Suprema Corte di Cassazione
sezione VI
sentenza 18 giugno 2015, n. 25903
Ritenuto in fatto
1. Con pronuncia del 24 giugno 2014, la Corte d’appello di Palermo ha confermato la sentenza del 13 dicembre 2011, con la quale il Tribunale di Marsala ha condannato D.G. alla pena di mesi uno di reclusione, in relazione ai reati di cui agli artt. 341-bis cod. pen. (capo A) e 651 cod. pen. (capo B), commessi il 28 maggio 2010.
2. Ricorre avverso la sentenza l’Avv. Giuseppe Ferro, difensore di fiducia di D.G., e ne chiede l’annullamento per violazione di legge penale e vizio di motivazione, per avere la Corte d’appello ritenuto integrato il reato di cui all’art. 341-bis cod. pen. sebbene la frase “Ecco, sono arrivati gli sbirri” non possa ritenersi chiaramente offensiva dell’onore e della reputazione dei pubblici ufficiali.
3. In udienza, il Procuratore generale ha chiesto che la sentenza impugnata sia annullata senza rinvio perché il fatto non è previsto dalla legge come reato ed il difensore di D. ha insistito per l’accoglimento del ricorso.
Considerato in diritto
1. II ricorso è fondato e la sentenza impugnata deve essere annullata limitatamente alla pronuncia di condanna in ordine al reato di cui all’art. 341-bis cod. pen. (capo A).
2. La Corte d’appello ha motivato il giudizio di responsabilità dell’imputato per il delitto di oltraggio a pubblico ufficiale stimando la frase “Ecco, sono arrivati gli sbirri” chiaramente offensiva dell’onore e della reputazione dei pubblici ufficiali, in quanto, per il modo e per il contesto in cui veniva pronunciata – in luogo pubblico o comunque aperto al pubblico (davanti ad un bar) in presenza di diversi soggetti, ad alta voce e con tono di sfida -, denotante un’evidente disprezzo per i rappresentanti delle forze dell’ordine, disprezzo confermato dal successivo rifiuto dell’imputato di fornire le proprie generalità.
3. Ritiene il Collegio che le valutazioni espresse dalla Corte territoriale non possano essere condivise.
3.1. In linea generale, va evidenziato come il legislatore del 2009, nel reintrodurre la fattispecie dell’oltraggio a pubblico ufficiale, abbia previsto, diversamente dalla incriminazione abrogata con la legge n. 205/1999, che l’offesa sia connotata dal requisito della pubblicità, e cioè avvenga in un luogo pubblico ovvero aperto al pubblico ed in presenza di più persone. L’offesa al pubblico ufficiale non è tipizzata: il delitto è a forma libera ed è integrato da una qualunque manifestazione offensiva, attiva o omissiva, esplicita o implicita, anche violenta o minacciosa, che rivesta valenza lesiva del prestigio del pubblico ufficiale. In caso di oltraggio commesso rivolgendo una frase al pubblico ufficiale, le espressioni utilizzate devono essere connotate da un’obbiettiva idoneità offensiva e, pertanto, essere tali da recare nocumento a quella particolare forma di decoro e di rispetto che deve circondare quanti esercitano una pubblica funzione.
3.2. Secondo i principi fissati da questo giudice di legittimità, ai fini della valutazione in punto di idoneità offensiva delle espressioni utilizzate nei confronti del pubblico ufficiale, non ci deve limitare a valutare il mero significato obiettivo delle parole, ma si deve tenere conto anche dei criteri etico sociali comunemente condivisi e, soprattutto, della evoluzione del linguaggio nella società. Il che peraltro non significa che l’obiettiva capacità offensiva delle parole possa ritenersi elisa dalla facilità con cui nella società contemporanea vengono abitualmente usate espressioni volgari (Cass. Sez. 6, n. 11396 del 18/10/1994, Chíavarini, Rv. 199378) o dal fatto che una data locuzione ricorra frequentemente nel linguaggio comune, potendo questa integrare il reato allorché sia inserita in un contesto che esprima, senza possibilità di equivoci, disprezzo e disistima per le funzioni del pubblico ufficiale (Cass. Sez. 6, n. 413 del 29/11/1988 Strati Rv. 180174).
3.3. Sebbene non sia previsto dall’art. 341-bis – mentre l’ipotesi previgente lo richiedeva espressis verbis -, l’offesa deve avvenire anche in presenza del pubblico ufficiale, requisito che si desume, seppure implicitamente, dalla previsione che la condotta oltraggiosa deve avvenire “mentre” il pubblico ufficiale che riceva l’offesa “compie un atto d’ufficio ed a causa o nell’esercizio delle sue funzioni”, contemporaneità che resterebbe priva dì significato ove l’offesa perseguita non fosse immediatamente percepita dal pubblico ufficiale intento a svolgere l’attività d’ufficio.
È ovviamente richiesta la prova del nesso funzionale, e cioè che l’offesa, non solo sia posta in essere mentre il soggetto passivo sta compiendo un atto del suo ufficio, ma sia strettamente connessa all’esercizio delle funzioni e, dunque, abbia la propria scaturigine nell’atto d’ufficio che il pubblico ufficiale sta ponendo in essere. Il reato di cui all’art. 341-bis cod. pen. sanziona infatti non una qualunque critica anche accesa verso i pubblici ufficiali mediante l’articolazione di frasi dal contenuto denigratorio, bensì solo e soltanto la condotta ingiuriosa che – in quanto connotata dal requisito della pubblicità, dalla presenza dell’offeso pubblico ufficiale e soprattutto da una relazione diretta rispetto all’espletamento della pubblica funzione – sia tale da minare la dignità sociale del pubblico ufficiale e, attraverso di esso, la considerazione della pubblica amministrazione che impersonifica in quel momento.
