Distanze fra gli edifici ed il diritto soggettivo al risarcimento del danno od al ripristino

Corte di Cassazione, civile, Ordinanza|16 settembre 2024| n. 24719.

Distanze fra gli edifici ed il diritto soggettivo al risarcimento del danno od al ripristino

Le norme del codice civile sulle distanze tra edifici e quelle, ivi richiamate, dei regolamenti edilizi locali, fondano e riconoscono, nelle controversie tra privati, il diritto soggettivo, di colui che si ritenga danneggiato dalla violazione al risarcimento del danno ed alla riduzione in pristino ovvero allo spostamento della costruzione alla distanza prescritta dalle dette parti normative, senza che possa in contrario rilevare il disposto dell’art. 2933 cod. civ. e l’ivi previsto divieto di distruzione pregiudizievole per l’economia nazionale.

Ordinanza|16 settembre 2024| n. 24719. Distanze fra gli edifici ed il diritto soggettivo al risarcimento del danno od al ripristino

Data udienza 21 dicembre 2023

Integrale

Tag/parola chiave: Proprietà – Limitazioni legali della proprietà – Rapporti di vicinato – Norme del codice civile e dei regolamenti edilizi locali sulle distanze fra gli edifici – Diritto soggettivo al risarcimento del danno od al ripristino alla stregua di tali norme – Sussistenza – Limiti ex art. 2933 c.c. – Esclusione

REPUBBLICA ITALIANA

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dai magistrati

Dott. ORILIA Lorenzo – Presidente
Dott. FALASCHI Milena – Consigliere rel.

Dott. PAPA Patrizia – Consigliere

Dott. SCARPA Antonio – Consigliere

Dott. BESSO MARCHEIS Chiara – Consigliere

ha pronunciato la seguente
ORDINANZA

sul ricorso iscritto al n. 3808/2021 R.G. proposto da

La.To. e Gi.La., rappresentati e difesi dall’Avv. An.Fr. del Foro di Foggia, con procura speciale in calce al ricorso ed elettivamente domiciliati all’indirizzo PEC dei difensori iscritti nel REGINDE;

– ricorrenti –

contro

Co.Te. e Co.Gi., rappresentate e difese dall’Avv. Ur.De. del Foro di Foggia, con procura speciale in calce al controricorso, ed elettivamente domiciliate in Roma, via Du.N., presso lo studio dell’Avv. Ma.Ma.;

– controricorrenti –

avverso la sentenza della Corte d’Appello di Bari n. 1880 depositata il 2 novembre 2020.

Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 21 dicembre 2023 dal Consigliere Milena Falaschi.

Distanze fra gli edifici ed il diritto soggettivo al risarcimento del danno od al ripristino

Osserva in fatto e in diritto

Con atto di citazione del 16 marzo 2005, Co.Te. e Co.Gi. evocavano, dinnanzi al Tribunale di Foggia, La.To., proprietario del fondo confinante, chiedendo la dichiarazione di illegittimità del fabbricato dallo stesso edificato in violazione delle distanze legali e del regolamento comunale, in quanto costitutivo di una servitù di veduta, e per l’effetto disporre l’ordine di completa demolizione del fabbricato abusivo con la integrale rimessione in pristino dello stato dei luoghi.

Instaurato il contraddittorio, nella resistenza del convenuto, e proposto nelle more dalle attrici ricorso per la manutenzione del possesso per alcune nuove opere realizzate a loro danno dal medesimo La.To., il giudice adito, istruita la causa con interrogatorio formale, escussione dei testi ed espletamento di C.T.U., integrato il contraddittorio nei confronti di Gi.La., comproprietaria del fabbricato abusivo, con sentenza n. 2242 depositata il 23 ottobre 2015, in parziale accoglimento della domanda, escludeva la esistenza di una servitù di veduta, pur condannando il convenuto alla riduzione in pristino con la demolizione del vano creato in aggiunta alla costruzione preesistente, essendo sussistente la violazione delle distanze legali ai sensi dell’art. 873 c.c., come integrato dal D.M. 1444/1968, liquidate le spese di lite secondo la soccombenza.

