Corte di Cassazione

Suprema CORTE DI CASSAZIONE

SEZIONI UNITE

SENTENZA 19 marzo 2014, n. 6312

 

Ritenuto in fatto

S.A. , con ricorso del 29 gennaio 2010, ha impugnato per cassazione – deducendo due motivi di censura, illustrati con memoria -, nei confronti del Ministro dell’economia e delle finanze, il decreto della Corte d’Appello di Firenze depositato in data 14 gennaio 2010, con il quale la Corte d’appello, pronunciando sul ricorso del S. – volto ad ottenere l’equa riparazione dei danni non patrimoniali ai sensi dell’art. 2, comma 1, della legge 24 marzo 2001, n. 89 -, in contraddittorio con il Ministro dell’economia e delle finanze – il quale ha concluso per l’inammissibilità o per l’infondatezza del ricorso -, ha rigettato la domanda.
Resiste, con controricorso, il Ministro dell’economia e delle finanze, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato.
1.1. – In particolare, la domanda di equa riparazione del danno non patrimoniale, proposta con ricorso del 22 giugno 2009, era fondata sui seguenti fatti: a) la Corte d’Appello di Firenze, con decreto depositato in data 11 dicembre 2006 – emesso ai sensi della citata legge n. 89 del 2001 -, aveva condannato il Presidente del Consiglio dei ministri al pagamento, in favore del S. , della somma di Euro 2.500,00, oltre interessi e spese legali; b) tale decreto era stato notificato in forma esecutiva al Ministro dell’economia e delle finanze in data 8 febbraio 2007; c) nel perdurante inadempimento dell’Amministrazione, il S. aveva promosso procedimento di esecuzione forzata nella forma dell’espropriazione presso terzi, conclusasi con ordinanza di assegnazione del credito in data 23 dicembre 2008; d) tra la data del decreto – 11 dicembre 2006 – e quella dell’ordinanza di assegnazione del predetto credito da indennizzo – 23 dicembre 2008 – erano trascorsi due anni circa, ritardo a sua volta indennizzabile ai sensi della menzionata legge n. 89 del 2001 e dell’art. 6, prf. 1, della CEDU.
1.2. – La Corte d’Appello di Firenze, con il suddetto decreto impugnato, ha affermato che “[…] la domanda di equa riparazione ex art. 3 L. 89/2001 può essere proposta unicamente in relazione ad una fattispecie dannosa che si concreti in una durata del processo che eccede quella ragionevole (art. 6, par. I, della Convenzione). La parte istante ha escluso che la doglianza sia correlata ad una durata eccessiva del processo esecutivo che è stata costretta ad intraprendere […]”.
1.3. – Con ordinanza interlocutoria n. 16826/12 del 3 ottobre 2012, la Sesta Sezione Civile, Sottosezione Prima, ha rimesso gli atti al Primo Presidente perché valutasse l’opportunità di disporre che le Sezioni Unite si pronuncino sulla questione esposta in motivazione.
Con tale ordinanza interlocutoria, la Sezione rimettente ha osservato testualmente:
“che la fattispecie sottostante al ricorso in esame concerne la domanda di equa riparazione, di cui alla legge 24 marzo 2001, n. 89, avente ad oggetto il ritardo dell’Amministrazione convenuta nel pagamento dell’indennizzo – dovuto al ricorrente in forza del titolo esecutivo costituito dal decreto di condanna pronunciato dalla corte d’appello ai sensi dell’art. 3 della stessa legge n. 89 del 2001 ed azionato esecutivamente nella forma dell’espropriazione presso terzi – per il periodo dalla data della pubblicazione di detto decreto alla data di assegnazione del credito nel processo esecutivo;
che la ratio decidendi della dichiarata inammissibilità del ricorso per equa riparazione sta in ciò, che l’eventuale risarcimento per la mora debendi è fattispecie che fuoriesce dalla presente procedura e che deve trovare soddisfazione in un ordinario giudizio di danno, cioè che il ritardo dell’Amministrazione nel pagamento dell’indennizzo stabilito all’esito di un processo promosso ai sensi della legge n. 89 del 2001, anche nel caso in cui il titolo relativo sia stato azionato esecutivamente nelle forme dell’espropriazione forzata, è tutelabile – non già mediante una (nuova) domanda di equa riparazione, ma – mediante un ordinario giudizio di cognizione avente ad oggetto il risarcimento del danno da detto ritardo, il che vai quanto dire che la tutela giurisdizionale di ritardi siffatti, anche se fatti valere nelle forme del processo esecutivo, è estranea all’ambito di applicazione della stessa legge n. 89 del 2001;
che, com’è noto, le Sezioni Unite di questa Corte, con la sentenza n. 27365 del 2009, hanno enunciato il principio di diritto secondo cui, in tema di equa riparazione per violazione del termine ragionevole di durata del processo, questo va identificato, in base all’art. 6 della CEDU, sulla base delle situazioni soggettive controverse ed azionate su cui il giudice adito deve decidere che, per effetto di detta norma sovranazionale, sono diritti e obblighi, ai quali, avuto riguardo agli artt. 24, 111 e 113 Cost., devono aggiungersi gli interessi legittimi di cui sia chiesta tutela ai giudici amministrativi, con la conseguenza che, in rapporto a tale criterio distintivo, il processo di cognizione e quello di esecuzione regolati dal codice di procedura civile, nonché il processo di cognizione del giudice amministrativo e quello di ottemperanza teso a far conformare la P.A. a quanto deciso in sede cognitoria, devono considerarsi, sul piano funzionale e strutturale, tra loro autonomi, in relazione appunto alle differenti situazioni soggettive azionate in ciascuno di essi, con l’ulteriore conseguenza che, in dipendenza di siffatta autonomia, le durate dei predetti giudizi non possono sommarsi per rilevarne una complessiva dei due processi (di cognizione, da un lato, e di esecuzione o di ottemperanza, dall’altro) e, perciò, solo dal momento delle decisioni definitive di ciascuno degli stessi, è possibile, per ognuno di tali giudizi, domandare, nel termine semestrale previsto dall’art. 4 della legge n. 89 del 2001, l’equa riparazione per violazione del citato art. 6 della CEDU, con conseguente inammissibilità delle relative istanze in caso di sua inosservanza (cfr., ex plurimis, le successive sentenze conformi nn. 16828 del 2010, 820 e 13739 del 2011);
che la ora menzionata sentenza delle Sezioni Unite è stata resa in una fattispecie – a differenza di quella in esame – in cui il processo presupposto era costituito da un processo amministrativo seguito da giudizio di ottemperanza e non, come nella specie, da un processo per equa riparazione il cui titolo è stato azionato mediante processo esecutivo;
che in ogni caso, sia prima che dopo la decisione delle Sezioni Unite, la Corte EDU ha affermato costantemente che, al fine di stabilire se un processo ha avuto durata ragionevole, ai sensi dell’art. 6, paragrafo 1, della CEDU, deve considerarsi globalmente la fase di cognizione e quella di esecuzione, promossa per la realizzazione del diritto fatto valere in giudizio;
che in particolare, con la sentenza del 29 marzo 2006 (Cocchiarella contro Italia) – in una fattispecie del tutto analoga a quella in esame -, la Corte di Strasburgo ha, tra l’altro testualmente affermato: […] 87. A questo riguardo, la Corte rammenta la propria giurisprudenza secondo la quale il diritto di accesso a un tribunale, garantito dall’articolo 6, p.1, della Convenzione, sarebbe illusorio se l’ordinamento giuridico interno di uno Stato Contraente consentisse a una decisione giudiziaria irrevocabile e vincolante di rimanere inoperante a detrimento di una parte. L’esecuzione della sentenza resa dal giudice deve pertanto essere considerata come parte integrante del processo ai fini dell’articolo 6 (vedi, inter alia, Hornsby contro la Grecia, sentenza del 19 marzo 1997, Reports 1997 – II, pagg. 510-11, p.40 e segg., e Metaras contro la Grecia, n. 8415/02, p.25, 27 maggio 2004). 88. La Corte sottolinea come nei ricorsi in tema di durata della causa civile, il procedimento di esecuzione costituisce la seconda fase del procedimento e il diritto rivendicato diventa realmente effettivo solo al momento dell’esecuzione (vedi, tra gli altri precedenti, Di Pede contro l’Italia e Zappia contro l’Italia, sentenze del 26 settembre 1996, Reports 1996 – IV, p. 1384, pp.22, 24 e 26, e pagg. 1411-12, pp.18. 20, 22, e, mutatis mutandis, Silvia Pontes contro il Portogallo, sentenza del 23 marzo 1994, Serie A n. 286-A, p. 14, p.33). 89. La Corte afferma altresì che è inopportuno chiedere a una persona, che ha ottenuto una sentenza contro lo Stato, alla fine di un procedimento giudiziario, di proporre poi un procedimento di esecuzione per ottenere soddisfazione.
