Corte di Cassazione – Sezione VI penale – sentenza 29.9.2011, n. 35567. In tema di falsità documentali, ricorre il cd. “falso innocuo” nei casi in cui l’infedele attestazione (nel falso ideologico) o l’alterazione (nel falso materiale) siano del tutto irrilevanti ai fini del significato dell’atto
La massima estrapolata
In tema di falsità documentali, ricorre il cd. “falso innocuo” nei casi in cui l’infedele attestazione (nel falso ideologico) o l’alterazione (nel falso materiale) siano del tutto irrilevanti ai fini del significato dell’atto, non esplicando effetti sulla funzione documentale dell’atto stesso di attestazione dei dati in esso indicati, con la conseguenza che l’innocuità non deve essere valutata con riferimento all’uso che dell’atto falso venga fatto.
Il testo integrale
SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE
SEZIONE VI PENALE
Sentenza 29 settembre, n. 35567
Svolgimento del processo – Motivi della decisione
Con sentenza in data 13/7/2005 il Tribunale di Napoli dichiarava colpevoli C.M. dei reati di concussione continuata ex artt. 81 e 317 c.p. (capo 30) e falso ideologico in atto pubblico ex art. 479 c.p. (capo 33), R.R. dei reati di omessa denuncia di reato da parte del pubblico ufficiale ex art. 361 c.p., così qualificato il fatto contestato come favoreggiamento personale continuato ex artt. 81 e 378 c.p. (capo 59) e falso ideologico in atto pubblico ex art. 479 c.p. (capo 65) e li condannava ciascuno alla pena di giustizia; dichiarava n.d.p. nei confronti di F. N. in ordine al reato di concorso in falso ideologico in atto pubblico ex artt. 110 – 479 – 476 c.p., e art. 61 c.p., n. 2 (capo 3), perchè estinto per prescrizione.
La vicenda faceva parte di una più ampia indagine, che aveva portato a disvelare una gestione amministrativa e contabile dell’ex Opera Universitaria di Salerno – poi EDISU -, che nel periodo tra il 1988 e il 1992 era stata deviata dai suoi fini istituzionali, perchè i membri del Consiglio di Amministrazione avevano trasformato l’organo amministrativo in un centro affaristico delinquenziale, volto ad affidare una serie di appalti di varie tipologie a ditte favorite dalla P.A. in conseguenza della pattuizione e della riscossione di tangenti al fine di ottenere l’aggiudicazione dell’appalto, oppure indurre al pagamento nella fase esecutiva del rapporto le imprese recalcitranti, esercitando nei loro confronti indebite pressioni.
In tale contesto associativo e affaristico risultavano inserite anche le figure del R., del C. e del F.: al primo, quale Presidente ex lege dell’Opera Universitaria, si contestava di avere attestato contro il vero nella relazione al Parlamento, inviata alla Corte dei Conti, che l’immobile di proprietà N., veniva utilizzato per metà dall’Area Universitaria e per metà dal Comune di Salerno, e che di conseguenza il relativo onere economico gravava in pari misura su entrambi gli Enti, mentre in realtà il Comune non aveva mai utilizzato tale immobile, nonchè di avere nel corso di una seduta del C.D.A, tenutasi nell’anno 1994, favorito i responsabili dei reati di concussione, sconsigliando e impedendone la denuncia all’A.G. da parte dei componenti, che ne avevano rilevato l’esistenza in particolare in materia di appalti della mensa universitaria e manifestato il proposito di ricorrere alla Procura della Repubblica.
Al secondo, quale capo dell’Ufficio Tecnico dell’EDISU, si contestava di avere indotto Fo.El., titolare dell’omonima ditta aggiudicataria dell’appalto per la manutenzione della centrale termica e dell’impianto di condizionamento della mensa universitaria a versargli somme variabili tra il 5% e il 10% di ciascun mandato di pagamento, con la prospettazione di intralci e fastidi durante l’esecuzione del rapporto contrattuale, nonchè di avere attestato falsamente nella nota del 12/10/1992, diretta al Presidente e al Direttore Generale dell’EDISU, l’andamento positivo dei servizi di manutenzione espletati dalle ditte “Elle Emme Electronik” e “Sitec”, presso la mensa di Fisciano, nonostante che fossero state contestate ad entrambe le ditte sistematiche violazioni contrattuali. Infine al terzo, quale componente del C.d.A., di avere affidato con il sistema della trattativa privata e senza gara alla Società Irpinia Mense di Nigro Arnaldo l’appalto del servizio mense del plesso di Fisciano, attestando contrariamente al vero che la scelta di tale ditta scaturiva da una indagine di mercato, mai effettuata.
