La massima
Integra il reato di tentata concussione per costrizione la condotta dell’agente che, nell’abusare della sua qualità di pubblico ufficiale, mostra ad una prostituta il tesserino di poliziotto e pretende che la donna salga in macchina per consumare con lui un rapporto sessuale, prospettando tale soluzione come il modo per non crearle in seguito problemi, senza indicare l’esercizio lecito di alcun potere ovvero il compimento di uno specifico atto doveroso.
SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE
SEZIONE VI
SENTENZA 13 maggio 2013, n. 20428
Ritenuto in fatto
1. Con la sentenza sopra indicata la Corte di appello di Bologna confermava la pronuncia di primo grado del 03/04/2008 con la quale il Giudice dell’udienza preliminare del Tribunale della stessa città aveva condannato E..M. alla pena di giustizia in relazione al reato di cui agli artt. 56 e 317 cod. pen., per avere, in (omissis) , avvicinandosi a M..G. , cittadina … priva di permesso di soggiorno, nel mentre esercitava la prostituzione per strada, esibendole il suo tesserino di agente della polizia di Stato, chiedendole i documenti ed invitando la giovane a seguirlo per avere un rapporto sessuale, che “in quel modo avrebbe fatto finta di non averla vista”, compiuto atti idonei diretti in modo non equivoco a costringere o, comunque, ad indurre la G. , abusando dei propri poteri e qualità, a prestarsi a consumare con lui quel rapporto sessuale, senza conseguire il risultato voluto per il diniego opposto dalla persona offesa.
Rilevava la Corte di appello come le emergenze processuali – in specie le attendibili dichiarazioni della vittima, che avevano trovato riscontro nelle deposizioni di altri testimoni ed in talune altre circostanze obiettive, riguardanti soprattutto il comportamento tenuto dalla donna dopo l’accaduto – avessero dimostrato l’esistenza degli elementi costitutivi del delitto contestato, qualificato dal primo giudice in termini di tentativo di concussione per induzione, in considerazione del fatto che il M. , benché in abiti civili e fuori dal servizio, aveva formulato quella pretesa indebita abusando della propria qualità, pretesa decisamente rifiutata dalla G. che si era determinata a denunciare l’episodio.
2. Avverso tale sentenza ha presentato ricorso il M. , con atto sottoscritto dal suo difensore avv. Carlo Ugolini, il quale ha dedotto, formalmente con due distinti motivi, la violazione di legge in relazione agli artt. 56 e 317 cod. pen. ed il vizio di motivazione, per contraddittorietà o manifesta illogicità, per avere la Corte territoriale erroneamente attribuito piena attendibilità alle dichiarazioni accusatone della persona offesa G. , nonostante il teste C..R. , conducente dell’auto sulla quale si trovava il M. al momento dell’incontro con la donna, avesse reso una deposizione favorevole all’imputato, della quale i Giudici di merito avevano omesso ogni considerazione; e nonostante le indicazioni della vittima fossero risultate contraddittorie, soprattutto in ordine all’atteggiamento tenuto subito dopo i fatti, avendo ella inizialmente riferito di avere subito interrotto la sua attività di prostituzione ed avendo, poi, rettificato tale versione, sostenendo di avere avuto un altro incontro con un cliente prima di recarsi in questura per denunciare l’accaduto. Il ricorrente si è, altresì, doluto della omessa valorizzazione della sua diversa narrazione dell’episodio (avendo egli riferito di non aver mai rivolto pretese sessuali alla G. , ma di essersi limitato a chiedere alla stessa e ad un’altra prostituta di liberare la strada
dall’intralcio, e di avere esibito il suo tesserino dopo che la prima lo aveva insultato); e della illogicità della motivazione nella parte in cui la Corte di appello aveva ritenuto come riscontro alla fondatezza dell’ipotesi accusatoria il fatto che, quattro giorni dopo quell’incontro, il M. , durante il proprio servizio, avesse fermato ed accompagnato in questura quattro prostitute, tra le quali la G. e l’amica di questa, incontrate qualche giorno prima.
Considerato in diritto
1. Ritiene la Corte che il ricorso vada rigettato.
2. Il motivo proposto con l’atto di impugnazione è inammissibile perché presentato per fare valere ragioni diverse da quelle consentite dalla legge.
