Dovere di motivazione adeguata per il rigetto dell’istanza di ammissione di una CTU proveniente da una delle parti

Corte di Cassazione, civile, Ordinanza|13 maggio 2024| n. 13038.

Dovere di motivazione adeguata per il rigetto dell’istanza di ammissione di una CTU proveniente da una delle parti

La decisione di ricorrere o meno ad una consulenza tecnica d’ufficio costituisce un potere discrezionale del giudice, che, tuttavia, è tenuto a motivare adeguatamente il rigetto dell’istanza di ammissione proveniente da una delle parti, dimostrando di poter risolvere, sulla base di corretti criteri, i problemi tecnici connessi alla valutazione degli elementi rilevanti ai fini della decisione, senza potersi limitare a disattendere l’istanza sul presupposto della mancata prova dei fatti che la consulenza avrebbe potuto accertare. Pertanto, nelle controversie che, per il loro contenuto, richiedono si proceda ad un accertamento tecnico, il mancato espletamento, specie a fronte di una domanda di parte, costituisce una grave carenza nell’accertamento dei fatti da parte del giudice di merito, che si traduce in un vizio della motivazione della sentenza (Nel caso di specie, relativo ad un giudizio di risarcimento danni derivanti da responsabilità sanitaria, la Suprema Corte, richiamato l’enunciato principio, ha cassato con rinvio la sentenza impugnata; nella circostanza, infatti, la corte del merito, pur ritenendo necessaria la consulenza tecnica per accertare l’andamento e l’incidenza causale dei fatti nonché le del tutto ambigue conclusioni tratte dal consulente, a fronte della richiesta della parte e di quest’ultimo di costituire un collegio, affiancando al medico legale uno specialista della materia per dissipare tale ambiguità, non aveva compiuto più alcun approfondimento, rigettando l’impugnazione e ribaltando sulla parte, per mancato assolvimento dell’onere probatorio, la pur rilevata carenza o ambiguità dell’elaborato peritale). (Riferimenti giurisprudenziali: Cassazione, sezione civile L, ordinanza 16 dicembre 2022, n. 37027).

 

Ordinanza|13 maggio 2024| n. 13038. Dovere di motivazione adeguata per il rigetto dell’istanza di ammissione di una CTU proveniente da una delle parti

Data udienza 9 febbraio 2024

Integrale

Tag/parola chiave: Procedimento civile – Prova civile – Consulenza tecnica d’ufficio – Mancata ammissione da parte del giudice di merito – Onere di motivazione – Contenuto – Violazione – Conseguenze – Fattispecie relativa a controversia insorta in tema di responsabilità medico-sanitaria. (Cpc, articoli 61, 116, 132, e 191)

REPUBBLICA ITALIANA

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. TRAVAGLINO Giacomo – Presidente

Dott. SCODITTI Enrico – Consigliere

Dott. RUBINO Lina – Consigliere Rel.

Dott. AMBROSI Irene – Consigliere

Dott. SPAZIANI Paolo – Consigliere

ha pronunciato la seguente
ORDINANZA

sul ricorso iscritto al n. 25935/2020 R.G. proposto da:

Mi.Gi., elettivamente domiciliata in ROMA VIA (…), presso lo studio dell’avvocato Lo.Um. (Omissis) che lo rappresenta e difende unitamente all’avvocato Sp.Ro. (Omissis) – ricorrente –

contro

AZIENDA OSPEDALIERA UNIVERSITARIA POLICLINICO DI M, elettivamente domiciliato in ROMA (…), presso lo studio dell’avvocato Lu.Gi. (Omissis) rappresentato e difeso dall’avvocato Ta.Mi. (Omissis)

– controricorrente –

avverso la SENTENZA della CORTE D’APPELLO di BOLOGNA n. 1929/2020 depositata il 06/07/2020.

Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 09/02/2024 dal Consigliere LINA RUBINO.