Segue che l’erogazione tardiva, dopo un procedimento di esecuzione forzata, delle somme dovute al ricorrente non rimedia al rifiuto prolungato da parte delle autorità nazionali di rispettare la sentenza e non offre un’adeguata riparazione (vedi Metaxas, citata supra p.19. e Karahalios contro la Grecia, n. 62503/00, p.23, 11 dicembre 2003). Inoltre, alcuni Stati, come la Slovacchia e la Croazia, hanno persino stabilito una data entro la quale deve essere erogato il pagamento, cioè due e tre mesi rispettivamente (vedi Andrksik e altri contro la Slovacchia, e Slavicek contro la Croazia, citata supra). La Corte può ammettere che le autorità abbiano bisogno di un certo periodo di tempo per erogare il pagamento. Tuttavia, per un rimedio risarcitorio ideato per riparare alle conseguenze di un procedimento eccessivamente lungo, questo periodo non deve generalmente superare i sei mesi dalla data in cui la decisione che concede l’indennizzo diventa esecutiva. 90. Come la Corte ha già ribadito in molte occasioni, un’autorità statale non può citare la mancanza di fondi come scusa per non onorare il debito derivante da una sentenza (vedi, tra molti altri precedenti, Burdov, citata supra p.35). […] 100. Tuttavia la Corte ritiene inaccettabile che dopo più di tre anni dal deposito della sentenza in cancelleria il ricorrente non abbia ancora ricevuto il risarcimento e sia stato costretto a proporre un procedimento di esecuzione che gli comporterà altre spese;
che analoghi o connessi principi sono stati affermati, più recentemente, ex plurimis, con le sentenze 5 luglio 2007 (Locate/li contro Italia, n. 25), 21 dicembre 2010 (Belperio e Ciarmoli contro Italia, nn. da 39 a 49) e 27 settembre 2011 (CE.DI.SA. Fortore s.n.c. contro Italia, nn. da 34 a 41);
che, del resto, la stessa Corte costituzionale ha più volte affermato che la previsione di una fase di esecuzione coattiva delle decisioni di giustizia, in quanto connotato intrinseco ed essenziale della stessa funzione giurisdizionale, deve ritenersi costituzionalmente necessaria;
che in particolare, con le sentenze nn. 419 e 435 del 1995, il Giudice delle leggi – in due casi analoghi di conflitti di attribuzione tra poteri dello Stato che vedevano contrapposti il Consiglio superiore della magistratura ed organi giurisdizionali amministrativi – ha affermato: […] la Costituzione accoglie il principio in base al quale il potere dell’amministrazione merita tutela solo sul presupposto della legittimità del suo esercizio, demandando agli organi di giustizia il potere di sindacato – pieno, ai sensi del secondo comma dell’art. 113 della Costituzione – sull’esistenza di tale presupposto. A ciò si aggiunga che il contenuto tipico della pronuncia giurisdizionale è proprio quello di esprimere la volontà concreta della legge o, più esattamente, la normativa per il caso concreto (come si è felicemente precisato in dottrina) che deve essere attuata nella vicenda sottoposta a giudizio. 7. – Tutto ciò comporta innegabilmente […] che, una volta intervenuta una pronuncia giurisdizionale la quale riconosca come ingiustamente lesivo dell’interesse del cittadino un determinato comportamento dell’amministrazione, incombe su quest’ultima l’obbligo di conformarsi ad essa; ed il contenuto di tale obbligo consiste appunto nell’attuazione di quel risultato pratico, tangibile, riconosciuto come giusto e necessario dal giudice. Ma proprio in base al già ricordato principio di effettività della tutela deve ritenersi connotato intrinseco della stessa funzione giurisdizionale, nonché dell’imprescindibile esigenza di credibilità collegata al suo esercizio, il potere di imporre, anche coattivamente in caso di necessità, il rispetto della statuizione contenuta nel giudicato e, quindi, in definitiva, il rispetto della legge stessa. Una decisione di giustizia che non possa essere portata ad effettiva esecuzione (eccettuati i casi di impossibilità dell’esecuzione in forma specifica) altro non sarebbe che un’inutile enunciazione di principi, con conseguente violazione degli artt. 24 e 113 della Costituzione, i quali garantiscono il soddisfacimento effettivo dei diritti e degli interessi accertati in giudizio nei confronti di qualsiasi soggetto: e quindi anche nei confronti di qualsiasi atto della pubblica autorità, senza distinzioni di sorta […]. In questi termini la previsione di una fase di esecuzione coattiva delle decisioni di giustizia, in quanto connotato intrinseco ed essenziale della stessa funzione giurisdizionale, deve ritenersi costituzionalmente necessaria (il principio secondo cui la garanzia della tutela giurisdizionale posta dall’articolo 24, primo comma, Cost. comprende anche la fase dell’esecuzione forzata, la quale è diretta a rendere effettiva l’attuazione del provvedimento giurisdizionale, è stato successivamente più volte ribadito: cfr., ex pluhmis, le sentenze nn. 321 del 1998 e 198 del 2010);
che pertanto, alla luce, da un lato, della richiamata sentenza delle Sezioni Unite n. 27365 del 2009 e, dall’altro, della richiamata giurisprudenza della Corte EDU e della Corte costituzionale, la questione – se la durata del processo esecutivo, promosso in ragione del ritardo dell’Amministrazione nel pagamento dell’indennizzo dovuto in forza del titolo esecutivo, costituito dal decreto di condanna pronunciato dalla corte d’appello ai sensi dell’art. 3 della legge n. 89 del 2001 ed azionato appunto nelle forme del processo esecutivo, debba o no essere calcolata ai fini del computo della durata irragionevole del processo per equa riparazione, e, più in generale, se la durata del processo esecutivo, promosso per la realizzazione della situazione giuridica soggettiva di vantaggio fatta valere nel processo presupposto con esito positivo, debba o no essere calcolata ai fini del computo della durata irragionevole dello stesso processo presupposto – merita, ad avviso del Collegio, di essere (nuovamente) sottoposta al vaglio delle Sezioni Unite, quale questione di massima di particolare importanza, ai sensi dell’art. 374, secondo comma, cod. proc. civ.”.
2. – Assegnato il ricorso alle Sezioni Unite, ambedue le parti hanno depositato memoria.
All’esito dell’odierna udienza di discussione, il Procuratore generale ha concluso per l’accoglimento del ricorso.