A seguito di gravame dei predetti imputati, la Corte di Appello di Napoli con la sentenza in data 22/10/2009 assolveva, perchè il fatto non sussiste R.R. dal reato di cui all’art. 361 c.p., dichiarava n.d.p. contro C.M. in ordine al reato di falso in atto pubblico perchè estinto per prescrizione, rideterminava la pena per il residuo reato a costoro rispettivamente ascritto come da dispositivo, dando atto che il R. aveva rinunciato alla prescrizione, e confermava nel resto l’impugnata sentenza.
In motivazione la corte distrettuale condivideva la ricostruzione della vicenda operata in prime cure, nonchè i rilievi e le argomentazioni del giudice di primo grado a sostegno del giudizio di colpevolezza e della declaratoria di prescrizione pronunciata nei confronti del F..
Quanto al R., dato atto che l’imputato aveva rinunciato alla prescrizione, indicava le ragioni, che inducevano alla conferma del giudizio di colpevolezza in ordine all’unico residuo reato di falso ideologico, ripercorrendo gli avvenimenti che avevano contrassegnato la locazione dell’immobile de quo, negando ogni rilevanza alla mancata acquisizione dell’originale della relazione inviata alla Direzione Regionale della Corte dei Conti, perchè, come attestato dalla Corte dei Conti di Roma, il documento era stato mandato al macero.
Quanto al C. condivideva il giudice del gravame l’affermazione della colpevolezza dell’imputato in ordine al reato di concussione, valorizzando le dichiarazioni accusatorie della parte offesa Fo.El., non dubitando della sussistenza del requisito del “metus pubblicae potestatis” e riconducendo la fattispecie criminosa nell’ambito della concussione ambientale; dopo avere osservato che gli atti processuale non evidenziavano elementi idonei ad assolvere l’imputato nel merito ex art. 129 c.p.p., dichiarava prescritto il reato di falso ideologico in atto pubblico, avuto riguardo alla data di commissione, risalente al 12/10/1992 e tenuto conto dei periodi di sospensione, dovuti a richieste del difensore o dell’imputato, applicando il regime antecedente alla cd. legge Cirielli. Allo stesso modo confermava il proscioglimento del F. dal reato di concorso in falso ideologico per intervenuta prescrizione, rigettando l’eccezione di violazione del principio di correlazione tra imputazione e sentenza e evidenziando la prova della mancata indagine di mercato, nella quale si concretizzava la falsa rappresentazione della realtà, concludendo che, in ogni caso, anche se si fosse voluto ritenere insufficiente o contraddittoria la prova raccolta, prevaleva la formula di estinzione del reato per prescrizione rispetto a quella dubitativa.
Contro tale decisione ricorrono tutti e tre gli imputati a mezzo dei rispettivi difensori.
In difesa del C. si denuncia nell’unico motivo a sostegno della richiesta di annullamento la mancanza di motivazione, il vizio logico e il travisamento del fatto in riferimento alla valutazione del materiale probatorio. Si sostiene in particolare e in sintesi che i giudici del merito avevano ritenuto sussistente il reato di concussione per induzione alla stregua di una massima di esperienza a sostegno del ritenuto stato di soggezione, suscettibile di infinite sfaccettature, inidonee quindi a renderla universalmente accettabile.