Dovere di motivazione adeguata per il rigetto dell’istanza di ammissione di una CTU proveniente da una delle parti

FATTI DI CAUSA

1. – Nel luglio 2004 Gi.Gi., reduce da un intervento chirurgico per asportazione di un carcinoma vescicolare, si sottoponeva a un intervento chirurgico definito come operazione di routine di laparotomia esplorativa e adesiolisi con resezione ileale presso il (Omissis); veniva dimesso, ma pochi giorni dopo, il 19 luglio 2004, il Gi.Gi. era nuovamente ricoverato al Policlinico e sottoposto a un secondo intervento operatorio di laparotomia esplorativa. La sua condizione non migliorava, e nell’agosto successivo si accertava a mezzo di una TAC la presenza di un ascesso addominale con processo peritoneale e fuoriuscita di materiale enterico, per perforazione intestinale. Trasferito su iniziativa dei familiari presso un’altra struttura ospedaliera, lo stesso doveva subire un ulteriore intervento chirurgico, con successiva terapia intensiva, di resezione di gran parte dell’intestino, con conseguente colonstomia.

2. – A qualche anno di distanza, nel 2007, ritenuto di aver subito un pregiudizio dagli interventi non risolutivi e dalla tardiva attivazione post operatoria dei sanitari di M, il Gi.Gi. evocò in giudizio l’Azienda Ospedaliera Universitaria POLICLINICO DI M chiedendone la condanna al risarcimento dei danni tutti, biologico, morale e patrimoniale, comprensivi della perdita della capacità lavorativa specifica, e al risarcimento del danno esistenziale subito dalla moglie, riportati a causa dell’imperizia dei medici del Policlinico che gli provocarono un ascesso peritoneale a cui seguiva una massiccia resezione intestinale con necessità di ileostomia e colostomia.

La difesa della struttura sanitaria rilevava invece che l’intervento finale di resezione di un lungo tratto dell’intestino si era reso necessario a causa di una recidiva manifestatasi nel paziente, da ricondursi alle sue condizioni fisiche già in precedenza compromesse e non ad errori commessi dai medici modenesi.

Disposta consulenza tecnica, il c.t.u., previa ricostruzione dell’accaduto, descriveva il comportamento dei medici del Policlinico e concludeva nel senso che esso poteva essere valutato in due modi differenti: il fatto , oggettivo, che il paziente fosse stato lasciato con l’intestino aperto per la durata di più di venti giorni poteva configurarsi come un vero e proprio danno iatrogeno, di rilevanza pari alla percentuale di invalidità permanente finale riportata dal paziente all’esito di tutto il percorso operatorio, oppure poteva configurarsi come un danno più contenuto, legato soltanto all’essere stato lasciato venti giorni appunto con l’intestino aperto, in tal caso coincidente col prolungamento della malattia per un periodo di circa 10-15 giorni.

3. – Il Tribunale di Modena, di fronte agli esiti della CTU che proponeva due possibili ipotesi valutative, di diversa gravità, faceva propria la soluzione minore, e condannava l’azienda ospedaliera universitaria al pagamento in favore del Gi.Gi. di soli 5.035 Euro, pari al danno per il prolungamento della malattia.

4. – La vedova del Gi.Gi. nel frattempo deceduto, Me.Gi., proponeva appello denunciando la superficialità della CTU e la inverosimiglianza della ipotesi formulata dall’ausiliario e condivisa dalla sentenza, secondo la quale il comportamento dei medici del primo ospedale avrebbe prodotto come sola conseguenza un mero prolungamento della malattia di 10 – 15 giorni.

Sottolineava l’appellante che il ritardo nell’affrontare la situazione grave del paziente aveva costretto i medici che poi avevano eseguito il terzo intervento, risolutivo, a fronte a un paziente che, a seguito degli sversamenti interni verificatisi, era ormai assai compromesso, a dover eseguire una devastante opera di resezione degli organi interni vitali consentendo al Gi.Gi. di sopravvivere ma riducendo la sua prospettiva di vita e anche la qualità del tempo residuo. La vedova del Gi.Gi. chiedeva che fosse liquidato un importo più congruo, comprensivo dell’intero danno patito dal paziente all’esito della disavventura sanitaria, biologico, morale e patrimoniale nonché il danno da perdita della capacità lavorativa specifica e il danno esistenziale patito dalla stessa Mi.Gi. in proprio. L’appellante insisteva inoltre per la rinnovazione della consulenza.

