Suprema Corte di Cassazione
sezione VI
sentenza 2 marzo 2015, n. 8989
Ritenuto in fatto
1. Con sentenza del 22 maggio 2014 la Corte d’appello di Reggio Calabria, in riforma della sentenza emessa dal G.u.p. presso il Tribunale di Palmi in data 11 aprile 2013 – che all’esito di giudizio abbreviato dichiarava G.M.G. , nella sua qualità di assistente sociale presso l’Ufficio esecuzione penale esterna di Reggio Calabria, colpevole dei reati di concussione per costrizione e di millantato credito aggravato dalla connessione teleologia e dall’abuso dei poteri di pubblico ufficiale, condannandola alla pena di anni cinque di reclusione – l’ha assolta dal reato di concussione di cui al capo sub A), perché il fatto non sussiste, e in relazione al reato di cui al capo sub B), esclusa l’aggravante di cui all’art. 61, n. 2, c.p., ha rideterminato la pena in anni tre di reclusione con la pena accessoria dell’interdizione dai pubblici uffici per la durata di anni cinque, confermando nel resto l’impugnata sentenza.
1.1. I Giudici di merito hanno affermato la responsabilità penale della predetta imputata, ritenendo provata la condotta ascrittale nel capo d’imputazione sub B) – artt. 346, e 61, n. 9, c.p. – sulla base della denuncia presentata dalla persona offesa, R.V. , di una conversazione avvenuta tra quest’ultimo e l’imputata – dal R. stesso registrata il 26 ottobre 2012 e consegnata alla P.G. all’atto della presentazione della denunzia – e, infine, di talune conversazioni oggetto d’intercettazione ambientale.
L’imputata, in particolare, è stata ritenuta penalmente responsabile – quale assistente sociale incaricata anche di redigere delle relazioni ai fini della concessione di misure alternative alla detenzione per le persone condannate, ed assegnataria, nel caso in questione, di analogo incombente nell’ambito di un procedimento di esecuzione penale nei confronti del R. – perché, millantando credito presso il Giudice di sorveglianza incaricato di decidere sull’istanza di affidamento in prova presentata dal predetto R. , destinatario di un ordine di carcerazione per l’esecuzione di quattro mesi di reclusione, prospettava a quest’ultimo la possibilità di ottenere quel beneficio ed evitare il carcere grazie all’interessamento di un suo amico poliziotto, a sua volta in grado di influire sulle decisioni del Giudice, purché venisse ricompensato con il versamento di una somma in contanti di Euro 1.500,00; si faceva pertanto consegnare, a tal fine, un acconto di Euro 1.000,00 quale anticipo sul versamento della predetta maggior somma, non solo per remunerare la propria illecita mediazione, ma anche per comprare il favore del pubblico ufficiale rispetto al quale la G. aveva millantato credito.
Esponevano, al riguardo, i Giudici di merito che l’imputata era stata arrestata in flagranza il 5 novembre 2012 – allorquando venne trovata in possesso di n. 10 banconote del taglio di 100 Euro cadauna – e che la consegna del denaro era avvenuta da parte della persona offesa con modalità preventivamente concordate con la Polizia giudiziaria e sotto il controllo di quest’ultima, avendone sollecitato l’intervento in seguito ad una serie di incontri e contatti avvenuti con il predetto pubblico ufficiale e dopo averle già promesso l’indebita prestazione.
2. Avverso la su indicata pronuncia hanno proposto ricorso per cassazione i difensori dell’imputata, che hanno dedotto due motivi di doglianza il cui contenuto viene qui di seguito sinteticamente illustrato.
