indicati.

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