Corte di Cassazione – Sezione VI penale – sentenza 19.4.2011, n. 18082. Il concorso tra il delitto di calunnia e quello di favoreggiamento personale

La massima

È configurabile il concorso tra il delitto di calunnia e quello di favoreggiamento personale nella condotta di colui che accusi falsamente taluno di aver commesso un reato al fine di sviare le indagini dal vero autore dello stesso.

Il testo integrale

SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE

SEZIONE VI PENALE

Sentenza 19 aprile 2011, n. 18082

Svolgimento del processo

M.A. ricorre, a mezzo del suo difensore, contro la sentenza 23 gennaio 2009 della Corte di appello di Milano, la quale ha confermato la sentenza 16 gennaio 2007 del Giudice per le indagini preliminari presso il Tribunale di Milano, che ha dichiarato il ricorrente responsabile del delitto di calunnia, continuata ed aggravata (capo A della rubrica), ai danni di C.M., persona indicata reiterata mente, sia innanzi alla Polizia Giudiziaria, sia innanzi al P.M. quale autore del tentato omicidio volontario commesso nei suoi confronti il (OMISSIS). Fatto accertato in (OMISSIS) e perpetrato al fine di eludere le investigazioni dell’Autorità, con ciò favorendo il vero autore del delitto di tentato omicidio volontario (art. 378 c.p.: capo B).

Per i predetti delitti, unificati dal vincolo della continuazione, il M. è stato condannato alla pena di anni quattro e mesi otto di reclusione, operata la riduzione per il rito abbreviato e senza circostanze attenuanti generiche, per la particolare intensità del dolo e la gravità delle conseguenze, cagionate alla persona ingiustamente accusata, la quale ha subito una carcerazione di quasi due mesi.

1.) la conforme doppia decisione dei giudici di merito.

Il G.U.P., dopo aver premesso che l’estraneità ai fatti del M. – accusato dal M. – è stata verificata avuto riguardo all’incompatibilità tra i profili genetici estrapolati dai reperti rinvenuti sulla scena del delitto e quelli dell’indagato C.M., ha, in punto di responsabilità, osservato quanto segue:

a) che il M., in un primo momento, aveva riferito di essere stato aggredito nel sonno da persona che era entrata clandestinamente nella sua abitazione, passando via via a parziali ricostruzioni della vicenda, man mano che gli inquirenti lo esaminavano, sulla scorta di elementi sempre più precisi acquisiti a seguito dello sviluppo dei tabulati telefonici e delle risultanze scientifiche;

b) che, fin dalla seconda deposizione, l’unico elemento che il M. ha sempre costantemente ribadito è consistito nel rivolgere pervicacemente accuse nei confronti di C., che ha insistito ad accusare anche quando gli sono stati comunicati i risultati degli accertamenti sul D.N.A. che concludevano per completa incompatibilità tra il profilo genetico dell’aggressore e quello dello C. stesso;

c) che nella specie era ravvisabile il concorso tra il delitto di calunnia e quello di favoreggiamento personale, atteso che i due reati hanno ambiti e presupposti di applicabilità specifica presidiando ciascuna fattispecie autonome e distinti interessi.

Proposto appello, la difesa ha concluso chiedendo l’assoluzione per mancanza dell’elemento soggettivo del reato, rilevando: 1) che se vera fosse l’ipotesi che il M. avesse voluto proteggere il proprio aguzzino, si sarebbe ben guardato dal chiedere un repentino intervento delle Forze dell’Ordine, correndo, in tal modo, il rischio di far catturare subito il proprio aggressore; 2) che non è ravvisabile alcuna intenzione di ostacolare le indagini e di eludere le investigazioni dell’Autorità, bensì un contegno di assoluto “riserbo” nell’evidenziare le proprie inclinazioni di omosessuale, non rese palesemente note neppure in ambito strettamente familiare;

3) che è quindi ragionevolmente sostenibile che il M. sia caduto in errore nell’avanzare accuse nei confronti di C.; 4) che in ogni caso andava affermato il concorso apparente di norme per essere il fatto contestato sub B) dell’imputazione sussumibile in quello indicato al capo A) ai sensi dell’art. 15 c.p.; 5) che la pena andava ridotta, previo riconoscimento delle attenuanti generiche con giudizio di prevalenza rispetto all’aggravante contestata sub A), in considerazione della situazione di disagio emotivo e psicologico in cui versava l’imputato che è stato vittima di un accanito accoltellamento che lo ha portato ad essere ricoverato a lungo in pericolo di vita.

La Corte di appello ha ritenuto infondato il gravame e la sentenza è stata oggetto dell’odierno ricorso

Motivi della decisione

Con un primo motivo di impugnazione viene dedotta mancanza o manifesta illogicità della motivazione della sentenza nel senso che le espressioni usate dalla Corte di appello non costituivano accettabile giustificazione dell’affermazione di colpevolezza.

Per il ricorrente la Corte di appello, con una motivazione, “per relationem”, avrebbe proceduto ad un mero ed ingiustificato avallo delle conclusioni espresse nella condanna di primo grado, senza compiere alcun tipo di disamina sulle doglianze prospettate nell’atto di appello e volte, attraverso la ricostruzione minuziosa del modus operandi dell’imputato, a mettere in dubbio l’attendibilità delle conclusioni d’accusa.