Ed infatti, formalmente il ricorrente ha indicato, come motivi della sua impugnazione – oltre ad una violazione di legge penale sostanziale, senza tuttavia indicare alcuna reale erronea applicazione delle norme contestate – i vizi di contraddittorietà o manifesta illogicità della motivazione della decisione gravata, senza però prospettare alcuna reale contraddizione logica, intesa come implausibilità delle premesse dell’argomentazione, irrazionalità delle regole di inferenza, ovvero manifesto ed insanabile contrasto tra quelle premesse e le conclusioni; né essendo stata lamentata, come pure sarebbe stato astrattamente possibile, una incompleta descrizione degli elementi di prova rilevanti per la decisione, intesa come incompletezza dei dati informativi desumibili dalle carte del procedimento.
Il ricorrente, invero, si è limitato a criticare il significato che la Corte di appello di Bologna aveva dato al contenuto delle emergenze acquisite durante l’istruttoria dibattimentale di primo grado e, in specie, i criteri impiegati per la decisione sull’attendibilità della deposizione della principale accusatrice dell’imputato. E, tuttavia, bisogna rilevare come il ricorso, lungi dal proporre un “travisamento delle prove”, vale a dire una incompatibilità tra l’apparato motivazionale del provvedimento impugnato ed il contenuto degli atti del procedimento, tale da disarticolare la coerenza logica dell’intera motivazione, è stato presentato per sostenere, in pratica, una ipotesi di “travisamento dei fatti” oggetto di analisi, sollecitando un’inammissibile rivalutazione dell’intero materiale d’indagine, rispetto al quale è stata proposta dalla difesa una spiegazione alternativa alla semantica privilegiata dalla Corte territoriale nell’ambito di un sistema motivazionale logicamente completo ed esauriente.
Questa Corte, pertanto, non ha ragione di discostarsi dal consolidato principio di diritto secondo il quale, a seguito delle modifiche dell’art. 606, comma 1, lett. e), cod. proc. pen., ad opera dell’art. 8 della legge 20 febbraio 2006, n. 46, mentre è consentito dedurre con il ricorso per cassazione il vizio di “travisamento della prova”, che ricorre nel caso in cui il giudice di merito abbia fondato il proprio convincimento su una prova che non esiste o su un risultato di prova obiettivamente ed incontestabilmente diverso da quello reale, non è affatto permesso dedurre il vizio del “travisamento del fatto”, stante la preclusione per il giudice di legittimità a sovrapporre la propria valutazione delle risultanze processuali a quella compiuta nei precedenti gradi di merito, e considerato che, in tal caso, si domanderebbe alla Cassazione il compimento di una operazione estranea al giudizio di legittimità, qual è quella di reinterpretazione degli elementi di prova valutati dal giudice di merito ai fini della decisione (così, tra le tante, Sez. 3, n. 39729 del 18/06/2009, Belluccia, Rv. 244623; Sez. 5, n. 39048 del 25/09/2007, Casavola, Rv. 238215).
La motivazione contenuta nella sentenza impugnata possiede una stringente e completa capacità persuasiva, nella quale non sono riconoscibili vizi di manifesta illogicità, avendo la Corte emiliana analiticamente e convincentemente spiegato le ragioni per le quali le dichiarazioni della persona offesa G. dovessero considerarsi pienamente credibili: sottolineando come le precise ed analitiche indicazioni fornite dalla vittima della tentata concussione avessero trovato un valido e logico riscontro nel fatto che la stessa, poco dopo i fatti, si era immediatamente rivolta a tal D.A. , presidente di un’associazione privata impegnata a contrastare lo sfruttamento della prostituzione, il quale, ricevute le confidenza della donna, nelle prime ore del giorno successivo l’aveva accompagnata in questura per narrare l’accaduto, come pure confermato dall’ispettore della polizia che aveva raccolto una prima informale denuncia; come la G. , che era stata spaventata dall’atteggiamento dell’uomo che si era qualificato come poliziotto – mostrandole il tesserino e, approfittando della sua posizione di supremazia derivante dall’abuso della qualità di pubblico ufficiale, pretendendo di consumare un rapporto sessuale per evitarle altri problemi (“Sali in macchina e andiamo… io potrei farti dei problemi, facciamo qualcosa e tu non mi vedi più… dopo io non ti conosco e tu non mi conosci”) – avesse preso subito la targa dell’auto bmw sulla quale si trovava l’agente, vettura che, quella notte stessa, era stata controllata da un ispettore della polizia municipale, che aveva effettivamente riscontrato la presenza del M. ; come, in tale contesto probatorio, fosse irrilevante che le parole rivolte dall’imputato alla donna non fossero state udite da altri testi presenti sul posto, perché si trovavano ad una certa distanza tra i due, non potendo essere valorizzate le dichiarazioni del teste R. , che quella notte era in compagnia dell’imputato, perché amico di questo da molti anni; ed ancora, come non potesse ritenersi casuale che, appena quattro giorni dopo i fatti, il M. , quasi a mo’ avesse fermato ed accompagnato in questura la G. la sua amica ed altre due prostitute, che è difficile immaginare non avesse riconosciuto come la coppia di donne “oggetto delle sue precedenti attenzioni” (v. pagg. 9-14 sent. impugn.).