Motivi della decisione

1. – Con il primo (con cui deduce: “Violazione dell’articolo 6, paragrafo 1, della Convenzione Europea, dell’articolo 2 della Legge 89/2001, dell’articolo 111 della Costituzione – Violazione del diritto vivente come interpretato dai Giudici Europei (chose interprete)”) e con il secondo motivo (con cui deduce: “Erronea ed insufficiente motivazione circa un fatto decisivo – art. 360 n. 5 c.p.c.”) – i quali possono essere esaminati congiuntamente, avuto riguardo alla loro stretta connessione -, il ricorrente critica il decreto impugnato, anche sotto il profilo dei vizi della motivazione, sostenendo che: a) esso viola il principio più volte affermato dalla Corte EDU, secondo cui ‘il procedimento di equa riparazione, conclusosi con decreto di condanna, deve essere fisiologicamente eseguito dalla Amministrazione debitrice nel termine di sei mesi e cinque giorni dalla data di deposito del decreto (I fase). Trascorso inutilmente tale termine, inizia a decorrere un ulteriore periodo di durata irragionevole (II fase) destinato a concludersi con il pagamento delle somme dovute a titolo di equa riparazione’; b) i Giudici a quibus hanno del tutto omesso di considerare che la Corte EDU, in un caso analogo, ha affermato: “La Corte ricorda che il diritto all’accesso a un tribunale garantito dall’art. 6 p.1 della Convenzione sarebbe illusorio se l’ordinamento di uno Stato Contraente permettesse che una decisione giudiziaria definitiva ed obbligatoria resti inoperante a danno di una parte. L’esecuzione di una sentenza, da qualunque giurisdizione promani, deve essere considerata come facente parte integrante del ‘processo’ ai sensi dell’art. 6” della CEDU (viene richiamata la menzionata sentenza del 5 luglio 2007, Locatelli contro Italia).
2. – La fattispecie sottostante al presente ricorso è disciplinata, ratione temporis, dalla legge 24 marzo 2001, n. 89, nel testo originario, anteriore cioè alle modificazioni apportatevi dall’art. 55, comma 1, del d.l. 22 giugno 2012, n. 83 (Misure urgenti per la crescita del Paese), convertito in legge, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 7 agosto 2012, n. 134, modificazioni che si applicano ai procedimenti promossi a far data dall’11 settembre 2012 (art. 55, comma 2).
Tale fattispecie sta in ciò, che – chiesta ed ottenuta dalla Corte d’Appello di Firenze, con decreto definitivo di condanna ed esecutivo ex lege (art. 3, comma 6, secondo periodo, della legge n. 89 del 2001), una somma a titolo di equa riparazione, oltre interessi, per l’irragionevole durata del processo amministrativo presupposto, ai sensi della stessa legge n. 89 del 2001 – il ricorrente, titolare del relativo diritto all’indennizzo ed agli interessi, nell’asserito perdurante inadempimento dell’obbligo di pagamento di detta somma da parte della competente Amministrazione, protrattosi per oltre sei mesi e cinque giorni, ha promosso processo di esecuzione forzata, nella forma dell’espropriazione presso terzi, per la realizzazione dello stesso diritto, processo esecutivo durato meno di tre anni e conclusosi con ordinanza di assegnazione del credito; successivamente, il ricorrente medesimo ha promosso dinanzi alla stessa Corte d’Appello di Firenze altro giudizio ai sensi della medesima legge n. 89 del 2001, ivi proponendo domanda di (ulteriore) equa riparazione.
Come già rilevato (cfr., supra, Svolgimento del processo, n. 1.2.), la Corte d’Appello di Firenze, con il decreto impugnato, ha rigettato la domanda, affermando: “Risulta dal ricorso del S. che l’equa riparazione non viene chiesta in relazione alla eccessiva durata del processo esecutivo, bensì al ritardo nel pagamento. […] la domanda di equa riparazione ex art. 3 L. 89/2001 può essere proposta unicamente in relazione ad una fattispecie dannosa che si concreti in una durata del processo che eccede quella ragionevole (art. 6, par. I, della Convenzione). La parte istante ha escluso che la doglianza sia correlata ad una durata eccessiva del processo esecutivo che è stata costretta ad intraprendere […] e la domanda non è riconducibile alla L. 89/2001”.
In altri termini, i Giudici a quibus – qualificata la domanda siccome domanda di equa riparazione per il ritardo nel pagamento dei già riconosciuti indennizzo ed interessi da irragionevole durata del processo amministrativo presupposto – hanno escluso che una domanda siffatta sia riconducibile nell’ambito di applicazione della legge n. 89 del 2001. Questa affermazione ne presuppone, all’evidenza, altre: cioè, che la ‘realizzazione’ – la quale include, ovviamente, anche il tempo trascorso (ritardo) per ottenerla – del diritto a detto indennizzo – sulla base del medesimo ‘titolo’ fatto valere e riconosciuto nel processo di cognizione promosso ai sensi della legge n. 89 del 2001 -, mediante lo strumento della stessa legge n. 89 del 2001 (domanda di ulteriore equa riparazione per il ritardo nella realizzazione), eccede l’ambito applicativo di tale legge, e che il processo di esecuzione forzata eventualmente promosso per la realizzazione medesima, essendo del tutto autonomo rispetto al processo di cognizione di formazione del titolo, in tanto determina il diritto ad un (ulteriore) indennizzo in quanto ecceda il termine della sua ragionevole durata (tre anni secondo il costante orientamento di questa Corte, nella specie non superato).
Com’è noto, questa ricostruzione si fonda, sostanzialmente, soprattutto sul principio di diritto enunciato dalle Sezioni Unite, secondo cui, in tema di violazione della ragionevole durata del processo ai sensi della legge 24 marzo 2001, n. 89, tale processo deve essere individuato – in base all’art. 6 della Convenzione Europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali adottata a Roma il 4 novembre 1950 e resa esecutiva in Italia dalla legge 4 agosto 1955, n. 848 – sulla base delle situazioni soggettive controverse ed azionate sulle quali il giudice adito deve decidere, situazioni che, per effetto della norma convenzionale, sono ‘diritti e obblighi’ cui, avuto riguardo agli artt. 24, 111 e 113 Cost., devono aggiungersi gli interessi legittimi fatti valere dinanzi ai giudici amministrativi, con la conseguenza che, in rapporto a tale criterio distintivo, il processo di cognizione e quello di esecuzione, regolati dal codice di procedura civile, nonché quello di cognizione del giudice amministrativo e il processo di ottemperanza, volto a far conformare la Pubblica Amministrazione a quanto deciso in sede di cognizione, devono considerarsi, sul piano funzionale e strutturale, tra loro autonomi, in relazione, appunto, alle differenti situazioni soggettive azionate in ciascuno di essi, con l’ulteriore conseguenza che, in ragione di detta autonomia, le durate dei giudizi (di cognizione, da un canto, e di esecuzione o di ottemperanza, dall’altro) non possono sommarsi per rilevarne una complessiva (cfr., ex plurimis, la sentenza n. 27365 del 2009, preceduta dalle conformi sentenze delle sezioni semplici nn. 1732 del 2009 e 25529 del 2006).
Alla luce pertanto, da un lato, della su descritta fattispecie e, dall’altro, dei principi enunciati con l’ora richiamata sentenza n. 27365 del 2009, le questioni sottoposte a queste Sezioni Unite possono essere così formulate (in parziale correzione di quelle formulate con la su riprodotta ordinanza di rimessione): a) se il ritardo nella ‘realizzazione’ del diritto all’indennizzo ed agli interessi, di cui alla legge 24 marzo 2001, n. 89, già fatto valere e riconosciuto nel processo di cognizione promosso ai sensi della stessa legge n. 89 del 2001 – realizzazione che include anche il tempo trascorso per ottenerla (ritardo nel pagamento dell’indennizzo, appunto) – possa o no esser fatto valere mediante lo strumento della medesima legge n. 89 del 2001, vale a dire mediante domanda di (ulteriore) equa riparazione per il ritardo nella realizzazione, e se, in particolare, il processo di esecuzione forzata, eventualmente promosso per ottenere la realizzazione medesima, possa qualificarsi o no del tutto autonomo rispetto al precedente processo di cognizione di formazione del titolo; b) se il rimedio al ritardo nell’adempimento della Pubblica Amministrazione – per il tempo trascorso tra il definitivo riconoscimento del diritto all’indennizzo e la realizzazione di tale diritto (pagamento) – debba necessariamente consistere in un ulteriore indennizzo liquidato al titolare del diritto ai sensi della legge n. 89 del 2001, ovvero possa consistere anche nel riconoscimento degli interessi moratori.