2.1. Violazioni di legge e vizi motivazionali con riferimento alla ritenuta sussistenza del reato di millantato credito aggravato, poiché l’imputata non ha fatto riferimento, nella sua conversazione con il R. , ad alcun pubblico ufficiale, ma semplicemente ad un poliziotto in pensione, del quale non ha offerto alcun elemento utile per l’identificazione. Ricevuta la proposta da parte dell’imputata, peraltro, il R. non ha subito alcun condizionamento o influenza, né si è soffermato sulla proposta – generica e inidonea a sortire il benché minimo effetto – ma ha preso tempo per predisporre un piano finalizzato ad incastrare l’imputata. Al riguardo, infine, la Corte di merito ha ignorato le argomentazioni difensive svolte in sede di gravame, né ha cercato di approfondire la questione della consumazione del reato, ovvero quella della idoneità degli atti nell’ambito dell’ipotesi tentata.
2.2. Violazioni di legge e vizi motivazionali con riferimento sia al denegato riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche in regime di prevalenza – avuto riguardo all’incensuratezza dell’imputata, ai problemi di salute del marito e allo stato di disoccupazione dei figli – sia alla motivazione che sorregge la dosimetria della pena, tenuto conto del mancato rispetto dei criteri direttivi di cui all’art. 133 c.p..
Considerato in diritto
1. Il ricorso è inammissibile, in quanto sostanzialmente orientato a riprodurre un quadro di argomentazioni già esposte in sede di appello – e finanche dinanzi al Giudice di primo grado – che tuttavia risultano ampiamente vagliate e correttamente disattese dai Giudici di merito, ovvero a sollecitare una rivisitazione meramente fattuale delle risultanze processuali, imperniata sul presupposto di una valutazione alternativa delle fonti di prova, in tal guisa richiedendo l’esercizio di uno scrutinio improponibile in questa Sede, a fronte della linearità e della logica conseguenzialità che caratterizzano la scansione delle sequenze motivazionali della decisione qui impugnata.
Il ricorso, dunque, non è volto a rilevare mancanze argomentative ed illogicità ictu oculi percepibili, bensì ad ottenere un non consentito sindacato su scelte valutative compiutamente giustificate dal Giudice di appello, che ha adeguatamente ricostruito il compendio storico-fattuale posto a fondamento del tema d’accusa.
In tal senso, nel condividere le risultanze e il significato complessivo del quadro probatorio posto in risalto nella sentenza del Giudice di primo grado, la cui struttura motivazionale, sul punto qui considerato, viene a saldarsi perfettamente con quella di secondo grado, sì da costituire un corpo argomentativo uniforme e privo di lacune, la Corte di merito ha esaminato e puntualmente disatteso la diversa ricostruzione prospettata dalla difesa, ponendo in evidenza, attraverso il richiamo ai passaggi motivazionali già esaustivamente delineati nella prima decisione: a) che l’imputata, durante la conversazione oggetto di registrazione da parte del R. , non ebbe a formulare alcuna minaccia, neppur implicita, nei suoi confronti, limitandosi piuttosto a rappresentare, di fronte all’atteggiamento attendista dell’interlocutore, la delicatezza della situazione in cui egli versava e a sollecitare il tempestivo versamento di un anticipo sulla somma di denaro complessivamente richiestagli, al fine di condizionare la decisione in tempo utile per l’udienza ove sarebbe stata trattata la sua istanza; b) che ella non affermò che, in caso di mancato rispetto degli accordi, avrebbe redatto una relazione negativa sul suo conto, limitandosi unicamente a precisare che avrebbe presentato egualmente la sua relazione, senza poter influire favorevolmente, tuttavia, sull’accoglimento della sua istanza; c) che ella ribadì, ad ogni modo, che il mancato tempestivo versamento della somma avrebbe fatto adirare l’influente amico, il quale si sarebbe rifiutato di prestare il suo aiuto; d) che lo stesso R. , peraltro, ha affermato, nella sua denunzia, che in occasione del primo incontro avvenuto presso la sua abitazione con l’imputata, quest’ultima gli riferì di aver effettuato accertamenti sul suo conto, prospettandogli, contrariamente al vero, l’esistenza di un “carico pendente” che, sommandosi a quello già previsto nell’ordine di carcerazione, avrebbe determinato un ben più lungo periodo di detenzione a suo carico; e) che nel caso in esame, pertanto, anche in ragione della messa in campo di tale artifizio, evidentemente volto ad indurre la persona offesa ad aderire in toto alla richiesta di danaro che di lì a poco gli sarebbe stata rivolta, doveva ritenersi configurabile solo il reato di millantato credito e non anche quello di concussione.