3.1. Va, tuttavia, esaminata d’ufficio la questione concernente l’esatta configurabilità del reato, in conseguenza dell’entrata in vigore della legge 6 novembre 2012, n. 190, contenente “Disposizioni per la prevenzione e la repressione della corruzione e della illegalità nella pubblica amministrazione”: legge che, come noto, nel novellare la disciplina dei reati contro la pubblica amministrazione, ha sostituito l’art. 317 cod. pen., con l’introduzione di una “diversa” fattispecie di “concussione”, ed ha introdotto l’art. 319-quater cod. pen., riguardante l’innovativa figura criminosa della “Induzione indebita a dare o promettere utilità”, sostanzialmente intermedia tra quella residua della condotta concussiva sopraffattrice e quella dell’accordo corruttivo, integrante uno dei reati previsti dall’art. 318 o dall’art. 319 cod. pen. (anch’essi modificati dalla stessa legge).
Pure allo scopo di uniformare la normativa interna ai principi della Convenzione contro la corruzione di Merida del 2003, approvata in ambito ONU, e della Convenzione penale sulla corruzione di Strasburgo del 1999, approvata in ambito di Consiglio d’Europa – trattati ratificati in Italia rispettivamente con le leggi n. 116 del 2009 e n. 110 del 2012 – il legislatore nazionale, come si è accennato, ha “spacchettato” l’originaria ipotesi delittuosa della concussione, che, nel testo previgente dell’art. 317 cod. pen., parificava le condotte di costrizione e di induzione, creando due nuove fattispecie di reato.
La prima, che resta disciplinata dall’art. 317 cod. pen., prevede la punizione del “pubblico ufficiale che, abusando della sua qualità o dei suoi poteri, costringe taluno a dare o promettere indebitamente, a lui o a un terzo, denaro o altra utilità”: conserva, dunque, i precedenti caratteri ed elementi costitutivi della fattispecie della concussione per costrizione, limitandosi ad incrementare il limite edittale minimo della pena detentiva (portata da quattro a sei anni di reclusione) e lasciando come soggetto attivo il solo pubblico ufficiale, con esclusione, dunque, della figura di incaricato di pubblico servizio (scelta, quest’ultima, foriera di probabili incertezze applicative, il cui effetto è ragionevole immaginare sarà quello di far rientrare, in presenza di tutti i presupposti di legge, le condotte costrittive ascrivibili all’incaricato di pubblico servizio nell’alveo operativo del reato di estorsione, eventualmente aggravato dall’aver commesso il fatto con abuso dei poteri o violazione dei doveri inerenti ad un pubblico servizio, ai sensi dell’art. 61 comma 1 n. 9 cod. pen.).
La seconda fattispecie di reato, “scorporata” dal previgente art. 317 cod. pen. ed ora regolata dall’art. 319 quater cod. pen., recante in rubrica la nuova denominazione di induzione indebita a dare o promettere utilità, è configurabile, “salvo che il fatto non costituisca più grave reato”, laddove “il pubblico ufficiale o l’incaricato di pubblico servizio, abusando della sua qualità o dei suoi poteri, induce taluno a dare o a promettere indebitamente, a lui o a un terzo, denaro o altra utilità”: delitto, dunque, che può essere commesso dall’incaricato di pubblico servizio oltre che dal pubblico ufficiale, sanzionato con la più mite pena della reclusione da tre ad otto anni, e che ha una struttura, con riferimento alla condotta del pubblico agente (comma 1), nella quale sono significativamente riproposti gli stessi elementi qualificanti la “vecchia” figura della concussione per induzione. Rappresenta, invece, dato di assoluta novità la previsione, nel comma 2 dello stesso art. 319-quater, della punizione anche dell’indotto, cioè del soggetto che “da o promette denaro o altra utilità”, il quale, da persona offesa nell’originaria ipotesi di concussione per induzione di cui al previgente art. 317 cod. pen., diventa coautore nella nuova figura dell’induzione indebita.