3. – Come correttamente osservato nella su riprodotta ordinanza di rimessione a queste Sezioni Unite, occorre prender le mosse dal principio costituzionale di ‘effettività’ della tutela giurisdizionale, di cui agli artt. 24, primo comma, 111, primo e secondo comma, e 113, primo e secondo comma, Cost. (principio che, già affermato dall’art. 13 della CEDU, è ormai ‘codificato’ anche nei testi normativi più recenti: cfr. al riguardo, per esempio, l’art. 47, prf. 1, della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, cosiddetta ‘Carta di Nizza’ – che, sotto la rubrica “Diritto a un ricorso effettivo e a un giudice imparziale”, dispone che “Ogni persona i cui diritti e le cui libertà garantiti dal diritto dell’Unione siano stati violati ha diritto a un ricorso effettivo dinanzi a un giudice, nel rispetto delle condizioni previste nel presente articolo”, e che ha, in forza dell’art. 6, prf. 1, del Trattato sull’Unione Europea, “lo stesso valore giuridico dei trattati”, nonché l’art. 1 del codice del processo amministrativo, approvato con il d.lgs. 2 luglio 2010, n. 104, secondo cui “La giurisdizione amministrativa assicura una tutela piena ed effettiva secondo i principi della Costituzione e del diritto Europeo”).
Il rispetto di tale principio esige che la ‘tutela giurisdizionale’ non si esaurisca nel diritto di accesso al giudice, a tutti garantito, ma comprenda qualsiasi attività processuale prevista dall’ordinamento, anche successiva alla proposizione della domanda, volta a rendere effettiva e concreta, appunto, la tutela giurisdizionale dei diritti e, più in generale, delle situazioni giuridiche soggettive sostanziali, individuali o collettive, di vantaggio, ed esige perciò che tali situazioni giuridiche soggettive, fatte valere e definitivamente riconosciute in sede giurisdizionale, siano ‘realizzate’ in favore del suo titolare, secondo adeguati strumenti predisposti dall’ordinamento, con l’ottenimento del ‘bene della vita’ che ne costituisce l’oggetto, ovviamente fin dove giuridicamente possibile.
Al riguardo, sono inequivocabili in tal senso le affermazioni della Corte costituzionale:
“[…] proprio in base al […] principio di effettività della tutela deve ritenersi connotato intrinseco della stessa funzione giurisdizionale, nonché dell’imprescindibile esigenza di credibilità collegata al suo esercizio, il potere di imporre, anche coattivamente in caso di necessità, il rispetto della statuizione contenuta nel giudicato e, quindi, in definitiva, il rispetto della legge stessa. Una decisione di giustizia che non possa essere portata ad effettiva esecuzione (eccettuati i casi di impossibilità dell’esecuzione in forma specifica) altro non sarebbe che un’inutile enunciazione di principi, con conseguente violazione degli artt. 24 e 113 della Costituzione, i quali garantiscono il soddisfacimento effettivo dei diritti e degli interessi accertati in giudizio nei confronti di qualsiasi soggetto […] In questi termini la previsione di una fase di esecuzione coattiva delle decisioni di giustizia, in quanto connotato intrinseco ed essenziale della stessa funzione giurisdizionale, deve ritenersi costituzionalmente necessaria” (così, la sentenza n. 419 del 1995, n. 6. del Considerato in diritto, e, nei medesimi termini, la sentenza n. 435 del 1995, n. 7. del Considerato in diritto). Ed il “principio secondo cui la garanzia della tutela giurisdizionale posta dall’articolo 24, primo comma, Cost. comprende anche la fase dell’esecuzione forzata, la quale è diretta a rendere effettiva l’attuazione del provvedimento giurisdizionale”, è stato successivamente più volte ribadito dalla stessa Corte costituzionale (cfr., ex plurimis, le sentenze nn. 321 del 1998 e 198 del 2010).
Principi sostanzialmente analoghi, significativamente consonanti anche nel linguaggio utilizzato – come, ad esempio, la denominazione “fase” che, designando l’esecuzione forzata di una situazione giuridica soggettiva sostanziale di vantaggio già riconosciuta nella precedente ‘fase’ della cognizione, allude chiaramente ad un processo ‘unico’ -, sono stati costantemente affermati dalla Corte Europea dei diritti dell’uomo, fino alle numerose decisioni più recenti, in sede di interpretazione dell’art. 6, prf. 1, della CEDU.
In particolare, con la sentenza della Grande Camera del 29 marzo 2006 (Cocchiarella contro Italia) – in una fattispecie strettamente analoga a quella in esame -, la Corte di Strasburgo ha, tra l’altro testualmente affermato:
“87. […] la Corte rammenta la propria giurisprudenza secondo la quale il diritto di accesso a un tribunale, garantito dall’articolo 6, p.1, della Convenzione, sarebbe illusorio se l’ordinamento giuridico interno di uno Stato Contraente consentisse a una decisione giudiziaria irrevocabile e vincolante di rimanere inoperante a detrimento di una parte. L’esecuzione della sentenza resa dal giudice deve pertanto essere considerata come parte integrante del processo ai fini dell’articolo 6 (vedi, inter alia, Hornsby contro la Grecia, sentenza del 19 marzo 1997, Reports 1997 – II, pagg. 510-11, p.40 e segg., e Metaras contro la Grecia, n. 8415/02, p.25, 27 maggio 2004)”.
Con tale sentenza – originata, come detto, da sistematici denunciati ritardi della Pubblica Amministrazione italiana nel pagamento del già riconosciuto indennizzo per l’irragionevole durata del processo, di cui alla legge n. 89 del 2001 -, la Corte EDU ha sottolineato altresì (n. 88) che “nei ricorsi in tema di durata della causa civile, il procedimento di esecuzione costituisce la seconda fase del procedimento e il diritto rivendicato diventa realmente effettivo [réalisation effective] solo al momento dell’esecuzione” (cfr., ex plurimis, nei medesimi termini, la successiva sentenza 31 marzo 2009, Simaldone contro Italia -, laddove è stato fra l’altro ribadito: “42. En ce qui concerne l’article 6 § 1 de la Convention, la Cour rappelle que le droit à un tribunal garanti par cette disposition inclut le droit à l’exécution d’une decision judiciaire definitive et obiigatoire et que l’exécution d’un jugement doit atre considérée comme faisant partie integrante du procès au sens de l’article 6 (voir, notamment, Hornsby c. Grece, 19 mars 1997, p.40 et suiv., Recueil 1997 II; Metaxas c. Grece, no 8415/02, p.25, 27 mai 2004). L’exécution étant la seconde phase de la procedure au fond, le droit revendiqué ne trouve sa réalisation effective qu’au moment de l’exécution (voir, entre autres, les arrèts Di Fede c. Italie et Zappia c. Italie, 26 septembre 1996, respectivement pp.22, 24, 26 et 18, 20, 22, Recueil 1996 IV; mutatis mutandis, Silva Pontes c. Portugal, 23 mars 1994, p.33, sèrie A no 286 A)” -, nonché la sentenza 21 dicembre 2010, Gaglione ed altri contro Italia).
Se, dunque, “la previsione di una fase di esecuzione coattiva delle decisioni di giustizia, in quanto connotato intrinseco ed essenziale della stessa funzione giurisdizionale, deve ritenersi costituzionalmente necessaria” nel sistema delineato dagli artt. 24, primo comma, 111, primo e secondo comma, e 113, primo e secondo comma, Cost. per l’affermazione del principio di ‘effettività’ della tutela giurisdizionale; se “l’esecuzione della sentenza resa dal giudice deve […] essere considerata come parte integrante del processo ai fini dell’articolo 6” della CEDI) e se, perciò, “il procedimento di esecuzione costituisce la seconda fase del procedimento e il diritto rivendicato diventa realmente effettivo solo al momento dell’esecuzione”, ne consegue necessariamente, sia pure in linea di principio, che – secondo una ricostruzione costituzionalmente e ‘convenzionalmente’ orientata, rispettosa cioè sia delle citate norme costituzionali sia dell’art. 6, prf. 1, della CEDU, come interpretato dalla Corte di Strasburgo – per processo “giusto” (art. 111, primo comma, Cost.) ed “equo” (rubrica dell’art. 6 della CEDU) deve anche intendersi il procedimento giurisdizionale considerato come procedimento unico che, cioè, ha inizio con l’accesso al giudice e fine con l’esecuzione della decisione, definitiva ed obbligatoria, dallo stesso pronunciata in favore del soggetto riconosciuto titolare della situazione giuridica soggettiva sostanziale di vantaggio fatta valere nel processo medesimo.
