SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE
SEZIONE VI
SENTENZA 21 settembre 2015, n. 38281
RITENUTO IN FATTO
A.L. e T.M. sono stati condannati dal Tribunale di Torre Annunziata alla pena di giustizia perchè ritenuti colpevoli del reato di cui all’art. 378 c.p. loro ascritto.
Interposto appello, la Corte di Appello di Napoli ha confermato la decisione assunta in primo grado dal Tribunale.
Contro tale ultima decisione propongono ricorso in cassazione i due imputati tramite i difensori fiduciari.
Dalla sentenza impugnata emerge che l’ A., contattato telefonicamente da una sua paziente per apprestare a domicilio un intervento chirurgico ad un terzo soggetto che necessitava di cure urgenti, non potendo provvedere in tal senso perchè l’intervento richiesto era estraneo alle sue specifiche competenze professionali, deviava la richiesta verso il collega medico T., non senza previamente avvertirlo che la famiglia della persona interessata ‘ non era buona’.
Il T., recatosi al domicilio del soggetto che necessitava le cure, constatata la presenza di una ferita da arma da fuoco, provvedeva al chiesto intervento sanitario senza poi procedere a segnalare il tutto agli organi di polizia competenti. Consapevole della riconducibilità del fatto ad un reato perseguibile d’ufficio (per quel che ebbe modo di pensare, secondo quanto affermato dall’imputato, ritenne fosse l’esito di un regolamento di conti tra bande), il T. adeguò le cure alle esigenze del paziente di mantenere la clandestinità, accettando il rischio che la prestazione resa, in ambiente diverso da quello ospedaliero e in presenza, negli ambiti circostanti, di strutture adatte al fine, potesse aggravare le condizioni dello stesso, risultando comunque il paziente esposto a rischi altrimenti evitabili.
Tanto, nell’assunto esposto dai Giudici distrettuali, porterebbe a ritenere che l’azione riscontrata più che caratterizzata dalla necessità di apprestare le cure fosse piuttosto primariamente colorata dalla esigenza di garantire clandestinità al paziente, cosi da ritenere configurabile il reato prospettato.
Ricorso proposto nell’interesse dell’ A..
Si adduce violazione dell’art. 378 c.p..
Per la sussistenza del reato occorre una volontà cosciente di aiutare qualcuno a sottrarsi alle investigazioni, nella consapevolezza del rilievo causale del contributo in ragione di una conoscenza preventiva del reato presupposto e sempre ponendo la condotta al di fuori del concorso. Tanto non si riscontra nella specie, non essendo il ricorrente a conoscenza della persona che andava medicata, della richiesta poi avanzata al suo collega, del luogo ove si trovava la persona da soccorrere.
La motivazione poi sarebbe contraddittoria, avendo la Corte interpretato la frase vedi che la famiglia non è buona’ in termini diversi da quelli suggeriti dalla difesa (la bassa estrazione sociale), forzandone impropriamente il contenuto. Il tutto senza indicare in alcun modo gli indizi dai quali desumere la consapevolezza in capo all’ A. del piano criminoso ed anzi evidenziando indicazioni logico fattuali di segno completamente opposto quali la certa ignoranza in capo all’imputato di chi e in che occasione si fosse ferita la persona bisognevole di cure e finanche del tipo di intervento da effettuare.
Ricorso proposto nell’interesse del T..
Si adduce violazione di legge e difetto di motivazione.
Secondo la difesa sarebbe sfuggito alla Corte del merito che al T. non venne rappresentata alcuna particolare urgenza nè il tipo di intervento da realizzare. Non poteva percepirne dunque il significato e, una volta recatosi sul luogo indicato dall’interlocutore telefonico, non ebbe a fare altro che prestare le cure del caso, senza porre in essere quel comportamento attivo cui in genere la giurisprudenza, in siffatte occasioni, ricollega la responsabilità del sanitario per le cure mediche prestate al latitante. In tal senso erano indifferenti il luogo di esecuzione della cura nè l’aver omesso di consigliare al paziente di recarsi presso una struttura pubblica.