In particolare la motivazione sarebbe carente nella trattazione dell’ulteriore e fondamentale aspetto rappresentato dalla precisa dimostrazione dell’esistenza in capo al propalante della consapevolezza dell’innocenza del calunniato, ricavabile dalle concrete circostanze e modalità esecutive dell’azione delittuosa.

Nè sarebbe utilizzabile in proposito l’ostinazione delle dichiarazioni accusatorie, rimaste tali anche a fronte della comunicata incompatibilità dei profili genetici estrapolati con quelli di C..

Il motivo è manifestamente privo di fondamento in quanto ignora l’ampia e precisa argomentazione sul punto della corte distrettuale, la quale ha fornito adeguata e ragionevole spiegazione della pronuncia di responsabilità e degli elementi utilizzati, per il manifestato convincimento di reità, elementi tutti che, per come sono stati opportunamente valorizzati, ed analiticamente esposti danno risposta adeguata e logicamente ineccepibile alle doglianze del gravame.

Va inoltre precisato che nella verifica della consistenza dei rilievi mossi alla sentenza della Corte di secondo grado, tale decisione non può essere valutata isolatamente, ma deve essere esaminata in stretta ed essenziale correlazione con la sentenza di primo grado, dal momento che entrambe risultano sviluppate e condotte secondo linee logiche e giuridiche pienamente concordanti.

In buona sostanza ed in altre parole, nella specie, ci si trova di fronte a due sentenze, di primo e secondo grado, che concordano nell’analisi e nella valutazione degli elementi di prova posti a fondamento delle rispettive decisioni, con una struttura motivazionale della sentenza di appello che si salda perfettamente con quella precedente, sì da costituire un unico complessivo corpo argomentativo, privo di lacune, considerato che la sentenza impugnata, ha dato comunque congrua e ragionevole giustificazione del finale giudizio di colpevolezza, ricostruendo le condotte dell’imputato e l’animus che le ha informate, in un contesto di sempre più evidente e smaccata estraneità dell’incolpevole accusato.

In conclusione l’esito del giudizio di responsabilità non può essere invalidato dalle prospettazioni alternative del ricorrente le quali si risolvono nel delineare una “mirata rilettura” di quegli elementi di fatto che sono stati posti a fondamento della decisione, nonchè nella autonoma assunzione di nuovi e diversi parametri di ricostruzione e valutazione dei fatti, da preferirsi a quelli adottati dal giudice del merito, perchè illustrati come maggiormente plausibili, oppure perchè assertivamente dotati di una migliore capacità esplicativa, nel contesto in cui la condotta si è in concreto esplicata.

Il motivo è quindi inammissibile non essendo infine, nella specie, ragionevolmente ipotizzabile in capo all’imputato, ed in relazione alla sua concreta condotta, una qualsiasi ombra di dubbio od incertezza circa l’estraneità ai fatti dell’innocente accusato.

Con un secondo motivo si lamenta l’erroneo ritenuto concorso di norme tra l’art. 368 c.p. ed il art. 378 c.p. trattandosi di reati entrambi predisposti a tutelare il lineare sviluppo dell’azione penale e l’amministrazione della giustizia.

Anche questa doglianza è palesemente infondata.

I delitti in questione, entrambi rubricati come delitti contro l’amministrazione della giustizia e specificamente contro l’attività giudiziaria, finiscono con il tutelare in modo esclusivo e preminente due diversi e non sovrapponibili interessi: la tutela dell’innocente da false incolpazioni, presidiata dal disposto dell’art. 368 c.p., ed il corretto e naturale sviluppo delle investigazioni e ricerche dell’Autorità, dopo la commissione di un delitto, che vengono invece salvaguardate, con la norma dell’art. 378 c.p., da “condotte interferenti di aiuto”, finalizzate alla elusione ed alla sottrazione della funzionale attività di Polizia giudiziaria, che sia diretta nei confronti di un soggetto, anche se non imputabile o non autore del delitto per cui le dette investigazioni e ricerche vengono iniziate e sviluppate.

Nessun dubbio quindi circa la compatibilità di un concorso tra la calunnia in danno dell’incolpevole C. ed il contestato favoreggiamento personale, in aiuto del vero autore dell’aggressione.

Con un terzo motivo si prospetta l’omesso riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche, dovuto invece laddove si fosse pesato il contesto dell’agire del ricorrente ed il disagio emotivo e psicologico che lo affliggeva.

Anche questa doglianza non supera la soglia dell’ammissibilità avuto riguardo alla doppia conforme motivazione dei giudici di merito che ha ampiamente giustificato la negazione delle circostanze attenuanti generiche in relazione all’oggettiva gravità dei fatti, la reiterazione pervicace della condotta e l’intensità del dolo.

Il ricorso quindi, nella palese verificata coerenza logico-giuridica ed adeguatezza della motivazione, quale proposta nella decisione impugnata, va dichiarato inammissibile.

All’inammissibilità del ricorso stesso consegue, ex art. 616 c.p.p., la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali e di una somma in favore della Cassa delle ammende che si stima equo determinare in Euro 1000,00 (mille).

P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro. 1.000,00 in favore della Cassa delle ammende.

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