Da tale ricostruzione, in particolare, consegue ulteriormente che – allorquando, nel processo civile o amministrativo, sia stata fatta valere dinanzi al giudice una situazione giuridica soggettiva sostanziale di vantaggio e questa sia stata riconosciuta al suo titolare con decisione definitiva ed obbligatoria (‘fase’ processuale della cognizione) e, tuttavia, tale decisione non sia stata spontaneamente ottemperata dall’obbligato ed il titolare abbia scelto di promuovere l’esecuzione del titolo così ottenuto (‘fase’ processuale dell’esecuzione forzata o dell’ottemperanza) – la garanzia costituzionale di effettività della tutela giurisdizionale e l’art. 6, prf. 1, della CEDU, come interpretato dalla Corte di Strasburgo, impongono di considerare tale articolato e complesso procedimento come un ‘unico processo’ scandito, appunto, da ‘fasi’ consequenziali e complementari (un’applicazione pratica, tra le altre possibili, di tale principio del processo ‘unico’ è data, per esempio, dal costante orientamento di questa Corte, secondo cui, in tema di spese processuali, l’individuazione del soccombente deve essere operata in relazione all’esito finale del processo considerato nel suo insieme, secondo una valutazione globale ed unitaria per la quale non rilevano né l’esito delle varie fasi o gradi dello stesso né la pronuncia emessa sui singoli oggetti di domanda: cfr., ex plurimis e tra le ultime, la sentenza n. 19158 del 2013).
In tale prospettiva, di attuazione della predetta garanzia costituzionale e, al contempo, dell’art. 6, prf. 1, della CEDU – che, quale “norma interposta”, ‘integra il parametro’ costituito dall’art. 117, primo comma, Cost., nella parte in cui dispone che “La potestà legislativa è esercitata dallo Stato e dalle Regioni nel rispetto della Costituzione, nonché dei vincoli derivanti […] dagli obblighi internazionali” (cfr., ex plurimis, le sentenze della Corte costituzionale nn. 348 e 349 del 2007, 80 del 2011) -, si attenuano, fino a scomparire, le ‘differenze funzionali e strutturali’ (richiamate dalla menzionata sentenza delle Sezioni Unite n. 27365 del 2009) tra processo di cognizione e processo di esecuzione forzata – peraltro certamente esistenti e rilevanti ad altri fini, vale a dire sul piano dell’interpretazione e dell’applicazione della disciplina processuale dettata dalla legislazione ordinaria -.
4. – Un’applicazione di tali principi può rinvenirsi proprio nel processo per l’equa riparazione da irragionevole durata del processo ‘presupposto’, disciplinato dalla legge n. 89 del 2001, processo (cosiddetto processo ‘Pinto’) al quale si riferiscono esplicitamente numerosissime sentenze della Corte EDU, come la su menzionata sentenza della Grande Camera del 29 marzo 2006 (Cocchiarella contro Italia), laddove (n. 88) si afferma, in particolare, che “nei ricorsi in tema di durata della causa civile, il procedimento di esecuzione costituisce la seconda fase del procedimento e il diritto rivendicato diventa realmente effettivo solo al momento dell’esecuzione”, coincidente appunto con la “réalisation effective”, nei sensi dianzi precisati, del diritto all’equa riparazione per l’irragionevole durata del processo presupposto, fatto valere e riconosciuto nella precedente ‘fase’ della cognizione (cfr. anche, ex plurimis, la sentenza 16 luglio 2013, Gagliardi contro Italia, n. 57).
La Corte EDU inoltre, nel ribadire costantemente i condivisi principi dianzi menzionati e, in particolare, l’unicità di tale processo, scandito dalle due predette ‘fasi’, ha ritenuto integrata la violazione dell’art. 6, prf. 1, della Convenzione – sotto l’autonomo profilo del “diritto all’esecuzione delle decisioni interne esecutive” – anche ai casi di ritardo nel pagamento dell’indennizzo (e degli interessi) conseguiti all’esito favorevole della ‘fase’ di cognizione del processo promosso ai sensi della legge n. 89 del 2001 (“La Corte rammenta che nelle sentenze Simaldone c. Italia, […] e Gaglione ed altri c. Italia […] il ritardo nel pagamento delle somme Pinto costituisce una violazione autonoma dell’articolo 6 della Convenzione (diritto all’esecuzione delle decisioni interne esecutive). Essa non vede motivi per derogare a tale approccio”: sentenza 16 luglio 2013, Gagliardi contro Italia, n. 50).
L’interpretazione dell’art. 6, prf. 1, della CEDU, operata dalla Corte di Strasburgo con tali pronunce, comporta perciò – tra le altre possibili – la necessaria distinzione fra il diritto ad un processo di durata ragionevole e l’”autonomo” diritto all’esecuzione delle decisioni interne esecutive, ancorché tali diritti siano entrambi compresi nella garanzia del “processo equo” ed idonei a generare, se violati, il diritto ad un’”equa soddisfazione” ai sensi dell’art. 41 della Convenzione.
4.1. – Tenuto conto delle considerazioni che precedono, gli affermati principi di effettività della tutela giurisdizionale e di conseguente unicità anche del processo Pinto, scandito dalle due predette ‘fasi’, non comportano tuttavia, di per sé soli, che l’art. 2, comma 1, della legge n. 89 del 2001 (il cui testo non ha subito modificazioni ad opera del citato art. 55, comma 1, del d.l. n. 83 del 2012) – laddove prevede che “Chi ha subito un danno patrimoniale o non patrimoniale per effetti di violazione della Convenzione […], sotto il profilo del mancato rispetto del termine ragionevole di cui all’articolo 6, paragrafo 1, […] ha diritto ad un’equa riparazione” – sia, nell’ordinamento italiano, la norma sostanziale astrattamente idonea ad assicurare la tutela di entrambi i predetti diritti, non comportano cioè che, oltre al diritto ad un processo di durata ragionevole, anche l’”autonomo” diritto all’esecuzione delle decisioni interne esecutive possa esser fatto valere utilizzando lo strumento dello stesso processo Pinto.
Anzi, sia la genesi della legge Pinto – sollecitata insistentemente in sede Europea ed introdotta proprio per porre rimedio all’irragionevole durata dei processi nell’ordinamento processuale italiano -, sia la ‘lettera’ dell’ora menzionato art. 2, comma 1, inducono a ritenere, invece, che l’”autonomo” diritto all’esecuzione delle decisioni interne esecutive, individuato dalla Corte di Strasburgo come fonte, autonoma appunto, della tutela contro i ritardi della Pubblica Amministrazione nel pagamento delle somme portate dai decreti Pinto esecutivi, non è riconducibile alla previsione dello stesso art. 2, comma 1, ed alle fattispecie ivi prefigurate.
Tale conclusione, tuttavia, potrebbe ingenerare seri dubbi di conformità alla Convenzione – e, conseguentemente, di conformità alla Costituzione, ai sensi dell’art. 117, primo comma, in relazione all’art. 6, prf. 1, della CEDU – dell’affermata non riconducibilità alla menzionata disposizione interna anche del diritto “all’esecuzione delle decisioni interne esecutive”. Ma tali dubbi – tenuto conto delle ricordate genesi e ‘lettera’ di tale disposizione interna – non possono essere superati sul piano ermeneutico né alla luce dell’interpretazione dell’art. 6, prf. 1, della Convenzione operata dalla Corte di Strasburgo, siccome comprensivo dell’”autonomo” diritto all’esecuzione delle decisioni interne esecutive, né in base al rilievo che la stessa ‘lettera’ dell’art. 2, comma 1, della legge n. 89 del 2001 (“mancato rispetto del termine ragionevole di cui all’articolo 6, paragrafo 1” della CEDU) consentirebbe, secondo tale interpretazione, la comprensione in essa anche delle fattispecie di ritardo nel pagamento delle somme riconosciute dal decreto Pinto esecutivo. Ciò, in definitiva, perché il fenomeno di questi endemici ritardi della Pubblica Amministrazione, denunciati più volte dalla stessa Corte Europea, è stato certamente estraneo all’intenzione del legislatore del 2001.