CONSIDERATO IN DIRITTO
Si impone l’annullamento senza rinvio della sentenza impugnata per la insussistenza del fatto di reato contestato.
In linea con quanto evidenziato dai Giudici del merito, non sembra vi sia spazio al dubbio quanto alla consapevolezza, in capo ad entrambi gli imputati, della situazione di illegalità in cui versava il paziente destinatario delle cure mediche richieste.
Ne era certamente consapevole l’ A., compulsato per un intervento immediato, da rendere al domicilio del soggetto che necessitava di cure, di matrice chirurgica e dunque palesemente distonico rispetto alle sue competenze professionali; intervento che ben poteva essere reso altrimenti presso una delle strutture di pronto soccorso adiacenti alla zona. Consapevolezza, questa, definitivamente fotografata dall’avvertimento rivolto al collega T., manifestato nel comunicargli la prossima telefonata (in realtà in quel momento già intervenuta) della persona che in precedenza lo aveva contattato, compulsandolo in tal senso: risponde a logica comune, infatti, che avvisare un collega che la famiglia di chi lo stava per contattare – per una visita a domicilio che imponeva un intervento di natura sostanzialmente chirurgica – non era ‘buona’ finisce per tradire la consapevolezza dell’aurea di illiceità comunque correlata alla situazione sottesa all’intervento da prestare.
Parimenti, anche al T., tale dato non poteva sfuggire: sia per le sollecitazioni ripetutamente espresse nel reclamare l’intervento, definito di assoluta urgenza senza che l’interlocutore avesse alcuna intenzione di avvalersi delle strutture pubbliche comunque presenti nella zona; sia per la natura dell’intervento da realizzare, che imponeva competenze chirurgiche; sia, ancora una volta, per la segnalazione, sopra rassegnata, resa dall’ A..
A ben vedere, tale consapevolezza finisce tuttavia non solo per essere indifferente al fine che occupa ma costituisce, piuttosto, supporto logico utile ad escludere la correttezza delle valutazioni in diritto rese dai Giudici del merito perchè definisce, con ancora maggiore chiarezza, l’immediatezza e la non procrastinabilità delle cure mediche da prestare.
Dinanzi ad una richiesta di cure, urgenti e correlate a situazioni nelle quali si pone seriamente in discussione l’integrità fisica del soggetto che le rivendica, la situazione di illegalità in cui versa quest’ultimo e le stesse dinamiche in fatto che causalmente hanno provocato la patologia oggetto dell’intervento sanitario, eventualmente correlate ad un fatto illecito possibile oggetto di attività di indagine, non assumono alcun rilievo ostativo rispetto all’obbligo del medico di intervenire: la primaria rilevanza costituzionale dei valori della vita e della salute, che vengono in gioco, e, dunque, la doverosità della prestazione professionale, rendono, infatti, esente da sanzione penale la condotta del sanitario che presti le cure in situazioni siffatte e valgono a differenziarne la posizione da quella di qualsiasi altro soggetto che, con la propria condotta, finisca per aiutare un terzo, garantendone la latitanza o favorendolo nell’eludere le investigazioni.
Nell’intersecarsi di esigenze tutte costituzionalmente tutelate (il diritto alla salute per un verso, cui si contrappone l’interesse pubblico sotteso ad un puntuale esercizio dell’attività di amministrazione della giustizia ed all’accertamento di fatti penalmente sanzionati), i valori legati alla integrità fisica rendono necessariamente recessivi quelli contrapposti e finiscono per imporre comunque l’intervento sanitario. Ed in tale cornice di riferimento si attesta la costante tradizione giurisprudenziale espressa da questa Corte di legittimità, compendiata in genere nella massima in forza alla quale, in tema di favoreggiamento ascritto ad un soggetto esercente la professione sanitaria, la situazione di illegalità in cui versa il soggetto che necessita di cure non può costituire in nessun caso ostacolo alla tutela della salute. Per contro, la condotta del sanitario chiamato ad esercitare il dovere professionale di tutela della salute del cittadino non può esorbitare il limite della diagnosi e della terapia, onde lo stesso non deve porre in essere condotte ‘aggiuntive’ di altra natura che travalichino tale limite e siano finalizzate soggettivamente e oggettivamente a far eludere la persona assistita alle investigazioni dell’Autorità o a sottrarla alle ricerche di quest’ultima, giacchè in siffatta ipotesi risultano integrati gli estremi del favoreggiamento (cfr di recente Sez. 5, Sentenza n. 11879 del 2013 nonchè gli arresti ivi richiamati tra i quali spiccano Sez. 6, n. 26910 del 05/04/2005; Sez. 6, n. 2998 del 30/10/2001 – dep. 25/01/2002).