3.2. Il caso portato all’odierna attenzione di questo Collegio impone di verificare quali possano essere i criteri che permettono di distinguere la figura della concussione, prevista dal “nuovo” art. 317 cod. pen., da quella della induzione indebita di cui all’introdotto art. 319-quater dello stesso codice.
In passato, il problema di definire il concetto di costrizione rispetto a quello di induzione non aveva costituito oggetto di analisi particolarmente approfondire, in quanto nel previgente art. 317 cod. pen. le due condotte, in relazione agli effetti, erano state dal legislatore sostanzialmente parificate: tant’è che, nella prassi, i termini venivano spesso contestati contemporaneamente ed indifferentemente all’imputato chiamato a rispondere del delitto di concussione, finendo per essere considerati una sorta di endiadi, vale a dire di vocaboli che si riteneva esprimessero un concetto unitario; cosa che è avvenuta anche nel presente processo.
La circostanza che il legislatore della novella del 2012, nello “sdoppiare” le fattispecie di reato, abbia riproposto, rispettivamente nella nuova versione dell’art. 317 e nell’art. 319-quater comma 1, formulazioni testuali sostanzialmente identiche, nelle quali l’unico dato di distinzione è, appunto, quello del verbo (“costringe” nel primo caso, “induce” nel secondo), costituisce un dato letterale che induce a ritenere che la voluntas legis sia stata nel senso di attribuire una qual continuità normativa rispetto alla disposizione incriminatrice precedentemente vigente: con la conseguenza che appare possibile tentare di valorizzare gli approdi ermeneutici cui era pervenuta la giurisprudenza di legittimità che, pur nella già ricordata sostanziale indifferenza pratica, aveva cercato di tracciare una “linea di confine” tra la condotta costrittiva e quella induttiva.
In tal senso, possono essere “recuperati” gli approdi esegetici giurisprudenziali (per i quali si vedano, tra le tante, Sez. 6, n. 33843 del 19/06/2008, Lonardo, Rv. 240795; Sez. 6, n. 49S38 del 01/10/2003, P.G. in proc. Bertolotti, Rv. 228368) secondo i quali sia la costrizione che l’induzione si realizzano laddove il comportamento del pubblico ufficiale, che abusa della sua qualità o dei suoi poteri, si sostanzi nella formulazione di una pretesa indebita, di dazione o di promessa di denaro o di altra utilità, manifestata con forme e modalità idonee ad incidere psicologicamente sulla volontà e, quindi, sulle determinazioni del destinatario: solo che, nel primo caso, si parla di costrizione perché la pretesa ha una maggiore carica intimidatoria, in quanto espressa in forma ovvero in maniera tale da non lasciare alcun significativo margine di scelta al destinatario; mentre, nel secondo caso, si parla di induzione perché la pretesa si concretizza nell’impiego di forme di suggestione o di persuasione, ovvero di più blanda pressione morale, sì da lasciare al destinatario una maggiore libertà di autodeterminazione, un più ampio margine di scelta in ordine alla possibilità di non accedere alla richiesta del pubblico funzionario.
Da questo punto di vista dovrebbe escludersi che le modifiche introdotte dalla legge n. 190 del 2012 abbiano comportato una riqualificazione delle due condotte di “costrizione” e di “induzione”, formule lessicali che appaiono entrambe capaci di indicare sia la condotta che l’effetto: come anche suggerisce il nettamente differenziato trattamento sanzionatorio, la prima descrive una più netta iniziativa finalizzata alla coartazione psichica dell’altrui volontà, che pone l’interlocutore di fronte ad un aut-aut ed ha l’effetto di obbligare questi a dare o promettere, sottomettendosi alla volontà dell’agente (voluit quia coactus); la seconda una più tenue azione di pressione psichica sull’altrui volontà, che spesso si concretizza in forme di persuasione o di suggestione, ed ha come effetto quello di condizionare ovvero di “spingere” taluno a dare o promettere, ugualmente soddisfacendo i desiderata dell’agente (coactus tamen voluit).