Né detti dubbi di legittimità costituzionale dell’art. 2, comma 1, della legge Pinto – nella parte in cui non prevede, e quindi preclude, la tutela, mediante il processo Pinto, anche delle fattispecie di ritardo nel pagamento delle somme riconosciute dal decreto Pinto esecutivo -possono, ad avviso del Collegio, essere sottoposti allo scrutinio del Giudice delle leggi: ciò, proprio alla luce della sua recente e specifica giurisprudenza.
Infatti, la Corte costituzionale – investita dalla Corte d’Appello di Bari della questione di legittimità costituzionale dell’art. 4 della legge n. 89 del 2001, nel testo sostituito dall’art. 55, comma 1, lettera d), del decreto-legge 22 giugno 2012, n. 83 (Misure urgenti per la crescita del Paese), convertito in legge, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 7 agosto 2012, n. 134, in riferimento agli artt. 3, 111, secondo comma, e 117, primo comma, della Costituzione, quest’ultimo in relazione all’art. 6, paragrafo 1, della CEDU, nella parte in cui preclude(rebbe) la proposizione della domanda di equa riparazione durante la pendenza del procedimento nel cui ambito la violazione si assume verificata -, con la recente sentenza n. 30 del 25 febbraio 2014, ha dichiarato inammissibile tale questione.
Ciò, “per due ordini di ragioni, inscindibilmente connessi. Infatti, l’intervento additivo invocato dal rimettente – consistente sostanzialmente in un’estensione della fattispecie relativa all’indennizzo conseguente al processo tardivamente concluso a quella caratterizzata dalla pendenza del giudizio – non è possibile, sia per l’inidoneità dell’eventuale estensione a garantire l’indennizzo della violazione verificatasi in assenza della pronuncia irrevocabile, sia perché la modalità dell’indennizzo non potrebbe essere definita ‘a rime obbligate’ a causa della pluralità di soluzioni normative in astratto ipotizzabili a tutela del principio della ragionevole durata del processo” (n. 4. del Considerato in diritto).
E, nella prospettiva in questa sede indicata, debbono essere sottolineate anche le osservazioni conclusive della Corte: “[…] la Convenzione accorda allo Stato aderente ampia discrezionalità nella scelta del tipo di rimedio interno tra i molteplici ipotizzabili, ma nel caso in cui opti per quello risarcitorio, detta discrezionalità incontra il limite dell’effettività, che deriva dalla natura obbligatoria dell’art. 13 CEDU (Grande Camera, sentenza 29 marzo 2006, Cocchiarella contro Italia), secondo il quale: Ogni persona i cui diritti e le cui libertà riconosciuti nella presente Convenzione siano stati violati, ha diritto ad un ricorso effettivo davanti a un’istanza nazionale […]. È specificamente sotto tale profilo -peraltro oggetto di censura da parte del rimettente – che il rimedio interno, come attualmente disciplinato dalla legge Finto, risulta carente. La Corte EDU, infatti, ha ritenuto che il differimento dell’esperibilità del ricorso alla definizione del procedimento in cui il ritardo è maturato ne pregiudichi l’effettività e lo renda incompatibile con i requisiti al riguardo richiesti dalla Convenzione (sentenza 21 luglio 2009, Lesjak contro Slovenia). Il vulnus riscontrato e la necessità che l’ordinamento si doti di un rimedio effettivo a fronte della violazione della ragionevole durata del processo, se non inficiano – per le ragioni già esposte – la ritenuta inammissibilità della questione e se non pregiudicano la priorità di valutazione da parte del legislatore sulla congruità dei mezzi per raggiungere un fine costituzionalmente necessario (sentenza n. 23 del 2013), impongono tuttavia di evidenziare che non sarebbe tollerabile l’eccessivo protrarsi dell’inerzia legislativa in ordine al problema individuato nella presente pronuncia (sentenza n. 279 del 2013)” (n. 4.1. del Considerato in diritto).
Sono, queste ora richiamate, le medesime ragioni per le quali il Collegio non ritiene di sollevare d’ufficio il su prospettato dubbio di legittimità costituzionale dell’affermata non riconducibilità alla disposizione, di cui all’art. 2, comma 1, della legge n. 89 del 2001, anche della tutela del diritto “all’esecuzione delle decisioni interne esecutive” e, quindi, delle fattispecie di ritardo della Pubblica Amministrazione nel pagamento delle somme riconosciute dal decreto Pinto esecutivo: infatti, non v’è alcun dubbio che la scelta – tra le molteplici possibili – del rimedio effettivo a tale ritardo è attribuita anche dalla stessa Convenzione Europea all’”ampia discrezionalità” del legislatore.
4.2. – Tuttavia, la rilevanza pratica di detta distinzione tra i due diritti si manifesta alla luce delle singole fattispecie come concretamente dedotte in giudizio, essendo decisivo, come si vedrà in dettaglio (v., infra, n. 5), il principio della domanda (art. 99 cod. proc. civ.), in forza del quale la tutela di ogni singola fattispecie deve essere differenziata a seconda che il ricorrente abbia chiesto l’equa riparazione per la durata irragionevole del processo Pinto ovvero per il ritardo nel pagamento dei già riconosciuti indennizzo ed interessi oggetto della pronuncia di condanna con il decreto Pinto definitivo.
4.3. – Prima di procedere a tale analisi, deve aggiungersi che, con la stessa sentenza del 29 marzo 2006 (Cocchiarella), la Corte Europea ha anche affermato:
“[…] è inopportuno chiedere a una persona, che ha ottenuto una sentenza contro lo Stato, alla fine di un procedimento giudiziario, di proporre poi un procedimento di esecuzione per ottenere soddisfazione. Segue che l’erogazione tardiva, dopo un procedimento di esecuzione forzata, delle somme dovute al ricorrente non rimedia al rifiuto prolungato da parte delle autorità nazionali di rispettare la sentenza e non offre un’adeguata riparazione (vedi Metaxas, citata supra p.19. e Karahalios contro la Grecia, n. 62503/00, p.23, 11 dicembre 2003) […] La Corte può ammettere che le autorità abbiano bisogno di un certo periodo di tempo per erogare il pagamento. Tuttavia, per un rimedio risarcitorio ideato per riparare alle conseguenze di un procedimento eccessivamente lungo, questo periodo non deve generalmente superare i sei mesi dalla data in cui la decisione che concede l’indennizzo diventa esecutiva” (n. 89); “Come la Corte ha già ribadito in molte occasioni, un’autorità statale non può citare la mancanza di fondi come scusa per non onorare il debito derivante da una sentenza […]” (n. 90); “[nel caso di specie] la Corte ritiene inaccettabile che dopo più di tre anni dal deposito della sentenza in cancelleria il ricorrente non abbia ancora ricevuto il risarcimento e sia stato costretto a proporre un procedimento di esecuzione che gli comporterà altre spese” (n. 100; analoghi o connessi principi sono stati affermati, più recentemente, ex plurimis, con le sentenze 5 luglio 2007, Locatelli contro Italia, n. 25, 21 dicembre 2010, Belperio e Ciarmoli contro Italia, nn. da 39 a 49, e 27 settembre 2011, CE.DI.SA. Fortore s.n.c. contro Italia, nn. da 34 a 41).
In tutti questi casi – di ritardo nel pagamento dell’indennizzo e degli interessi riconosciuti in via definitiva ai sensi della legge n. 89 del 2001 -la Corte EDU, adita in via diretta, ha accordato ai ricorrenti una somma a titolo di ‘equa soddisfazione’ ai sensi dell’art. 41 della Convenzione, più volte ritenendo peraltro insufficiente (‘non determinante’), quale rimedio a detto ritardo, il riconoscimento dei soli interessi moratori (cfr. al riguardo, ex plurimis, le sentenze 10 dicembre 2013, Limata ed altri contro Italia, n. 24, e 31 marzo 2009, Simaldone contro Italia, n. 63, cit.).