5. – La Corte d’appello non riteneva di nominare un nuovo consulente perché eseguisse una nuova ricostruzione e valutazione sotto il profilo tecnico degli accadimenti, ma richiamava a chiarimenti il CTU di primo grado, segnalandogli che le sue conclusioni non univoche non mettevano il collegio in grado di decidere tra l’una o l’altra ipotesi. Chiedeva quindi al CTU di indicare, sulla base del criterio valutativo del più probabile che non, quale delle due ipotesi già prospettate in primo grado dovesse essere fatta propria a fini decisori.

5.1. – Il CTU segnalava per iscritto la sua impossibilità di redigere i chiarimenti richiesti senza l’ausilio di uno specialista chirurgo e chiedeva di essere sollevato dall’incarico (segnalando anche che l’avvocato di una delle parti gli aveva anticipato una possibile domanda di risarcimento danni nei suoi confronti).

5.2. – La Corte d’appello, ritenuto che le circostanze esposte dal consulente non costituissero un motivo di astensione né dessero luogo ad istanza di ricusazione, ritenuta superflua la costituzione di un collegio peritale con la nomina di un chirurgo, invitava il consulente a rispondere al quesito.

A fronte di ciò, il consulente riproponeva la sua soluzione bifronte, segnalando di non disporre di evidenze scientifiche in grado di farlo propendere anche solo con il criterio del più probabile che non per la prima o per la seconda ipotesi.

6. – La Corte, rigettando l’istanza di rinnovazione della CTU formulata dalla parte appellante, tratteneva infine la causa in decisione e rigettava l’appello affermando che mancava la prova, a carico dell’attore, che fosse più probabile che non la sussistenza di un nesso causale tra la condotta dei sanitari convenuti, consistente sia nella non corretta esecuzione del secondo intervento sia nel ritardo nell’affrontare gli esiti del decorso post-operatorio e nel prospettare la necessità di un terzo intervento, e il danno riportato dal paziente.

Confermava quindi la decisione di primo grado affermando che fosse raggiunta la prova soltanto dell’incidenza causale del comportamento dei sanitari modenesi sul prolungamento del periodo di malattia di 15 o 20 giorni, non avendo ottemperato l’appellante al proprio onere di provare il nesso causale tra il comportamento dei medici e i danni permanenti riportati.

In definitiva il giudice d’appello non riteneva provato, neppure in termini probabilistici, che il complessivo comportamento tenuto dai medici del POLICLINICO DI M fosse stato causa della situazione complessiva in cui si era trovato il paziente, costretto a sottoporsi a un terzo intervento all’intestino presso un diverso ospedale, con resezione di un ampio tratto di esso e colonstomia.

7. – Mi.Gi., in proprio e quale erede di Gi.Gi., nonché quale amministratore e legale rappresentante della Gi.Gi. Snc, propone un motivo di ricorso per cassazione, notificato il 5 ottobre 2020 ed illustrato da memoria, nei confronti della Azienda Ospedaliera Universitaria POLICLINICO DI M, per la cassazione della sentenza n. 1964 del 2020 della Corte d’appello di Bologna, pubblicata il 6.7.2020, con la quale la Corte d’appello ha rigettato la sua impugnazione confermando la sentenza di primo grado e quindi il risarcimento dei danni subiti dal Gi.Gi. nella misura di soli Euro 5.035,00, pari a 15 giorni di prolungamento della malattia.

8. – Resiste con controricorso illustrato da memoria l’azienda ospedaliera.

9. – La causa è stata avviata alla trattazione in adunanza camerale, all’esito della quale il collegio ha riservato il deposito della decisione nei successivi sessanta giorni.

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RAGIONI DELLA DECISIONE

Con l’unico motivo di ricorso formulato, la ricorrente denuncia la violazione dell’articolo 132, primo comma, numero 4 c p.c., sostenendo che la motivazione della Corte d’appello costituisce un’esemplare rappresentazione di anomalia motivazionale denunciabile in sede di legittimità, anomalia che costituisce una violazione di legge costituzionalmente rilevante perché in effetti si tratta di una motivazione meramente apparente.