Il tema di giudizio, dunque, non è quello inerente la consapevolezza della situazione di illiceità comunque correlata al destinatario delle cure (tipico il caso del latitante) o alle cause della patologia da curare (come nella specie pacificamente correlate ad un conflitto a fuoco) giacchè la prestazione all’uopo resa, in sè considerata, mai potrebbe portare al rimprovero penale, fosse o meno consapevole, a monte, il sanitario di tanto prima di accettare l’incarico fiduciario correlato alla attività professionale richiestagli.
4.1 Piuttosto, ciò che assume rilievo è la necessità, per l’interprete, di individuare quell’elemento ‘aggiuntivo’ alla prestazione sanitaria nel quale si sarebbe concretato, al di là della doverosa assistenza al paziente, il contributo alla elusione che, per quanto sopra, costituisce il tratto tipizzante della condotta di favoreggiamento resa dal medico.
4.2. La Corte del merito muove da tali considerazioni in diritto. E, consapevole della inadeguatezza al fine della sola prestazione sanitaria resa dal T., lega il ritenuto favoreggiamento alle caratteristiche del luogo di apprestamento delle cure (una abitazione privata non lontana da strutture di pronto soccorso), dato questo filtrato dal riferimento alla natura della patologia riscontrata: si rimarca, in particolare, che le condizioni riscontrate imponevano non solo un luogo di cura connotato da condizioni asettiche di intervento ma anche preventivi accertamenti diagnostici, destinati a disvelare il grado di possibile compromissione di strutture anatomiche della regione colpita, non immediatamente manifeste, causate dalla ferita da arma da fuoco riscontrata.
Da qui la conclusione che l’intervento reso sarebbe stato asservito, più che alle esigenze di preservare al meglio l’integrità del paziente, alla intenzione di mantenere clandestinità al fatto materiale sotteso alla ferita riscontrata. Dato, questo, riscontrato dagli esiti dei controlli radiologici effettuati dopo l’arresto del ferito, attestanti l’incompletezza delle cure nonchè dalla necessità di una terapia antibiotica, che il T. prescrisse solo verbalmente, per evitare suoi futuri coinvolgimenti.
4.3. L’assunto non convince, perchè si richiama ad elementi di valutazione inconferenti al fine.
Prescindendo integralmente dall’ultimo riferimento fattuale (manifestamente inconducente perchè sottolinea aspetti del tutto eccentrici in sè con la funzionalità della condotta tipica del favoreggiamento e che al più potrebbero avere rilievo nell’ottica correlata al dolo ma non alla condotta materiale del reato in contestazione), va ricordato che l’art. 378 c.p., nel punire chiunque aiuta taluno a sottrarsi alle ricerche dell’Autorità, non impone un obbligo di favorire ricerche e indagini; sanziona, piuttosto, i comportamenti di chi, fuori dal concorso nel reato presupposto, aiuta un terzo a sottrarsi alle ricerche dell’autorità o ad eluderne le indagini (condotta di interesse nel caso di specie). Ed è per questa ragione che, escluso ogni rilievo in sè alle cure sanitarie prestate per le ragioni sopra rassegnate, per il favoreggiamento del sanitario è richiesta un’ulteriore condotta positiva di aiuto. Le modalità di esecuzione della prestazione, se effettivamente coerenti ed esaustive alla patologia riscontrata, ed ancora il luogo di esecuzione dell’intervento sanitario, compatibile o meno con le cure da prestare, finiscono, dunque, per divenire indifferenti al fine: il medico ha, infatti, il dovere giuridico di assistere chiunque abbia necessità delle sue prestazioni professionali, a prescindere dal modo e dall’ambiente in cui le cure poi vengono prestate.