5. – Sulla base di detti principi e delle conseguenti precisazioni della Corte di Strasburgo, si possono individuare le seguenti fattispecie tipiche, distinte secondo il ‘principio della domanda’: a seconda cioè che il ricorrente – si sottolinea: con appropriate e specifiche deduzioni anche in punto di fatti costitutivi del diritto azionato – abbia fatto valere, dinanzi alla competente corte d’appello, il diritto ad un processo Pinto di durata ragionevole, ovvero l’”autonomo” diritto all’esecuzione delle decisioni interne esecutive, vale a dire (anche) del decreto Pinto definitivo e obbligatorio.
A) Il caso in cui il ricorrente abbia fatto valere il diritto ad un processo Pinto di durata ragionevole può essere ulteriormente suddistinto, a seconda che sia stata dedotta in giudizio la durata irragionevole della sola ‘fase’ di cognizione ovvero anche della promossa ed esaurita ‘fase’ di esecuzione forzata del titolo definitivo ottenuto nella prima fase.
A1) Nel caso in cui la fase della cognizione del processo Pinto si sia conclusa – non rileva se in senso favorevole o sfavorevole al ricorrente – in un tempo eccedente il termine complessivo di due anni (secondo il consolidato orientamento di questa Corte, conforme alla giurisprudenza della Corte EDU: cfr., ex plurimis, le sentenze nn. 5924 e 8283 del 2012), il ricorrente può far valere, nelle forme e nei termini di cui alla medesima legge n. 89 del 2001, il diritto all’equa riparazione per la durata irragionevole di tale fase del processo Pinto eccedente i due anni. Caso, questo, che non comporta particolari difficoltà interpretative od applicative della legge n. 89 del 2001 ed è agevolmente riconducibile ai consolidati principi e criteri elaborati dalla giurisprudenza di questa Corte in materia di equa riparazione in generale nonché, specificamente, di durata del processo Pinto e dei relativi criteri di liquidazione del danno non patrimoniale (cfr., ex plurimis, le sentenze nn. 5924 e 8283 del 2012 citt.).
A2) Nel caso in cui la ‘fase’ della cognizione del processo ‘Pinto’ si sia conclusa in senso favorevole al ricorrente, la somma corrispondente (indennizzo ed interessi) deve essere pagata dall’Amministrazione al titolare entro il termine dilatorio di sei mesi (secondo la giurisprudenza della CEDU dianzi citata) e cinque giorni (in forza dell’art. 133, secondo comma, cod. proc. civ.) dalla data in cui il provvedimento che la accorda è divenuto esecutivo (cfr. anche, ex plurimis, la sentenza n. 15658 del 2012, in fattispecie identica a quella in esame), con la conseguenza che, ove il predetto termine dilatorio non sia stato rispettato dall’Amministrazione convenuta ed il titolare abbia optato per la promozione di un procedimento di esecuzione forzata del titolo ottenuto – procedimento, questo, da considerarsi, sulla base di tutte le considerazioni che precedono, quale ‘fase dell’esecuzione’ di un unico processo, che ha inizio con la domanda di equa riparazione e fine con la conclusione di tale seconda fase -, la durata complessiva di tale processo è costituita dalla somma della durata delle due fasi, di cognizione e di esecuzione, con l’ulteriore conseguenza che, se tale complessiva durata eccede il termine di due anni (cfr., supra, lettera A1), sei mesi e cinque giorni, lo stesso titolare ha diritto all’equa riparazione commisurata a tale eccedenza, diritto da far esplicitamente valere – si ribadisce: con appropriate e specifiche deduzioni anche in punto di fatti costitutivi del diritto azionato, cioè del diritto ad un processo Pinto di durata ragionevole – nelle forme e nei termini di cui alla legge n. 89 del 2001, in particolare entro sei mesi dalla data del provvedimento conclusivo della ‘fase’ di esecuzione forzata (ai sensi dell’art. 4 della legge n. 89 del 2001, sia nel testo originario, sia in quello sostituito dall’art. 55, comma 1, lettera d, del d.l. n. 83 del 2012), data nella quale – si sottolinea – può non essere stato ancora eseguito il pagamento delle somme dovute.
B) Il caso – in cui il ricorrente abbia fatto valere, invece, il diritto all’esecuzione delle decisioni interne esecutive, cioè del decreto di condanna Pinto definitivo, dolendosi del ritardo dell’Amministrazione nel pagamento delle somme relative – può essere a sua volta suddistinto, a seconda che sia stata promossa o no l’esecuzione forzata del titolo così ottenuto, circostanze queste, come più volte sottolineato, da dedurre nel giudizio in modo adeguato e specifico.
B1) Nel primo caso (decreto di condanna Pinto seguito dalla promozione dell’esecuzione forzata) – ribadito che la somma corrispondente (indennizzo ed interessi) deve essere pagata dall’Amministrazione al titolare entro il termine dilatorio di sei mesi e cinque giorni dalla data in cui il provvedimento che la accorda è divenuto esecutivo -, il ricorrente ha il diritto – fondato appunto, secondo la giurisprudenza della Corte EDU, sulla violazione dell’art. 6, prf. 1, della CEDU, sotto il richiamato profilo del “diritto all’esecuzione delle decisioni interne esecutive” – ad un ulteriore indennizzo (ed agli interessi) commisurato sia all’entità del ritardo, eccedente i sei mesi e cinque giorni, nella ‘realizzazione’ dell’indennizzo e degli interessi (già riconosciuti per l’irragionevole durata del processo ‘presupposto’), vale a dire nel pagamento effettivo di tali somme, sia alla circostanza della intervenuta promozione del processo di esecuzione forzata.
Tale diritto, tuttavia – per le anzidette ragioni (cfr., supra, n. 4.1.) -, non può esser fatto valere nelle forme e nei termini di cui alla legge n. 89 del 2001, ma, allo stato attuale della legislazione interna, soltanto mediante ricorso diretto alla Corte di Strasburgo, come del resto accaduto numerosissime volte.
B2) Nel secondo caso (decreto di condanna Pinto non seguito dalla promozione dell’esecuzione forzata) -, in cui cioè il titolare del diritto all’indennizzo ed agli interessi per l’irragionevole durata del processo presupposto abbia scelto di tenere un comportamento di ‘attesa’ della realizzazione del suo credito senza svolgere ulteriori attività, facendo implicitamente valere soltanto il ‘mero ritardo’, per così dire, nel pagamento delle somme corrispondenti -, potrebbero astrattamente prospettarsi le seguenti soluzioni alternative: o il rimedio a tale ritardo dell’Amministrazione è costituito dal titolo della già pronunciata condanna al pagamento degli interessi ‘corrispettivi’ dalla domanda di equa riparazione al saldo, interessi che, dal giorno della mora debendi della stessa Amministrazione (successivo alla scadenza di sei mesi e cinque giorni), si convertono in interessi ‘moratori’, dovuti appunto fino alla data dell’effettivo pagamento; ovvero il rimedio al ritardo – ed è questa la soluzione seguita dalla giurisprudenza della Corte di Strasburgo – è costituito, anche in questo caso, da un ulteriore indennizzo, dovuto dall’Amministrazione in forza dell’art. 41 della Convenzione, per la violazione dell’art. 6, prf. 1, sotto il più volte richiamato profilo del “diritto all’esecuzione delle decisioni interne esecutive”, e commisurato al periodo eccedente il predetto termine dilatorio concesso all’Amministrazione medesima per il pagamento.
Anche in questo caso, tuttavia, tale diritto – per le anzidette ragioni (cfr., supra, n. 4.1.) -, non può esser fatto valere nelle forme e nei termini di cui alla legge n. 89 del 2001, ma, allo stato attuale della legislazione interna, soltanto mediante ricorso diretto alla Corte EDU.