Critica la sentenza impugnata laddove la stessa sostiene la meticolosità dell’accertamento eseguito con ampia garanzia del contraddittorio e in assenza di elementi oggettivi contrastanti e di incongruità ed afferma di aver tenuto conto delle osservazioni in replica del CTP e, ciò premesso, conferma l’esclusione del nesso causale tra l’intervento effettuato e i danni lamentati, rapportati alla condizione di invalidità permanente del paziente dopo gli interventi.

La ricorrente evidenzia la manifesta illogicità e contraddittorietà della motivazione rispetto a precedenti atti processuali e ricorda che è stata proprio la Corte d’appello ad affermare che la ricostruzione fornita dal CTU necessitava di un approfondimento proprio perché prospettava due diverse ipotesi ricostruttive, tra loro alternative quanto alla rilevanza dell’apporto causale dei medici sulla gravità delle conseguenze permanenti riportate dal paziente, e non forniva strumenti per decidere al collegio decidente.

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Segnala altresì che il CTU è stato di fatto costretto dall’atteggiamento preso dalla Corte d’appello a redigere il documento richiesto, nel quale non ha fornito alcun chiarimento giacché la stessa Corte d’appello gli aveva negato la possibilità di avvalersi delle competenze di un chirurgo, ritenute evidentemente decisive. Sottolinea dunque la ricorrente che il consulente non soltanto non forniva i chiarimenti richiesti e non rispondeva ai quesiti postigli optando per l’una o l’altra delle due alternative soluzioni proposte, ma, di fatto, confessava la propria inadeguatezza tecnica, che la Corte avrebbe dovuto cogliere e rispetto alla quale avrebbe dovuto prendere le opportune iniziative, e che invece non ha individuato, ribaltando le carenze tecniche del CTU sulla parte appellante e facendone discendere il rigetto della impugnazione.

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Il motivo è fondato.

La Corte d’appello fa riferimento al consolidato orientamento di legittimità secondo il quale nell’azione di risarcimento del danno da responsabilità sanitaria incombe sul paziente che agisce per il risarcimento del danno l’onere di provare non soltanto il fatto dannoso ma il nesso di causalità tra l’aggravamento della patologia (o l’insorgenza di una nuova malattia) e l’azione o l’omissione dei sanitari, mentre, ove il danneggiato abbia assolto a tale onere, spetta alla struttura dimostrare che l’impossibilità della prestazione sia derivata da causa non imputabile, provando che l’inesatto adempimento è stato determinato da un impedimento imprevedibile ed inevitabile con l’ordinaria diligenza, sicché, ove la causa sia rimasta assolutamente incerta, la domanda deve essere rigettata (in questo senso Cass. n. 29315 del 2017, Cass. n. 18392 del 2017).

Afferma che, non avendo l’appellante dato la prova del nesso causale, la causa del danno sia rimasta incerta e l’impugnazione debba essere rigettata.

Nel caso di specie, però, i riferimenti non sono pertinenti, perché l’incertezza eventistica in sé non sussiste: già la sentenza di primo grado aveva accertato che il signor Gi.Gi., già sottoposto ad un intervento precedente di rimozione di una patologia cancerogena e poi operato all’addome nell’ospedale di Modena rimase per una serie di giorni con l’intestino aperto, esposto al rischio della perforazione intestinale poi verificatasi. Questi fatti sono stati accertati già in primo grado ed è stata accertata già in primo grado l’incidenza causale di questi fatti su alcune, quantomeno, delle conseguenze dannose lamentate dal paziente (il tribunale all’esito del primo grado riteneva accertata, sulla base delle incerte conclusioni del c.t.u., solamente una moderata incidenza causale di questo comportamento in sé poco diligente dei sanitari del Policlinico e l’invalidità permanente riportata dal Gi.Gi. a seguito della successiva resecazione dell’intestino).

Era ancora sub iudice, quindi, non che il comportamento dei sanitari del Policlinico fosse stato negligente, e non che esso fosse da porsi in rapporto causale con i danni riportati dal paziente ma soltanto la misura della riconducibilità delle condizioni post-operatorie del paziente all’operato di sanitari del POLICLINICO DI M, se cioè agli stessi fossero addebitabili o meno, nella loro interezza, i postumi invalidanti riportati dal paziente.