Il ragionamento della Corte distrettuale, piuttosto, tradisce i suoi limiti proprio perchè strumentalizza siffatti estremi logici della condotta riscontrata per recuperare l’azione del T. al campo del penalmente rilevante, finendo per sanzionare non tanto l’ausilio alla elusione bensì il non aver favorito le ricerche dell’Autorità.
Il riferimento al luogo delle cure ed alla compiutezza delle stesse appare infatti necessariamente colorato dall’idea per la quale, se il T. si fosse rifiutato di eseguire la prestazione in quelle condizioni, con probabilità il ferito si sarebbe dovuto esporre rivolgendosi ad una struttura pubblica, cosa che avrebbe disvelato necessariamente la vicenda sottesa alla ferita riscontrata.
Si finirebbe, dunque, per sanzionare, non un aiuto alla elusione bensì il mancato aiuto alle indagini, conclusione questa in aperto contrasto con la norma di riferimento.
4.4. Sempre con riferimento al T., infine, resta da valutare se, rispetto al contestato favoreggiamento, potrebbe assumere rilievo, nell’ottica correlata all’aiuto elusivo, la condotta omissiva tenuta dallo stesso avuto riguardo all’obbligo di procedere al referto ex art. 334 c.p.p.. Obbligo, quest’ultimo, autonomamente sanzionato, in caso di omissione, dall’art. 365 c.p.; e che, tuttavia, con riferimento alla contestazione mossa nella specie, potrebbe assumere rilievo una volta che si acceda all’idea, già espressa da questa Corte, della possibilità di ritenere integrata la condotta di favoreggiamento anche in caso di riscontrati contegni omissivi strumentali all’elusione laddove l’autore della condotta sia gravato da un obbligo giuridico di attivarsi (nel caso quello previsto dal citato art. 334 c.p.p.) ed abbia tradito l’aspettativa dell’ordinamento, astenendosi dalla condotta dovuta (cfr in motivazione Sez. 5, n. 31657 del 13/02/2001 – dep. 24/08/2001, Avola C ed altri, Rv. 220025; si veda ancora Sez. 6, n. 51508 del 04/12/2013 – dep. 19/12/2013, P.M. in proc. Ferrante, Rv. 258506).
4.4.1. In linea di principio, riscontrato l’obbligo di procedere al referto da parte del sanitario per la incontroversa presenza di un fatto di reato perseguibile d’ufficio, si rivela configurabile il favoreggiamento: tipica l’ipotesi del latitante che aggredito da terzi, riporti lesioni integranti la perseguibilità d’ufficio del fatto riscontrate dal sanitario chiamato a curarlo. Salvo a voler ritenere che, a fronte della identità del bene giuridico tutelato, operi il principio di specialità che porterebbe a configurare esclusivamente il reato di cui all’art. 365 c.p. in relazione alla condotta di cui all’art. 334 c.p.p.; e non, come ritiene il Collegio più corretto, affermare che, una volta riscontrata una condotta omissiva integralmente mirata a favorire il terzo, si faccia prevalere la scelta interpretativa in forza alla quale la meno grave ipotesi dell’omissione sanzionata dall’art. 365 c.p. finisce per rimanere assorbita dalla condotta di favoreggiamento, che contiene tutte e due le azioni illecite, con l’aggiunta della finalizzazione dell’omissione all’elusione (cfr, rispetto all’analoga ipotesi del concorso tra l’ipotesi di cui all’art. 361 c.p. e quella di cui all’art. 378 c.p., le sentenze di questa Sezione nn 29836/13 e 36494/11).