Il C. non aveva nessuna influenza specifica nell’ambito dell’istituto universitario, era un subalterno e si era limitato a fare da intermediario della tangente, che l’ing. Fo. versava al B. e ad altri membri del C.d.A.. Non aveva il giudice del gravame approfondito il discrimine tra la concussione e la corruzione, unica fattispecie criminosa, adatta semmai al caso concreto, stante la deposizione del Fo., che al dibattimento aveva dichiarato di essere stato lui a fare la proposta al C. per essere agevolato, mentre le dichiarazioni accusatorie contro quest’ultimo erano state rese, quando si trovava in stato di detenzione per sottrarsi all’accusa di corruzione. La corte di merito aveva fondato la conferma del giudizio di colpevolezza, utilizzando le contestazioni mosse ai sensi dell’art. 500 c.p.p., benchè le stesse a norma del comma 2 cit. art. potevano essere valutate solo ai fini dell’accertamento della credibilità del teste. Infine non si giustificava l’individuazione del momento consumativo del reato nel periodo 1980-1990, laddove invece tale momento andava individuato agli inizi del rapporto lavorativo dell’imputato, risalente al 1976, con ogni conseguenza in ordine alla omessa declaratoria di prescrizione del reato.
In difesa del R. si propongono due ricorsi: il primo a firma dell’avv. Gaetano Balice, il secondo a firma dell’avv. Gerardo Grisi.
Nel primo si denuncia l’inosservanza e erronea applicazione della legge penale e processuale, la carenza, la contraddittorietà, l’apparenza della motivazione e il travisamento del fatto in riferimento alla ritenuta prova dell’esistenza dell’atto incriminato originale e dell’effettiva sottoscrizione ad opera dell’imputato e si sostiene che i giudici di merito avevano effettuato un vero e proprio capovolgimento dei criterì di formazione della prova, partendo dalle proteste di innocenza dell’imputato per trovare un riscontro all’ipotesi accusatoria. Ad avviso della difesa, il R. non aveva ritenuto di scaricare la responsabilità dell’atto sui suoi collaboratori, aveva solo richiesto di accertare se l’atto fosse stato effettivamente firmato da lui e se fosse stato effettivamente inviato alla Corte dei Conti, obiettivi questi che l’istruttoria svolta non aveva mai raggiunto.
Nel ricorso a firma dell’avv. Grisi si articolano vari motivi. Con il primo motivo si denuncia la violazione del principio della personalità della responsabilità penale, sancito dall’art. 27 Cost., in riferimento alla mancata individuazione degli autori e sottoscrittori, dirigenti responsabili, che avevano predisposto, formato e siglato l’atto con la stampigliatura e l’indicazione del nominativo del Rettore R..
Con il secondo motivo segnala l’error in procedendo in riferimento agli artt. 235 – 253 – 537 c.p.p. e art. 191 c.p.p., comma 2 e censura il mancato sequestro della comunicazione, contenente la falsa attestazione, che andava qualificata “corpo di reato” in violazione di norme processuali stabilite a pena di inutilizzabilità, rilevabile in ogni stato e grado del processo, come tale atto inutilizzabile, essendo stato ritenuto elemento idoneo a sorreggere l’accusa di falso, nonchè l’omessa obbligatoria declaratoria di falsità del documento.
Con il terzo motivo deduce l’error in iudicando per violazione della L. n. 142 del 1990, art. 51 e censura la contestazione che definisce “ATTESTATO” una mera comunicazione interna, predisposta, formata e siglata dall’Economa S., non coimputata e unica teste di accusa, Vicedirigente dell’Università insieme con l’altro Dirigente A., siglando e apponendo la stampigliatura del Rettore con timbro in loro possesso. Se l’atto originale, non acquisito, fosse stato sottoscritto dal R., anche sulla copia, unico documento acquisito agli atti, avrebbe dovuto risultare la relativa sigla o firma e non la sola stampigliatura.
Con il quarto motivo lamenta l’error in procedendo in riferimento all’art. 603 c.p.p., comma 2 e art. 525 c.p.p., comma 2 e stigmatizza l’operato dei giudici del merito, i quali avevano ritenuto di sopperire la mancata acquisizione del documento, corpo di reato, con la sola testimonianza dell’Economa S., autrice del falso, senza possibilità per il ricorrente di contestare anche con la risultanza documentale originale il contenuto di detta testimonianza.