3.4. Sintetizzando, il delitto di oltraggio a pubblico ufficiale può ritenersi integrato quando siano rivolte al destinatario delle parole o frasi volgari ed offensive, sebbene di uso corrente nel linguaggio usato nella società moderna, che assumano una valenza obiettivamente denigratoria di colui il quale esercita la pubblica funzione e non costituiscano espressione di mera critica, anche accesa, o di villania, e che siano correlate alla funzione pubblica del soggetto passivo, così da incidere sul consenso che la P.A. deve avere nella società.
4. Fissati i principi che devono guidare la soluzione del caso di specie, ritiene il Collegio che erroneamente la Corte territoriale abbia stimato la frase “Ecco, sono arrivati gli sbirri” chiaramente diretta ad offendere l’onore e la reputazione del pubblico ufficiale in ragione della pubblica funzione nel contesto concretamente svolta.
4.1. Può infatti convenirsi che il termine “sbirro”, derivante dal termine tardo latino birrus, rosso (con riferimento al colore del mantello con cappuccio che le guardie dei comuni, delle repubbliche e delle signorie erano solite indossare in epoca tardo medievale e rinascimentale), sia oggi comunemente utilizzato in senso spregiativo per indicare i poliziotti o, più in generale, gli esponenti delle forze dell’ordine. Si tratta di una parola che, anche nella società contemporanea – nella quale è ormai abituale l’utilizzo nel linguaggio corrente, finanche nei mass media, di termini rozzi, volgari ed offensivi -, risulta obbiettivamente connotata da una valenza denigratoria, laddove evoca il ricorso a metodi sbrigativi, all’uso della forza e dunque all’abuso dei poteri riconosciuti agli “sbirri” in epoca medioevale e rinascimentale, in quanto “braccio armato” dei signori di turno al potere.
4.2. Tanto premesso ritiene nondimeno il Collegio che, dagli stessi elementi esposti nella sentenza impugnata, sì ricavi come l’offesa si atteggiasse a protesta contro l’astratta funzione della polizia e non fosse diretta a ledere i singoli pubblici ufficiali in ragione degli atti che stavano svolgendo.
4.3. Ed invero, da quanto si legge nelle sentenze di merito e dal tenore della stessa contestazione, nel corpo della frase pronunciata da D., l’epiteto “sbirri” non era rivolto direttamente agli esponenti dell’Arma dei Carabinieri, come nel caso in cui il ricorrente avesse detto: “siete proprio degli sbirri”, “Vi state comportando da sbirri”, associando in modo diretto la qualità di pubblico ufficiale, o la funzione pubblica svolta, al termine avente valenza spregiativa. Il senso della frase contenente il vocabolo incriminato, valutata in modo oggettivo – tenendo conto della sintassi della proposizione e dunque della successione delle parole -, non è quello di bollare con un termine dispregiativo la veste dei Carabinieri o le modalità dei loro operato, bensì solo di protestare dinanzi alle persone presenti in occasione dell’arrivo sul posto dei pubblici ufficiali, spendendo un epiteto negativo, comune nel linguaggio corrente.
Non v’è dubbio che la locuzione utilizzata da D. sia irriverente, esprima una mancanza di riguardo dell’imputato verso i pubblici ufficiali e muova in un ottica chiaramente provocatoria dei militari che stavano giungendo sul posto. Ciò nondimeno, la proposizione, avendo riguardo alle parole che la compongono ed al contesto spazio temporale come ricostruito dai decidenti di merito, non si rapporta né alle specifiche persone fisiche giunte sul posto, né ad atti da queste concretamente posti in essere in quel determinato momento, sì da poter ritenere integrato, anche sotto il profilo psicologico, il nesso funzionale fra offesa e contemporaneo esercizio della funzione pubblica richiesto dall’incriminazione.
4.4. D’altra parte, dalla ricostruzione della vicenda compiuta dai giudici di merito, non emerge che la proposizione si connotasse – per il particolare tono con il quale veniva pronunciata ovvero per la mimica facciale o per la gestualità da cui veniva accompagnata – da una valenza offensiva o minatoria. Detta frase, giusta il tono genericamente definito in sentenza “di sfida”, certamente fu profferita dal D. con intento provocatorio, il che, tuttavia, non le conferisce – né sotto il profilo oggettivo, né sotto quello soggettivo – un’idoneità offensiva tale da recare pregiudizio all’onore ed al prestigio degli esercenti la pubblica funzione, nei termini sanzionati dal disposto dell’art. 341-bis.
4.5. In ultimo, mette conto evidenziare come la valenza oltraggiosa non possa ritenersi confermata – come invece assume la Corte territoriale – dal rifiuto dell’imputato di rassegnare i documenti identificativi, trattandosi di comportamento cronologicamente successivo ed ontologicamente distinto dall’articolazione della frase in ipotesi d’accusa offensiva.
6. La sentenza impugnata deve pertanto essere annullata limitatamente al capo A) perché il fatto non è previsto dalla legge come reato con rinvio ad altra sezione della Corte d’Appello di Palermo per la rideterminazione della pena in relazione al capo B).
P.Q.M.
annulla la sentenza impugnata limitatamente al capo A) perché il fatto non è previsto dalla legge come reato e rinvia per la rideterminazione della pena in relazione al capo B) ad altra sezione della Corte d’Appello di Palermo.
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