In virtù di gravame interposto dal La.To., la Corte d’Appello di Bari, nella resistenza delle appellate, che proponevano anche appello incidentale, con sentenza n. 1880/2020, pubblicata il 2 novembre 2020, parzialmente integrata l’istruzione probatoria tramite la richiesta di nuovi chiarimenti al CTU, rigettava l’appello principale, accogliendo l’appello incidentale avente ad oggetto la liquidazione delle spese.

A sostegno della decisione adottata la Corte territoriale – ritenute preliminarmente abbandonate dagli appellanti le censure circa la nullità dei mezzi istruttori assunti in assenza della litisconsorte necessaria Gi.La. – rigettava il motivo di appello quanto alla previsione del rispristino dello stato dei luoghi per la violazione dell’art. 9 D.M. 1444/1968, non rilevando la circostanza che la demolizione avrebbe pregiudicare l’intera opera ovvero l’affermazione di un’eventuale modesta entità del danno subito dalle originarie attrici.

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Di converso veniva accolto l’appello incidentale quanto alla liquidazione delle spese processuali che non aveva tenuto conto della fase possessoria.

Per la cassazione della sentenza della Corte di appello di Bari propongono ricorso La.To. e Gi.La., articolato in tre motivi, cui resistono con controricorso Co.Te. e Co.Gi.

In prossimità dell’adunanza camerale ha curato il deposito di memoria ex art. 380-bis.1 c.p.c. la parte controricorrente.

Con il primo motivo i ricorrenti lamentano, seguendo la rubrica, la violazione e la falsa applicazione degli artt. 112, 115 e 116 c.p.c., per nullità della sentenza o del procedimento in relazione all’art. 360, co. 1, n. 4), c.p.c., per avere il giudice di merito aderito in modo acritico alle conclusioni del CTU senza esaminare una serie di rilievi mossi in modo specifico e dettagliato dai consulenti di parte, rivolte ad evidenziare che l’opera realizzata dai ricorrenti consiste in un piccolo manufatto che non arreca alcun danno alle resistenti e che non può essere demolito senza arrecare un danno all’intero fabbricato. Semmai la Corte di merito avrebbe dovuto pronunciarsi sull’arretramento del nuovo manufatto e non sulla sua demolizione, verificandosi in tal caso una decisione ultra petitum, omettendo anche il c.t.u. di accertare lo stato dei luoghi preesistente.

Con il terzo motivo – da trattare unitariamente al primo per la evidente connessione argomentativa che li avvince – i ricorrenti denunciano la violazione e la falsa applicazione, ex art. 360, co. 1, n. 3), c.p.c., degli artt. 871, 872 e 873 e delle disposizioni del D.M. 1444/1968, nonché in subordine l’omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione circa un punto decisivo della controversia prospettato dalle parti ex art. 360, co. 1, n. 5), c.p.c., per avere la Corte territoriale constatato la violazione dell’art. 9, D.M. n. 1444 del 2 aprile 1968, ma, in quanto norma a tutela di interessi urbanistici generali, ne conseguirebbe che al privato è dato solo il diritto al risarcimento del danno e non anche quello alla riduzione in pristino dello stato dei luoghi. Ad avviso del ricorrente, stante la minima violazione della distanza realizzata, per il canone di proporzionalità, non avrebbe dovuto trovare applicazione la demolizione del manufatto, considerando anche la disciplina invocata che ha natura pubblicistica.

I motivi sono privi di pregio e vanno perciò disattesi.

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Questa Corte ha più volte sostenuto, sin da remoti precedenti, che il proprietario ha pieno diritto di usare e godere della cosa propria secondo la naturale destinazione della stessa, per cui qualsiasi intervento del vicino diretto a limitare tale uso e godimento costituisce turbativa del diritto di proprietà sul bene e legittima il proprietario a chiedere la tutela in forma specifica, mediante cessazione di tale turbativa e ripristino della situazione antecedente al verificarsi dell’illecito, oltre al risarcimento dei danni (cfr Cass. n. 21501 del 2018).