Con il quinto motivo denuncia l’error in procedendo in riferimento all’art. 431 c.p.p., lett. h) e art. 603 c.p.p., comma 2, e sostiene l’abnormità del provvedimento che aveva revocato l’ordinanza ammissiva dell’acquisizione dello originale del documento, non aveva disposto il sequestro di esso e aveva omesso di dichiarane la falsità.
Con il sesto motivo denuncia l’error in iudicando per violazione e falsa applicazione della norma incriminatrice ex artt. 476 – 479 c.p. e sostiene che era risultato oggettivamente inesistente la materiale falsità delle circostanze contestate nel capo di imputazione, perchè smentite dal materiale probatorio in atti, che dava conto dell’utilizzazione di parte della struttura de qua ad opera del Comune, di altri uffici amministrativi della Provincia, dell’avvenuto pagamento di parte del canone ad opera della Provincia, e che inoltre nessun danno era derivato sia all’Università, che già era obbligata a pagare l’intero canone di locazione, sia all’Erario, onde il presunto falso doveva ritenersi innocuo e irrilevante.
In difesa di F.N. si denuncia l’erronea applicazione della legge penale e la carenza contraddittorietà della motivazione in riferimento alla individuazione dell’elemento oggettivo e soggettivo del reato contestato, censurando i giudici del gravame, che si erano attardati nel respingere l’eccezione di violazione del principio di correlazione tra accusa e sentenza, e avevano omesso di rispondere alla problematica posta nell’atto di appello, con la quale si contestava il dato fondamentale circa l’assenza in capo all’imputato del reato di corruzione, contestato ad altri coimputati in connessione teleologica con il reato di falso, ed evidenziando che la formula di proscioglimento in fatto, alla quale è equiparata quella ex art. 530, comma 2 prevale sulle formule di proscioglimento in diritto.
Con le note di udienza, ritualmente depositate in cancelleria, il difensori del C. propone eccezione di incostituzionalità della L. n. 251 del 2005, art. 10, comma 3, già sollevata dalla Sezione 2^ della Corte di Cassazione e già in discussione presso la Consulta, il difensore del R. insiste sulla rilevata mancanza di prova dell’esistenza dell’originale del documento incriminato, che dalla copia in atti, risultava contenere la impossibile data del protocollo di spedizione del 31/2/1992.
Tanto premesso in punto di fatto, osserva il collegio che i ricorsi del C. e del F. sono inammissibili.
Quanto al C. va innanzi tutto rilevato come sulla pregiudiziale censura di incostituzionalità della norma di cui alla L. n. 251 del 2005, art. 10, comma 3 si è già pronunciata la Consulta, che con sentenza in data 19/7/2011 ha dichiarato non fondata la questione di legittimità costituzionale della norma de qua sollevata in riferimento all’art. 117 Cost., comma 1 dalla Corte di Cassazione con l’ordinanza in data 11/6/2010.
Generica, siccome reiterativa di quella, formulata nell’atto di appello, oltre che manifestamente infondata, si ravvisa poi la censura di cui all’altro motivo di ricorso, già valutata e respinta dalla corte distrettuale, che con puntuale e adeguato apparato argomentativo, di cui in precedenza si è fatto cenno, ha dato conto delle ragioni della conferma del giudizio di colpevolezza in ordine al contestato delitto di concussione, enunciando analiticamente gli elementi e le circostanze convergenti e rilevanti a tal fine.
In particolare non ha dubitato della sussistenza del “metus pubblicae potestatis” e della valenza intimidatoria della condotta, posta in essere dall’imputato, idonea a concretare nella parte offesa una sufficiente e non generica possibilità di pressione sulla formazione della sua volontà, e non ha mancato di rispondere ai rilievi difensivi in ordine alla distinzione tra corruzione e concussione, adeguandosi all’orientamento ormai consolidato nella giurisprudenza di legittimità, secondo cui non è ravvisabile l’ipotesi della concussione ambientale in una situazione di sistematico pagamento di tangenti da parte di imprenditori appaltatori di opere pubbliche, nella quale, in un contesto di un costante flusso delle commesse, siano privilegiati gli imprenditori, che si siano opportunamente organizzati a tal fine, con conseguente disattivazione dei meccanismi della libera concorrenza (ex multis Cass. Sez. 6, 9/4-19/9/2008 n. 36154 Rv. 2416449).