In questo senso si è pure espressa parte della giurisprudenza di questa Corte, per la quale l’induzione richiesta per la realizzazione del delitto previsto dall’art. 319 quater cod. pen., così come introdotto dall’art. 1 comma 75 della legge n. 190 del 2012, non è diversa, sotto il profilo strutturale, da quella che già integrava una delle due possibili condotte del previgente delitto di concussione di cui all’art. 317 cod. pen. e consiste, perciò, nella condotta del pubblico ufficiale o dell’incaricato di pubblico servizio che, abusando delle funzioni o della qualità, attraverso le forme più varie di attività persuasiva, di suggestione, anche tacita,
o di atti ingannatori, determini taluno, consapevole dell’indebita pretesa e non indotto in errore dalla condotta persuasiva svolta dal pubblico agente, a dare o promettere, a lui o a terzi, denaro o altra utilità (Sez. 6, n. 16154 del 11/01/2013, Pierri, Rv. 254539; conformi, almeno in parte, Sez. 6, n. 10891 del 21/02/2013, Fazio ed altro, Rv. 254443; Sez. 6, n. 11794 del 11/02/2013, Melfi, Rv. 254440; Sez. 6, n. 17285 del 11/01/2013, Vaccaro e Ammirata, ancora non mass.; Sez. 6, n. 3093 del 18/12/2012, P.G. e Aurati, Rv. 253947; Sez. 6, n. 8695 del 04/12/2012, Nardi, Rv. 254114).
In entrambe le ipotesi, quindi, la condotta delittuosa deve concretizzarsi in una forma di pressione psichica relativa (sicché è fondato ritenere che continuano a restare fuori dall’ambito di operatività sia dell’art. 317 e che dell’art. 319-quater cod. pen. le condotte di violenza fisica, le quali possono eventualmente integrare gli estremi di altri reati, estranei allo statuto dei delitti contro la pubblica amministrazione: in termini, sul punto, anche Sez. 6, n. 7495 del 03/12/2012, Gori, Rv. 254020; Sez. 6, n. 3251 del 03/12/2012, Roscia, Rv. 253936) che determina, proprio per l’abuso delle qualità o dei poteri da parte dell’agente, uno stato di soggezione nel destinatario; e che, per essere idonea a realizzare l’effetto perseguito dal reo, deve sempre contenere una più o meno esplicita prospettazione di un male ovvero di un pregiudizio, patrimoniale o non patrimoniale, le cui conseguenze dannose il destinatario della pressione cerca di evitare soddisfacendo quella pretesa, dando o promettendo denaro o altra utilità.
3.3. Tuttavia, bisogna riconoscere come la distinzione tra i concetti di costrizione e di induzione basata esclusivamente sull’intensità della pressione ovvero sul maggiore o minore grado di coartazione morale nel destinatario della pretesa, ha creato in passato non poche difficoltà interpretative – talvolta tradottesi in una tendenza a dilatare la portata applicativa della previgente disposizione codicistica della concussione, a scapito della complementare fattispecie di corruzione – che hanno portato la dottrina a dubitare della legittimità costituzionale di una norma, quella contenuta nel precedente art. 317 cod. pen., apparentemente carente dei requisiti di tassatività nella descrizione della condotta.
Ancora oggi, in un contesto normativo mutato con la previsione della punibilità dell’indotto e con la esclusione della sanzionabilità del concusso, può risultare difficoltoso distinguere una condotta di costrizione da una di induzione laddove la pretesa sia fatta valere con modalità subdole o larvate, tanto da sembrare una forma di blanda pressione psichica, ma capace di integrare una situazione di sostanziale costrizione implicita. In altri termini, non sempre è possibile differenziare nettamente una induzione da una costrizione in base all’intensità della pressione esercitata dal pubblico agente ed al grado di condizionamento dell’interlocutore, in quanto vi sono situazioni “al limite” nelle quali è difficile differenziare il caso del privato che, anche in ragione della prospettazione apertis verbis di un male ingiusto, si trova nello stato psicologico di chi è conscio di soccombere ad un sopruso, da quello del privato che, destinatario di una pretesa avanzata in forma indeterminata, semmai caricata di significati da supposizioni personali dell’interessato, paventa solamente di poter patire un possibile futuro sopruso.