Del resto la sanzione civile della “restitutio in integrum”, adottata concordemente da entrambi i giudici di merito, trova fondamento e legittimità nel disposto del secondo comma dell’art. 872 c.c. Secondo quanto è stato chiarito dalla interpretazione giurisprudenziale, l’art. 2058 c.c., che prevede la possibilità di disporre il risarcimento per equivalente anziché la reintegrazione in forma specifica, in caso di eccessiva onerosità di quest’ultima, non trova applicazione con riguardo all’azione intesa a far valere un diritto reale, come quella diretta ad ottenere la riduzione in pristino stato per violazione delle norme sulle distanze, atteso il carattere assoluto del diritto leso (Cass. 25 giugno 1991 n. 7124; Cass. 24 febbraio 1984 n. 1312). Il che esclude qualsivoglia accertamento circa la eccessiva onerosità della demolizione a carico dei ricorrenti; onerosità che nel caso in esame non può trovare accoglimento anche perché è concetto che sollecita un ulteriore accertamento al riguardo, il quale poggia prevalentemente su un principio di solidarietà sociale, derivato dalla lettura di norme ordinarie (art. 2933 c. 2 c.c.) e costituzionali (art. 42 e 47 Cost.). È stato ribadito, in proposito, che le norme del codice civile sulle distanze tra edifici e quelle, ivi richiamate, dei regolamenti edilizi locali, fondano e riconoscono, nelle controversie tra privati, il diritto soggettivo, di colui che si ritenga danneggiato dalla violazione al risarcimento del danno ed alla riduzione in pristino ovvero allo spostamento della costruzione alla distanza prescritta dalle dette parti normative, senza che possa in contrario rilevare il disposto dell’art. 2933 c.c. e l’ivi previsto divieto di distruzione pregiudizievole per l’economia nazionale (Cass. n. 11221 del 1997; Cass., Sez. Un., 14 luglio 1994 n. 6582).

Del resto, il danno – che si traduce in una diminuzione temporanea del valore della proprietà medesima (Cass. 7 maggio 2010 n. 11196; Cass. 16 dicembre 2010 n. 25475) – è destinato a cessare solo una volta ripristinato lo stato dei luoghi in epoca antecedente alle suddette violazioni e la disposta demolizione. Quanto poi alla misura da adottare in concreto per la “restitutio in integrum”, se necessaria la demolizione ovvero l’arretramento del manufatto, costituisce solo una questione di esecuzione della stessa e pertanto, su di essa, si discuterà in quella sede.

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Quanto alla dedotta violazione degli artt. 115 e 116 c.p.c., poi, la prima censura è inammissibile atteso che, come affermato recentemente dalle Sezioni Unite (Cass., Sez. Un., 30 settembre 2020 n. 20867), da un lato “In tema di ricorso per cassazione, per dedurre la violazione dell’art. 115 c.p.c., occorre denunciare che il giudice, in contraddizione espressa o implicita con la prescrizione della norma, abbia posto a fondamento della decisione prove non introdotte dalle parti, ma disposte di sua iniziativa fuori dei poteri officiosi riconosciutigli (salvo il dovere di considerare i fatti non contestati e la possibilità di ricorrere al notorio), mentre è inammissibile la diversa doglianza che egli, nel valutare le prove proposte dalle parti, abbia attribuito maggior forza di convincimento ad alcune piuttosto che ad altre, essendo tale attività valutativa consentita dall’art. 116 c.p.c.” e, dall’altro, “la doglianza circa la violazione dell’art. 116 c.p.c. è ammissibile solo ove si alleghi che il giudice, nel valutare una prova o, comunque, una risultanza probatoria, non abbia operato – in assenza di diversa indicazione normativa – secondo il suo “prudente apprezzamento”, pretendendo di attribuirle un altro e diverso valore oppure il valore che il legislatore attribuisce ad una differente risultanza probatoria (come, ad esempio, valore di prova legale), oppure, qualora la prova sia soggetta ad una specifica regola di valutazione, abbia dichiarato di valutare la stessa secondo il suo prudente apprezzamento, mentre, ove si deduca che il giudice ha solamente male esercitato il proprio prudente apprezzamento della prova, la censura è ammissibile, ai sensi del novellato art. 360, primo comma, n. 5, c.p.c., solo nei rigorosi limiti in cui esso ancora consente il sindacato di legittimità sui vizi di motivazione”.