La motivazione quindi non appare sindacabile in sede di controllo di legittimità della sentenza impugnata, soprattutto quando, come nel caso in esame, il ricorrente si limita sostanzialmente a sollecitare un non consentito riesame del merito, attraverso la rilettura del materiale probatorio, anche in riferimento alla data del commesso reato, già cristallizzata nel capo di imputazione.
Manifestamente infondata è del pari il ricorso del F., che mira a porre in discussione senza apprezzabili motivi in diritto il principio ormai consolidato nella giurisprudenza di legittimità a mente del quale la regola di giudizio di cui alìart. 530, comma 2 è dettata esclusivamente per il normale esito del processo sfocìante in sentenza emessa dal giudice al compimento dell’attività dibattimentale con piena valutazione di tutto il complesso probatorio acquisitosi in atti. Per contro detta regola non può trovare applicazione in presenza di causa estintiva di reato. In tale situazione vale la regola di cui all’art. 129 c.p.p., in base alla quale in presenza di causa estintiva del reato, l’inizio di prova ovvero la prova incompleta in ordine alla responsabilità dell’imputato non viene equiparata alla mancanza di prova, ma per pervenire al proscioglimento nel merito, soccorre la diversa regola di giudizio ex art. 129 c.p.p., comma 2, per la quale la prova di innocenza deve positivamente emergere dagli atti processuali, senza necessità di ulteriore accertamento l’estraneità dell’imputato per quanto contestatogli (da ult. Cass. Sez. Un. 28/5-15/9/2009 n. 35490). Nel caso in esame peraltro i giudici del merito hanno dato conto con puntuale e adeguato apparato argomentativo, non censurabile in questa sede, perchè immune da vizi logici o interne contraddizioni, della assoluta mancanza di evidenza di prove a discarico dell’imputato.
Diversa è la posizione del R., chiamato a rispondere del solo reato di falso ideologico in atto pubblico, per il quale vi è stata rinuncia alla prescrizione.
Le censure concernenti l’esistenza, la sottoscrizione e la spedizione della relazione in contestazione non possono essere oggetto di valutazione, e ciò ai sensi dell’art. 597 c.p.p., comma 1, atteso che la decisione di primo grado su tali punti non ha formato oggetto di alcun motivo di gravame. Nè la mancata acquisizione del documento originale, quale corpo di reato, può costituire ipotesi di nullità del procedimento, nè alcuna contraddittorietà è ravvisabile nell’operato della corte di merito, che in un primo momento ne aveva disposto il sequestro e l’acquisizione e successivamente non aveva inteso rinnovare tale provvedimento emesso ai sensi dell’art. 603 c.p.p., dal momento che era giunta notizia dalla Corte dei Conti ricevente che detta relazione era andata al macero.
Non può poi dubitarsi della natura di atto pubblico della relazione, inquadrandosi essa nel novero delle comunicazioni tra uffici della pubblica amministrazione, che, come nel caso in esame, documentano attività compiuta dal pubblico ufficiale, che lo redige e l’accadimento dei fatti avvenuti in sua presenza o da lui percepiti (Cass. 6/11/1984 Orsini CED 167542).
Fondata è invece la censura sulla valutazione dell’elemento soggettivo del reato.
La prevalente giurisprudenza di legittimità è attestata su posizioni estremamente rigoristiche in tema di accertamento dell’elemento soggettivo del reato, affermando che il dolo richiesto dall’art. 476 c.p. si esaurisce nella coscienza e volontà dell’immutazione del vero e non richiede, quale suo dato costitutivo l'”animus nocendi o decipiendi”. Non sono mancate peraltro nel corso dell’evoluzione giurisprudenziale pronunce di segno contrario, che hanno tentato, sia pure isolatamente, di arricchire il contenuto del dolo di falso, aggiungendovi il requisito della consapevolezza di offendere l’interesse penalmente protetto (Cass. 6/11/1967 Superti, che richiede la consapevolezza di ledere la fede pubblica; Cass. 28/10/1977 Paolantonio, che ritiene necessaria la coscienza dell’antidoverosità della condotta; Cass. 28/5/1980 Baldi, nella quale si afferma che il dolo non si ricollega soltanto ai tradizionali aspetti della previsione e volontarietà del fatto, ma anche ad un momento di volere offerto dal convincimento del reo di agire in contrasto con le sostanziali esigenze dell’ordine giuridico).