2. Sulla base delle su esposte considerazioni, deve ritenersi del tutto coerente la conclusione del percorso motivazionale seguito dalla Corte d’appello, correttamente uniformatasi al quadro di principi tracciato da questa Suprema Corte (Sez. 6, n. 30150 del 07/06/2006, dep. 12/09/2006, Rv. 235428), secondo cui è irrilevante che il pubblico ufficiale abbia o meno emesso il provvedimento per il quale l’agente ha promesso il suo interessamento, consumandosi il reato di cui all’art. 346, cpv., c.p., già solo nel momento in cui l’agente si fa promettere l’utilità con il pretesto di dover comprare il favore del pubblico ufficiale, mentre non è affatto previsto come elemento costitutivo del reato che l’agente condizioni effettivamente l’attività del pubblico ufficiale. Se ciò accadesse, e la remunerazione fosse dunque effettivamente destinata al pubblico ufficiale, scatterebbero le diverse ipotesi di reato previste dagli artt. 318 e 319 c.p..
Il millantato credito realizza, quindi, una forma di tutela anticipata, dovendosi ritenere sufficiente per la sua integrazione, alternativamente, l’accettazione della promessa ovvero la dazione e ricezione di un’utilità anche non patrimoniale (Sez. 6, n. 30150 del 07/06/2006, dep. 12/09/2006, cit; Sez. 6, n. 50078 del 28/11/2014, dep. 01/12/2014, Rv. 261540).
Nel caso in esame, come osservato dai Giudici di merito, l’imputata si fece promettere dal R. la somma di Euro 1.500,00, ricevendo a titolo di acconto la minor somma di Euro 1.000,00 per la finalità in narrativa indicata.
Di tentativo, pertanto, contrariamente a quanto dedotto dalla difesa, potrebbe parlarsi solo nell’ipotesi, non verificatasi nel caso in esame, in cui la millanteria non raggiungesse il risultato avuto di mira dall’agente, ossia la datio o la promissio (Sez. 6, n. 819 del 02/05/1967, dep. 06/07/1967, Rv. 104940).
Sono peraltro irrilevanti, al riguardo, l’eventuale riserva mentale di non adempiere – poiché la dazione o la promessa di denaro o altra utilità fatta dalla vittima del reato al pubblico ufficiale o all’incaricato di pubblico servizio dev’essere considerata nel suo oggettivo significato – come pure la sola circostanza che il soggetto passivo si sia rivolto alle forze di polizia, per sottrarsi alle ulteriori pretese dell’autore del reato, dopo aver già promesso l’indebita prestazione al pubblico ufficiale (arg. ex Sez. 6, n. 20914 del 05/04/2012, dep. 30/05/2012, Rv. 252786).
Né occorre, del resto, che l’agente indichi nominativamente i funzionari o impiegati i cui favori devono essere comprati o remunerati (Sez. Un., n. 12822 del 21/01/2010, dep. 02/04/2010, Rv. 246270).
Sotto altro, ma connesso profilo, deve infine rilevarsi come l’impugnata sentenza abbia fatto buon governo dei principi più volte stabiliti da questa Suprema Corte (Sez. 6, n. 34827 del 01/07/2009, dep. 08/09/2009, Rv. 244768; Sez. 6, n. 30002 del 03/06/2002, dep. 27/08/2002, Rv. 222188), secondo il cui pacifico insegnamento giurisprudenziale integra il delitto di millantato credito aggravato (ex artt. 346, 61, n. 9, cod. pen.), e non quello di concussione, la condotta di induzione della vittima a versare una somma di denaro realizzata dal pubblico ufficiale mediante il raggiro della falsa rappresentazione di una situazione di grave pregiudizio e della proposta di comprare i favori di altri ignari ed inesistenti pubblici ufficiali per ottenere un risultato a lei favorevole.