In tale ottica non è di aiuto il confronto con altre disposizioni incriminatrici afferenti alla tutela di ulteriori interessi giuridici, dato che il legislatore codicistico spesso ha dimostrato di confondere i concetti di costrizione e di induzione, oppure di assimilarli a quello di minaccia e, persino, di violenza: emblematica è, ad esempio, la sintassi poco chiara impiegata per la descrizione degli elementi costitutivi del reato di cui all’art. 377 bis cod. pen. Pertanto, è discutibile il tentativo di valorizzare il significato attribuito agli stessi termini o ad altri analoghi in altri articoli del codice penale.
Vi è, invece, una rilevante e specifica ragione di natura logico-sistematica che suggerisce di integrare il “tradizionale” criterio discretivo legato alla forma di pressione ed al grado di condizionamento psichico nel suo destinatario, con un elemento obiettivo che può servire a dare ai due concetti in esame un tasso di maggiore determinatezza. Ragione evidentemente legata alla già considerata novità della incriminazione – sia pur con la previsione di una pena più mite rispetto a quella stabilita per il pubblico funzionario – di colui che, destinatario della induzione indebita, si sia determinato a dare o a promettere denaro o altra utilità, giusta la statuizione del comma 2 dell’art. 319-quater cod. pen.: la posizione di tale soggetto, non più vittima ma coautore del reato, è chiaramente diversa da quella del destinatario della pretesa concussiva, che, nel reato di cui al riscritto art. 317, resta mera persona offesa (al pari della vittima della estorsione, pure configurabile, come si è accennato, laddove la minaccia sia riferibile ad una iniziativa abusiva non di un pubblico ufficiale, bensì di un incaricato di un pubblico servizio), ed impone oggi di ricercare un elemento ulteriore idoneo a favorire una più netta differenziazione tra i concetti di costrizione e di induzione. Sforzo ricostruttivo che, teso ad individuare un dato qualificato da aspetti di maggiore oggettività, può consentire di superare quelle situazioni di incertezza determinate dall’impiego del criterio spiccatamente soggettivo, talora evanescente, del margine di libertà di scelta lasciato al destinatario della pretesa: e ciò vale soprattutto per quei casi, ricadenti nella c.d. “zona grigia”, nei quali non è chiaro né è facilmente definibile se la pretesa del pubblico agente, proprio perché, come anticipato, proposta in maniera larvata o subdolamente allusiva, ovvero in forma implicita o indiretta, abbia ridotto fino quasi ad annullare o abbia solo attenuato la libertà di autodeterminazione del privato.
Tale indice integrativo è ragionevolmente rappresentato dal tipo di vantaggio che il destinatario della pretesa indebita consegue per effetto della dazione o della promessa di denaro o di altra utilità. Egli è certamente persona offesa di una concussione per costrizione se il pubblico agente, pur senza l’impiego di brutali forme di minaccia psichica diretta, lo ha posto di fronte all’alternativa “secca” di accettare la pretesa indebita oppure di subire un pregiudizio oggettivamente ingiusto: al destinatario della richiesta non è lasciato, in concreto, alcun apprezzabile margine di scelta, ed egli è solo vittima del reato perché, lungi dall’essere motivato da un interesse al conseguimento di un qualche vantaggio diretto, si determina a dare o promettere esclusivamente per evitare il pregiudizio minacciato (certat de damno vitando).