E opportuno precisare, in via meramente incidentale, che la prospettazione di tale alternativa, quanto al rimedio a detto ritardo, si giustifica perché, in quest’ultimo caso – caratterizzato come dianzi rilevato, a differenza di quello descritto sub B1), dall’omessa promozione del procedimento di esecuzione forzata con conseguente ovvio risparmio delle spese di tale procedimento, cioè dalla ‘mera attesa’ del pagamento dovuto -, se è vero che si fa parimenti valere in giudizio la violazione dell’art. 6, prf. 1, della CEDU, sotto il profilo del “diritto all’esecuzione delle decisioni interne esecutive” e, quindi, il diritto ad un’equa soddisfazione, è anche vero che – nell’ordinamento italiano – potrebbe ritenersi irragionevole e sproporzionato, rispetto alla fattispecie descritta sub B1), e quindi in contrasto con il principio costituzionale di eguaglianza, riconoscere un ‘risarcimento’ maggiore di quello previsto, in via generale nell’ordinamento italiano appunto, dall’art. 1224, primo comma, primo periodo, cod. civ., secondo cui “Nelle obbligazioni che hanno per oggetto una somma di danaro, sono dovuti dal giorno della mora gli interessi legali anche se non erano dovuti precedentemente e anche se il creditore non prova di aver sofferto alcun danno” (il ‘risarcimento’ costituito dalla corresponsione degli interessi moratori è previsto, altresì, da numerose altre normative di settore).
6. – Sulla ricostruzione che precede, peraltro, sembra non influire l’art. 5 quinquies (recante la rubrica “Esecuzione forzata”) della legge n. 89 del 2001, inserito dall’art. 6, comma 6, del d.l. 8 aprile 2013, n. 35 (Disposizioni urgenti per il pagamento dei debiti scaduti della pubblica amministrazione, per il riequilibrio finanziario degli enti territoriali, nonché in materia di versamento di tributi degli enti locali), convertito in legge, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 6 giugno 2013, n. 64, entrato in vigore il 9 aprile 2013.
Infatti, le disposizioni di tale articolo – volte esplicitamente “al fine di assicurare un’ordinata programmazione dei pagamenti dei creditori di somme liquidate a norma” della legge n. 89 del 2001 (comma 1) -, da un lato, vietano, “a pena di nullità rilevabile d’ufficio, atti di sequestro o di pignoramento presso la Tesoreria centrale e presso le Tesorerie provinciali dello Stato per la riscossione coattiva di tali somme (comma 1), e stabiliscono l’impignorabilità di somme già destinate al pagamento delle somme medesime, dall’altro, dispongono che i creditori di dette somme, a pena di nullità rilevabile d’ufficio, eseguono I pignoramenti e i sequestri esclusivamente secondo le disposizioni del libro III, titolo II, capo II del codice di procedura civile”, cioè esclusivamente nella forma “Dell’espropriazione mobiliare presso il debitore” (comma 2, primo periodo), dettando altresì rigorose modalità per la formazione e per la notificazione dei relativi atti e determinandone gli effetti (comma 2, secondo periodo, e comma 3).
È, dunque, plausibile ritenere l’ininfluenza di tali disposizioni sulle fattispecie dianzi descritte sub A2) e B1), per la decisiva ragione che le stesse disposizioni si limitano a regolare, tra l’altro, soltanto la ‘fase’ (iniziale) dell’esecuzione forzata del titolo costituito dal decreto di condanna emesso all’esito della ‘fase’ di cognizione del processo Pinto, senza peraltro incidere né sull’eventuale prosecuzione del processo di esecuzione forzata né, ovviamente, sulla indefettibile necessità che all’esito della ‘fase’ esecutiva consegua comunque la realizzazione del credito (pagamento).
7. – Sulla base di tutte le considerazioni che precedono, il ricorso in esame non merita accoglimento.
7.1. – Va nuovamente rammentato che la fattispecie alla base del ricorso sta in ciò, che – chiesta ed ottenuta dalla Corte d’Appello di Firenze, con decreto definitivo di condanna ed esecutivo ex lege, una somma a titolo di equa riparazione, oltre interessi, per l’irragionevole durata del processo amministrativo presupposto, ai sensi della stessa legge n. 89 del 2001 – il ricorrente, titolare del relativo diritto all’indennizzo ed agli interessi, nell’asserito perdurante inadempimento dell’obbligo di pagamento di detta somma da parte della competente Amministrazione, protrattosi per oltre sei mesi e cinque giorni, ha promosso processo di esecuzione forzata, nella forma dell’espropriazione presso terzi, per la realizzazione dello stesso diritto, processo esecutivo durato meno di tre anni e conclusosi con ordinanza di assegnazione del credito; successivamente, il ricorrente medesimo ha promosso dinanzi alla stessa Corte d’Appello di Firenze l’odierno giudizio ai sensi della medesima legge n. 89 del 2001, ivi proponendo domanda di (ulteriore) equa riparazione.
La Corte adita – dopo aver premesso: “Risulta dal ricorso […] che l’equa riparazione non viene chiesta in relazione alla eccessiva durata del processo esecutivo, bensì in relazione al ritardo nel pagamento. Sostiene il ricorrente che l’ambito di applicazione dell’art. 6 CEDU non è limitato al giudizio di cognizione, ma comprende la effettiva esecuzione della sentenza da parte dell’Amministrazione soccombente (cfr. note a verbale), intendendo evidentemente affermare che il danno da eccessiva durata del processo si aggrava per il fatto che l’Amministrazione non provveda celermente al pagamento di quanto riconosciuto dalla Corte d’appello perequa riparazione” – ha affermato: “Risulta dal ricorso […] che l’equa riparazione non viene chiesta in relazione alla eccessiva durata del processo esecutivo, bensì al ritardo nel pagamento. […] la domanda di equa riparazione ex art. 3 L 89/2001 può essere proposta unicamente in relazione ad una fattispecie dannosa che si concreti in una durata del processo che eccede quella ragionevole (art. 6, par. I, della Convenzione). La parte istante ha escluso che la doglianza sia correlata ad una durata eccessiva del processo esecutivo che è stata costretta ad intraprendere […] e la domanda non è riconducibile alla L. 89/2001”.
Deve ribadirsi, in limine, il principio costantemente affermato da questa Corte, secondo il quale il potere di interpretare la domanda è attribuito esclusivamente al giudice di merito e il suo esercizio, consistente nell’interpretazione, nella qualificazione e nella valutazione della stessa domanda, non è censurabile in sede di legittimità ove motivato in modo sufficiente, non contraddittorio ed immune da vizi logici e giuridici (cfr., ex plurimis e tra le ultime, la sentenza n. 12944 del 2012), ed aggiungersi, altresì, che il potere-dovere del giudice di merito di qualificare giuridicamente l’azione, e perciò anche di attribuire al rapporto dedotto in giudizio un nomen juris diverso da quello indicato dalle parti, incontra il solo limite costituito dal divieto di sostituire la domanda proposta con una diversa, modificandone i fatti costitutivi o fondandosi su una realtà fattuale non dedotta né allegata in giudizio (cfr., ex plurimis, le sentenze nn. 13945 del 2012 e 3041 del 2007).
Nella specie, la ratio decidendi del decreto impugnato – con il quale i Giudici a quibus, qualificata la domanda siccome domanda di equa riparazione per il ritardo nel pagamento dei già riconosciuti indennizzo ed interessi da irragionevole durata del processo amministrativo presupposto, hanno escluso che una domanda siffatta sia riconducibile nell’ambito di applicazione della legge n. 89 del 2001 – risulta adeguatamente e correttamente motivata nel senso dell’inapplicabilità della legge Pinto alla fattispecie concretamente dedotta in giudizio, mentre il ricorrente, anziché confutare specificamente l’affermazione che la domanda non è riconducibile all’ambito di applicazione della legge n. 89 del 2001, si è limitato a criticare genericamente la qualificazione della domanda operata dai Giudici a quibus, omettendo cioè di argomentare criticamente e specificamente in ordine alla negata riconducibilità nell’ambito applicativo della stessa legge n. 89 del 2001 anche della fattispecie del ritardo nel pagamento delle somme portate dal decreto Pinto.
8. – Le spese del presente grado del giudizio, tenuto conto della novità delle questioni trattate, possono essere compensate per intero tra le parti.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e compensa le spese

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