E’ pur vero che trattasi di giurisprudenza risalente nel tempo, ma la sua portata innovatrice appare ben adattabile ai casi, come nella fattispecie, in cui la valutazione di sostanziale innocuità si impone oggettivamente, senza necessità di esigere alcuna disamina in fatto e alcun riscontro probatorio.
Ricorda il collegio che la giurisprudenza di questa Corte ha chiarito che in tema di falsità documentali, ricorre il cd. “falso innocuo” nei casi in cui l’infedele attestazione (nel falso ideologico) o l’alterazione (nel falso materiale) siano del tutto irrilevanti ai fini del significato dell’atto, non esplicando effetti sulla funzione documentale dell’atto stesso di attestazione dei dati in esso indicati, con la conseguenza che l’innocuità non deve essere valutata con riferimento all’uso che dell’atto falso venga fatto (Cass. Sez. 5, 21/4-29/9/2010 n. 35076 Rv. 248395).
Nel caso in esame la relazione indirizzata alla Delegazione Regionale della Corte dei Conti, concernente tra l’altro lo stato degli immobili in uso all’Università di Salerno, rispondeva ad una richiesta di informazioni sui fitti dei beni immobili di proprietà dei terzi, e per quanto riguardava l’immobile di proprietà N. l’informazione fornita, sebbene non rispondente alla realtà, non poteva tuttavia avere alcuna efficacia ingannatrice, dal momento che l’imputato ha documentalmente provato che l’Ente già per contratto era obbligato all’integrale pagamento del canone di locazione dell’immobile e che successivamente l’onere del 50% del canone era venuto a gravare, sebbene non sul Comune di Salerno, ma sull’Amministrazione Provinciale di intesa con il C.d.A dell’Ateneo, giusta delibera, acquisita agli atti.
Ma v’è di più! Dagli stessi documenti in atti emerge che all’epoca era già in atto la trattativa, condotta personalmente dal R., tra il Comune e l’Ente, mirante, nell’ottica di coinvolgere l’amministrazione comunale nella gestione economica e culturale del Centro Studi, alla stipula di una convenzione tra i due enti che prevedesse l’utilizzo comune dell’immobile de quo e la ripartizione al 50% delle spese di gestione, e che tale trattativa, giunta quasi alla sua conclusione, non potette perfezionarsi per la sopravvenuta impossibilità del Comune di Salerno di provvedere ad apposita delibera per l’arresto del Sindaco p.t. e del Vice Sindaco.
Non è quindi irragionevole dare credito alle proteste di innocenza dell’imputato, che al momento della sottoscrizione della informativa, comprensiva – giova dirlo – di diverse altre informazioni, che non riguardavano solo lo stato degli immobili, ben abbia potuto ritenere già per conclusa quella trattativa da lui personalmente seguita e caldeggiata.
E’ da escludere quindi dalla condotta delittuosa contestata al R. ogni profilo soggettivo, onde la sentenza nei suoi confronti va annullata senza rinvio, perchè il fatto non costituisce reato.
Segue alla declaratoria di inammissibilità dei ricorsi del C. e del F. la condanna dei ricorrenti al pagamento delle spese processuali e ciascuno al versamento in favore della cassa delle ammende della somma, ritenuta di giustizia ex art. 616 c.p.p., di Euro 1.000,00.
P.Q.M.
Annulla senza rinvio la sentenza impugnata nei confronti di R. R., perchè il fatto non costituisce reato. Dichiara inammissibili gli altri ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali e ciascuno al versamento della somma di Euro 1.000,00 in favore della Cassa delle ammende.
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