Si tratta di condizioni in evidenza assenti nella sentenza impugnata.

Con il secondo motivo i ricorrenti lamentano la violazione e la falsa applicazione dell’art. 2697 c.c. per avere il giudice attribuito l’onere della prova ad una parte diversa da quella onerata.

Il motivo è infondato.

Per principio consolidato, la violazione del precetto di cui all’art. 2697 c.c. si configura nell’ipotesi in cui il giudice abbia attribuito l’onere della prova ad una parte diversa da quella che ne era gravata secondo le regole di scomposizione delle fattispecie basate sulla differenza tra fatti costitutivi ed eccezioni, non anche quando si prospetti una incongrua valutazione delle acquisizioni istruttorie, nel senso che si sostenga non effettivamente assolto, dalla parte onerata, l’onere della prova (Cass. 19 agosto 2020 n. 17313; Cass. 5 settembre 2006 n. 19064): in questo caso, infatti, prospettato è, in realtà, un erroneo apprezzamento dell’esito della prova, sindacabile però in sede di legittimità soltanto per il vizio di motivazione di cui al n. 5 del comma 1 dell’art. 360 c.p.c.

Nella specie, la Corte di merito ha valorizzato gli elementi acquisiti con la consulenza tecnica d’ufficio che in materia di azione di violazione delle distanza fra costruzioni costituisce strumento necessario per le acquisizioni probatorie, ed ha proceduto – con giudizio insindacabile in questa sede, in quanto scevro da vizi logico-giudici – alla determinazione delle distanze fra le rispettive costruzioni delle parti, in linea con la richiesta formulata da parte attrice, ritenendo lo sconfinamento del manufatto a danno delle appellate accertato dal CTU e comprovato dalla documentazione prodotta (v. sentenza impugnata, pag. 4), mentre il convenuto aveva solo genericamente sostenuto di aver eseguito i lavori nell’ambito della sua sfera di proprietà, trattandosi comunque di opera sanabile (v. sentenza impugnata pag. 3).

A fronte di siffatti argomenti il ricorrente, dopo avere articolato la rubrica del mezzo nel senso copra indicato, neanche chiarisce le ragioni per cui il giudice di appello sarebbe incorso nel vizio lamentato ed anzi riporta numerose pronunce che attengono a vizio di motivazione piuttosto che a violazione di legge.

Conclusivamente, il ricorso va rigettato.

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Le spese del presente giudizio, liquidate in dispositivo, seguono la soccombenza.

Ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, del D.P.R. n. 115 del 2002, occorre dare atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte dei ricorrenti, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma 1-bis dello stesso articolo 13, se dovuto.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso;

condanna in solido i ricorrenti alla rifusione delle spese del giudizio di legittimità che vengono liquidate in favore della controricorrente in Euro 4.500,00 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi liquidati in Euro 200,00, e agli accessori di legge.

Ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, del D.P.R. n. 115 del 2002 dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte dei ricorrenti, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma 1-bis dello stesso articolo 13, se dovuto.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Seconda Sezione civile, in data 21 dicembre 2023.

Depositata in Cancelleria il 16 settembre 2024.

In caso di diffusione omettere le generalità e gli altri dati identificativi dei soggetti interessati nei termini indicati.

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