Né tanto meno l’appellante ha mai attribuito all’ospedale, come affermato erroneamente nella sentenza a pag. 7, la responsabilità del decesso del paziente, verificatosi a distanza di anni e per causa autonoma, non oggetto del presente giudizio.

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Oggetto dell’accertamento era dunque quali fossero effettivamente le conseguenze da ricondurre a quel fatto dannoso.

Premessa quindi la violazione in cui è incorsa la sentenza impugnata nel ricondurre il rigetto della impugnazione alla incertezza sulla causa del danno, la motivazione della sentenza impugnata è anche completamente priva di logica sotto il profilo del ribaltamento sull’appellante, in applicazione – errata – della regola sull’adempimento dell’onere probatorio, degli esiti lacunosi dell’attività istruttoria svolta dalla Corte d’appello.

La decisione di ricorrere o meno ad una consulenza tecnica d’ufficio costituisce infatti, in sé, un potere discrezionale del giudice, ma lo stesso è tenuto a motivare adeguatamente il rigetto dell’istanza di ammissione proveniente da una delle parti, dimostrando di poter risolvere, sulla base di corretti criteri, i problemi tecnici connessi alla valutazione degli elementi rilevanti ai fini della decisione, senza potersi limitare a disattendere l’istanza sul presupposto della mancata prova dei fatti che la consulenza avrebbe potuto accertare.

Questa Corte ha avuto già modo di affermare che nelle controversie che, per il loro contenuto, richiedono si proceda ad un accertamento tecnico, il mancato espletamento di esso, specie a fronte di una domanda di parte, costituisce una grave carenza nell’accertamento dei fatti da parte del giudice di merito, che si traduce in un vizio della motivazione della sentenza (in questo senso già Cass. 37027 del 2022).

Questa affermazione è tanto più valida per le controversie in materia di responsabilità sanitaria, ove la consulenza assurge al ruolo di consulenza percipiente, ovvero di vera e propria fonte di prova per l’accertamento dei fatti (Cass. n. 12387 del 2020).

Occorre giungere ad analoghe conclusioni anche a fronte della motivata richiesta di un approfondimento scientifico, specie se, come nella specie, il giudice abbia esplicitato la necessità, ai fini del decidere, di fruire delle competenze di un tecnico e la consulenza non ha dato esiti risolutivi né fornito indicazioni univoche perché lo stesso consulente nominato ha segnalato la propria carenza delle competenze specifiche necessarie e la necessità che esse siano integrate dall’apporto di un chirurgo, per rispondere al quesito in maniera congrua.

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Alla consulenza di cui trattasi (effettuata nell’anno 2014) non risulta applicabile ratione temporis la disciplina di cui all’art. 15 della L. n. 24/2017, che prevede solo per il futuro (v. Cass. n. 12593 del 2021), trattandosi di disposizione processuale e non sostanziale, l’obbligatorietà della perizia o consulenza collegiale nei giudizi di responsabilità sanitaria, alla quale il giudice non può derogare.

Deve ritenersi, tuttavia, che sia minata la logica della decisione di una controversia in materia di responsabilità sanitaria, qualora il giudice, come nella specie, abbia ritenuto la necessità della consulenza per accertare l’andamento e l’incidenza causale dei fatti, abbia dato atto della ambiguità delle conclusioni tratte dal consulente, ma, a fronte della richiesta della parte e dello stesso consulente di costituire un collegio, affiancando al medico legale uno specialista della materia per dissipare tale ambiguità, non proceda ad alcun approfondimento, per poi rigettare l’impugnazione ribaltando sulla parte, riconducendola al mancato espletamento dell’onere probatorio, la pur rilevata carenza o ambiguità dell’elaborato peritale.

La sentenza è cassata, la causa è rinviata alla Corte d’appello di Bologna in diversa composizione anche per la liquidazione delle spese del presente giudizio.

P.Q.M.

Accoglie il ricorso, cassa la sentenza impugnata e rinvia alla Corte d’appello di Bologna in diversa composizione anche per la liquidazione delle spese del presente giudizio.

Così deciso nella camera di consiglio della Corte di cassazione il 9 febbraio 2024.

Depositata in Cancelleria il 13 maggio 2024.

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