3. La Corte d’appello, pertanto, ha compiutamente indicato le ragioni per le quali ha ritenuto sussistenti gli elementi richiesti per la configurazione del delitto oggetto del tema d’accusa, ed ha evidenziato al riguardo gli aspetti maggiormente significativi, dai quali ha tratto la conclusione che la ricostruzione proposta dalla difesa si poneva solo quale mera ipotesi alternativa, peraltro smentita dal complesso degli elementi di prova processualmente acquisiti.
La conclusione cui è pervenuta la sentenza impugnata riposa, in definitiva, su un quadro probatorio linearmente rappresentato come completo ed univoco, e come tale in nessun modo censurabile sotto il profilo della congruità e della correttezza logico-argomentativa.
In questa Sede, invero, a fronte di una corretta ed esaustiva ricostruzione del compendio storico-fattuale oggetto della regiudicanda, non può ritenersi ammessa alcuna incursione nelle risultanze processuali per giungere a diverse ipotesi ricostruttive dei fatti accertati nelle pronunzie dei Giudici di merito, dovendosi la Corte di legittimità limitare a ripercorrere l’iter argomentativo ivi tracciato, ed a verificarne la completezza e la insussistenza di vizi logici ictu oculi percepibili, senza alcuna possibilità di verifica della rispondenza della motivazione alle correlative acquisizioni processuali.
4. Inammissibili, infine, devono ritenersi le censure difensive prospettate in relazione alla dosimetria della pena ed al mancato riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche, poiché la Corte distrettuale ha specificamente indicato, con motivazione congrua ed immune da vizi logico-giuridici, le ragioni giustificative del suo apprezzamento, incentrato su una valutazione di merito soffermatasi, in particolare, sul rilievo della specifica gravità del comportamento delittuoso tenuto nel caso in esame, in ciò confermando l’analogo vaglio già espresso dal Giudice di primo grado: una valutazione, questa, rispettosa dei criteri direttivi posti dall’art. 133 c.p. e come tale non assoggettabile a sindacato in questa Sede, ponendosi, di contro, le deduzioni difensive sul punto formulate nella mera prospettiva di accreditare una diversa ed alternativa valutazione in ordine alla sussistenza dei presupposti fattuali che giustificherebbero la concessione delle invocate attenuanti o un diverso trattamento sanzionatorio.
V’è ancora da considerare, al riguardo, non solo il fatto che dopo la modifica dell’art. 62-bis, disposta con il D.L. 23 maggio 2008, n. 92, convertito con modifiche nella legge 24 luglio 2008, n. 125, per la concessione della diminuente non è più sufficiente lo stato di incensuratezza dell’imputato, ma anche l’ulteriore profilo che, nel motivare il diniego della concessione delle attenuanti generiche, non è necessario che il giudice prenda in considerazione tutti gli elementi favorevoli o sfavorevoli dedotti dalle parti o rilevabili dagli atti, ma è sufficiente che egli, come avvenuto nel caso in esame, faccia riferimento a quelli ritenuti decisivi o comunque rilevanti, rimanendo disattesi o superati tutti gli altri da tale valutazione (Sez. 6, n. 34364 del 16/06/2010, dep. 23/09/2010, Rv. 248244).
5. Per le considerazioni or ora esposte, dunque, il ricorso deve essere dichiarato inammissibile, con la conseguente condanna della ricorrente al pagamento delle spese processuali ed al versamento alla Cassa delle ammende di una somma che, in ragione delle questioni dedotte, si stima equo quantificare nella misura di Euro mille.
P.Q.M.
dichiara inammissibile il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro 1.000,00 in favore della Cassa delle ammende.
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