Al contrario, il privato è punibile come coautore nel reato se il pubblico agente, abusando della sua qualità o del suo potere, formula una richiesta di dazione o di promessa ponendola come condizione per il mancato compimento di un atto doveroso (ipotesi nella quale, perciò, il pubblico agente minaccia un male formalmente “giusto”: si pensi al pubblico funzionario che accerta l’esistenza di una irregolarità e che comunichi o faccia comprendere ai privato che “chiuderà un occhio” se verrà soddisfatta la sua pretesa), o come condizione per il compimento di un atto a contenuto discrezionale con effetti favorevoli per l’Interessato (si pensi al pubblico funzionario che non si limiti a prospettare il mancato compimento di un atto richiesto dal privato, ma ponga l’omissione come alternativa al compimento di un atto contrario ai propri doveri d’ufficio, idoneo a porre il destinatario in una situazione più favorevole rispetto ad altri privati titolari di interessi “concorrenti”): mancato compimento di un atto doveroso nel primo caso, o compimento di un atto discrezionale nel secondo, da cui il destinatario della pretesa trae, perciò, direttamente un vantaggio indebito. In siffatte situazioni è possibile sostenere – prendendo a prestito una efficace metafora proposta in dottrina – che il pubblico funzionario “non si limita ad agitare il bastone del male ingiusto, secondo gli stilemi classici della concussione, ma tende anche la carota del beneficio indebito, quale conseguenza del pagamento illecito”: l’agente pubblico prospetta, in pratica, l’alternativa tra un pregiudizio ed un vantaggio indebito, con la conseguenza che il privato che paga o promette non è persona offesa, ma compartecipe in quanto conserva un significativo margine di autodeterminazione e perché, indipendentemente dalla forma in cui si è manifestata la richiesta del pubblico funzionario, egli viene “allettato” a soddisfare la pretesa dalla possibilità di conseguire un indebito beneficio, il cui perseguimento finisce per diventare la ragione principale o prevalente della sua decisione (certat de lucro captando) (in questi termini Sez. 6, n. 11944 del 25/02/2013, De Gregorio, Rv. 254446; Sez. 6, n. 11942 del 25/02/2013, Oliverio, Rv. 254444; Sez. 6, n. 10891 del 21/02/2013, Fazio ed altro, Rv. 254443; Sez. 6, n. 11794 del 11/02/2013, Melfi, cit.; e, almeno in parte nello stesso senso, pur se con un approccio ermeneutico differente, Sez. 6, n. 13047 del 25/02/2013, Piccinno e altro, Rv. 254466; Sez. 6, n. 17593 del 14/01/2013, Marino, non ancora mass.; Sez. 6, n. 7495 del 03/12/2012, Gori ed altro, Rv. 254021; Sez. 6, n. 3251 del 03/12/2012, Roscia, Rv, 253938).
Questa impostazione, più articolata rispetto a quella fondata esclusivamente sulla verifica “soggettivizzante” del diverso grado di pressione morale, appare coerente anche alla nuova collocazione che, nel codice, è stata data alla figura dell’induzione indebita, come “plasticamente” confermato dalla scelta di introduzione dell’art. 319-quater subito dopo gli articoli disciplinanti le due forme di corruzione – al cui alveo sembra maggiormente avvicinarsi – e non anche dopo l’articolo sulla concussione. Ed invero, nel reato di induzione indebita il destinatario della pretesa soffre, al pari della vittima della concussione, l’abusiva iniziativa prevaricatrice del pubblico agente, dalla quale la sua volontà risulta psichicamente condizionata (che, altrimenti, laddove tra i prevenuti vi fosse una posizione di piena parità e le loro scelte fossero lasciate alla libera contrattazione, si dovrebbe passare nell’ambito di operatività di una delle figure corruttive: così anche Sez. 6, n. 3251 del 03/12/2012, Roscia, Rv. 253937); ma, al pari del corruttore, risponde penalmente della sua condotta, per aver dato o promesso denaro o altra utilità, perché ha subito una più tenue pretesa intimidatoria, alla quale, senza eccessivi sforzi, avrebbe potuto resistere, ovvero perché da quella dazione o promessa ha tratto o ha sperato di trarre un vantaggio non dovutogli, al cui conseguimento, in una logica quasi “negoziale”, ha finito per parametrare la sua decisione.
3.4. Resta da chiarire se, sotto l’aspetto intertemporale, a seguito della entrata in vigore della novella del 2012 sia ipotizzabile, con riferimento alle norme dei due appena considerati articoli, una qualche forma di abolitio criminis ai sensi dell’art. 2 comma 2 cod. pen., ovvero un mero fenomeno di successione di leggi penali nel tempo regolato dall’art. 2 comma 4 cod. pen..
La Corte ritiene di dover privilegiare la seconda delle indicate soluzioni.
In tal senso vanno valorizzati, per un verso, l’esito del confronto strutturale tra le due esaminate fattispecie incriminatrici, che permette agevolmente di rilevare come, a parte l’esclusione, quale soggetto attivo, della figura dell’incaricato di pubblico servizio (che, come Innanzi anticipato, ha comportato una forma di abrogatio sine abolitio), il legislatore del 2012 abbia riproposto nel nuovo art. 317 cod. pen. una descrizione degli elementi costitutivi del reato di concussione per costrizione sostanzialmente identica a quella degli elementi integranti il reato di concussione per costrizione di cui al previgente art. 317 cod. pen.; per altro verso, il risultato dell’analisi del giudizio di disvalore che qualifica le due fattispecie, immutato in entrambe le disposizioni, essendo ugualmente colpite – fatto salvo l’aumento, con la nuova legge, del trattamento sanzionatorio – vicende criminose identiche, consistenti nell’iniziativa di costrizione illecita posta in essere da un pubblico ufficiale.