4.4.2. Nel caso, l’omissione del referto non ha comunque rilievo grazie a quanto segnalato in sentenza dai Giudici distrettuali.
Nel cristallizzare il dolo del T. la Corte ha ritenuto fondamentale la dichiarazione dell’imputato in forza alla quale sembrò evidente allo stesso, nell’apprestare le cure, che il ferimento del paziente si era verificato nel corso di un ‘regolamento di conti tra bande’; ipotesi che ‘ suggeriva il contesto di una reciprocità malavitosa bisognevole di investigazioni di polizia giudiziaria’, strumentalizzata in sentenza per pervenire alla ritenuta ipotesi del favoreggiamento.
Muovendo da tale presupposto in fatto e dalle considerazioni logiche di supporto, è di tutta evidenza che il ricorrente non era tenuto all’obbligo di referto ex art. 334 c.p.p., considerato quanto previsto dall’art. 365 c.p., comma 2.
Il medico, infatti, beneficia della prerogativa riconosciuta dalla norma in questione ogni qualvolta dalla redazione del referto derivi la possibilità di esporre a procedimento penale la persona alla quale egli ha prestato assistenza. Muovendo dall’esempio tipico sopra prospettato, dunque, nel caso di cure prestate al latitante che risulta aggredito da terzi e riporti lesioni procedibili d’ufficio, laddove è pacifico che per detto fatto non vi è un coinvolgimento di immediata responsabilità ascrivibile al soggetto destinatario delle cure, rimane intatto l’obbligo di procedere al referto di cui all’art. 334 c.p.p. ed a catena, si attivano i presupposti oggettivi della omissione di cui all’art. 365 c.p. sino ad integrare il favoreggiamento nei termini sopra delineati. Se, invece, la vicenda concreta rassegni al medico una correlazione causale tra la patologia riscontrata, il fatto causale che l’ha determinata siccome immediatamente riferibile ad un reato procedibile d’ufficio e la potenziale sottoposizione della persona oggetto di cure a procedimento penale in conseguenza del referto perchè immediatamente coinvolta, non solo passivamente, nel reato palesato dalle emergenze in fatto, ecco che diviene attivo l’esonero di cui all’art. 365 c.p., comma 2. Non vi è dunque alcuna omissione sanzionabile neppure come frazione della condotta che porta al favoreggiamento.
4.4.3. Al caso di specie ben si attagliano le considerazioni esposte da ultimo. E’ infatti la stessa Corte distrettuale ad evidenziare la consapevolezza in capo al T. della riconducibilità eziologica della ferita riscontrata ad un ‘contesto di reciprocità malavitosa’, foriero di indagini destinate a coinvolgere direttamente anche il soggetto sottoposta a cure. E tanto porta definitivamente a escludere il reato avuto riguardo alla posizione del detto imputato, non essendo il T., nell’occasione, tenuto all’obbligo di referto.
Rispetto all’ A., infine, la valutazione finisce per essere meno complessa. La condotta del ricorrente trova comunque, anche se in termini meno immediati, la propria ragione causale sempre nella professione medica: l’imputato venne infatti compulsato per prestare le cure urgenti di natura chirurgica nella sua qualità di sanitario, anche se poi il tipo di prestazione richiesta ebbe a rivelarsi incompatibile con la specializzazione di sua immediata pertinenza. La sua condotta, nel porre in contatto chi chiedeva l’intervento ed il T., pur nella consapevolezza che le cure andavano prestate in situazione di clandestinità, in altro non si è concretata nel segnalare il nominativo di un soggetto in grado di apprestare le cure necessarie con l’urgenza rivendicata. Si tratta di condotta, dunque, colorata dalla medesima egida che ebbe ad informare quella del T., giacchè la relativa segnalazione, lungi dal supportare l’elusione propria del favoreggiamento, venne resa in esecuzione del dovere giuridico del medico di assistere chiunque abbia necessità di un intervento sanitario. Da qui le conseguenze enunziate nel dispositivo.
P.Q.M.
Annulla senza rinvio la sentenza impugnata perchè il fatto non sussiste.
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