Né vi sono dubbi sul fatto che, ferma restando la necessità di individuare, con riferimento a particolari situazioni concrete, un nuovo punto di confine tra l’ambito di applicazione rispettivamente dei nuovi artt. 317 e 319 quater cod. pen., l’operatività delle due disposizioni incriminatrici “copra” esattamente – ovviamente in relazione alla posizione del pubblico funzionario – tutte le condotte già in precedenza sanzionate dal modificato art. 317 cod. pen.. Pur con le diverse “sfaccettature” legate alla possibili distinzione tra i due nuovi suddetti articoli, in termini di continuità normativa si è espressa pacificamente la giurisprudenza di questa Corte (cfr. Sez. 6, n. 12388 del 11/02/2013, Sarno, Rv. 254441; Sez. 6, n. 11792 del 11/02/2013, Castelluzzo, Rv. 254437; Sez. 6, n. 17285 del 11/01/2013, Vaccaro e Ammirata, ancora non mass.; Sez. 6, n. 8695 del 04/12/2012, Nardi, Rv. 254114; Sez. 6, n. 3251 del 03/12/2012, Roscia, Rv. 253935).
3.5. Alla luce delle regulae iuris innanzi esposte, deve ritenersi che la condotta posta in essere dall’odierno ricorrente, così come accertata dai giudici di merito, deve essere qualificata in termini di tentata concussione ai sensi dell’art. 56 cod. pen. e del nuovo art. 317 cod. pen.: in quanto il M. , nell’abusare della sua qualità di pubblico ufficiale, avendo mostrato alla donna il tesserino di poliziotto, e nel pretendere che la G. salisse in macchina per consumare con lui un rapporto sessuale, prospettando tale soluzione come il modo “per non crearle in seguito problemi”, senza indicare l’esercizio lecito di alcun potere ovvero il compimento di uno specifico atto doveroso, si limitò a minacciare alla destinataria un generico male ingiusto derivante dall’esercizio contra ius dei poteri riconosciutigli in ragione della pubblica funzione esercitata: dunque, il suo fu un tentativo di costrizione e non di induzione indebita, sia perché posto in essere con modalità molto dirette, idonee a cagionare nella vittima una forte pressione psichica, sia perché realizzato con la prospettazione di un male ingiusto, senza che fosse anche solo prospettata la possibilità del conseguimento di un indebito vantaggio da parte della donna, la quale avrebbe agito – cosa che concretamente non fece, scegliendo di interrompere, con la presentazione di una denuncia, l’iter criminoso – esclusivamente per evitare quel danno.
Non è di ostacolo alla qualificazione della condotta accertata nei termini innanzi indicati il fatto che la Corte territoriale, riferendosi alla disciplina codicistica previgente, abbia parlato di “tentata concussione per induzione”. Spetta, infatti, al Giudice di legittimità dare la corretta qualificazione giuridica dei fatti, senza che ciò abbia comportato alcuna violazione del diritto della difesa al contraddittorio, posto che al ricorrente era stata fin dall’inizio contestata la concussione, ai sensi del previgente art. 317 cod. pen., tanto per costrizione quanto per induzione, e che nell’odierna udienza il suo patrocinatore è stato invitato a discutere anche sulla questione relativa al corretto inquadramento giuridico da dare alla tipologia delle condotte oggetto dell’imputazione, pure per effetto delle modifiche normative introdotte dalla più volte citata legge n. 190 del 2012 (sostanzialmente nello stesso senso Sez. 6, ord. del 11/01/2013, n. 1716/12, Nogherotto, non mass.; Sez. 6, n. 3093/13 del 18/12/2012, P.G. e Aurati, Rv. 253947, non mass. sul punto).
4. Al rigetto del ricorso consegue, a norma dell’art. 616 cod. proc. pen., la condanna del ricorrente al pagamento in favore dell’erario delle spese del presente procedimento.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.
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