Suprema Corte di Cassazione
sezione VI
sentenza 10 marzo 2016, n. 9953
Ritenuto in fatto
1. In parziale riforma della sentenza di condanna per il reato ex artt.81, comma 2, 110, 117 e 314 cod. pen. emessa dal Tribunale di Milano, la seconda sezione penale della Corte di appello di Milano, con sentenza n. 7761 del 4/11/2014, riconoscendo le circostanze attenuanti generiche, ha ridotto a R.D. la pena della reclusione a due anni e due mesi e alla stessa durata la pena accessoria della interdizione dai pubblici uffici.
2. Nel ricorso nell’interesse della R. non si contesta che la condotta descritta nel capo di imputazione sia stata attuata dalla originaria coimputata F.G. – il procedimento nei confronti della quale è stato archiviato sul presupposto della sua totale incapacità di intendere e di volere – ma la utilizzabilità e, comunque, la valenza probatoria delle sue dichiarazioni accusatorie. In questa prospettiva si chiede l’annullamento della sentenza della Corte di appello per i seguenti quattro motivi: a) inosservanza delle norme processuali in relazione alla qualità di testimone della F. , assumendo che la stessa non doveva essere sentita con le modalità ex art. 197-bis cod. proc. pen. ma con quelle ex art.210 cod. proc. pen. previste per l’imputato per reato connesso o collegato con procedimento pendente; b) mancata verifica della attendibilità personale della F. , quale chiamante in correità della R. e della attendibilità intrinseca e estrinseca delle sue dichiarazioni, che il ricorso assume prive di riscontri; c) vizio della motivazione del diniego di perizia sulla capacità a testimoniare della predetta, evidenziando che nel dibattimento lo stesso consulente del pubblico ministero che l’aveva valutata incapace di intendere e di volere, non seppe esprimersi sulla sua capacità di testimoniare mentre quello della difesa, caldeggiò una verifica al riguardo; d) vizio di motivazione sulla mancata ammissione di prova decisiva costituita dalla acquisizione degli assegni e dei vaglia postali emessi nel biennio 2007-2008 dalla F. a favore di Fr.Ma. .
Considerato in diritto
1. Il primo motivo di ricorso è manifestamente infondato. Le Sezioni Unite di questa Corte (sent. n. 12067 del 17/1272009, dep. 2010, Rv. 246375) hanno chiarito che la disciplina limitativa della capacità testimoniale ex artt. 197, comma 1, lettere a) e b), 197-bis e 210 cod. proc. pen., non è applicabile alle persone sottoposte a indagini nei cui confronti sia stato emesso provvedimento di archiviazione. La condivisibile ratio decidendi considera che la tutela del diritto di difesa presuppone che il dichiarante debba difendersi da una imputazione ma che quando sono stati adottati atti antitetici all’esercizio dell’azione penale (la richiesta del Pubblico ministero e il correlato decreto del Giudice per le indagini preliminari che la accoglie), l’esigenza di difesa viene meno perché una riapertura delle indagini è possibile tanto quanto una apertura delle indagini nei confronti di chiunque (Cass. pen., Sez. 2, n. 4123 del 09/01/2015, Rv. 262367).
Nel caso in esame, quando è stata esaminata nel marzo del 2013 ex art. 197-bis cod. proc. pen. F. ha confessato pienamente e l’archiviazione del procedimento nei suoi confronti deriva dalla sua incapacità di intendere e di volere all’epoca dei fatti (conclusisi nel giugno del 2010).
2. Poiché l’idoneità a testimoniare è condizione diversa dalla capacità di intendere e volere, la prima non può escludersi solo perché ricorre la seconda (Cass. pen: Sez. 2, n. 3161 del 11/12/2012, dep. 2013, Rv. 254537; Sez. 2, n. 12195 del 14/03/2012, Rv. 252709; Sez. 1, n. 20864 del 14/04/2010, Rv. 247407). Ne deriva che il giudice non assumerà le dichiarazioni di chi presenta disturbi mentali se risultano concreti elementi per ritenere che questi lo rendano attualmente del tutto incapace di rendere dichiarazioni con adeguata consapevolezza delle responsabilità del testimone, con sufficiente capacità mnemonica in relazione ai fatti specifici oggetto della deposizione, con la capacità di capire il contenuto delle domande così da fornire risposte pertinenti. Da rilevanti anomalie concernenti questi profili può derivare la necessità di accertare ex art.196 cod. proc. pen. la capacità di testimoniare (Cass. pen., Sez.1, n.2993 del 05/03/1997, Rv.2072259).
Resta compito del giudice verificare, con particolare rigore, l’attendibilità di quanto affermato e le sue valutazioni, se espresse in modo logico e coerente, possono censurarsi in cassazione solo nei limiti del travisamento della prova (Cass. pen., Sez. 2, n.43094 del 26/06/2013, Rv. 257426). Nella fattispecie il Tribunale (pagg.16-17) non ha mancato di porsi la questione della capacità di testimoniare della F. evidenziando che la stessa “pur emotivamente provata, ha condotto un lunghissimo esame, nel corso del dibattimento, dando prova di capacità di discernimento del contenuto delle domande, alla quale ha fornito coerenti risposte, di sufficiente capacità mnemonica in ordine a fatti specifici oggetto della deposizione, di coscienza dell’impegno di riferire con verità e completezza i fatti a sua conoscenza”. Ha, inoltre, osservato che le “considerazioni prudenziali” (pag.17) espresse dal consulente della difesa sulla possibile interferenza del disturbo post-traumatico da stress con la valutazione della realtà da parte della donna sono superate dalla rilevata “credibilità intrinseca e estrinseca delle dichiarazioni della F. “. Nella stessa linea ha argomentato la Corte di appello (pag. 5) anche tenendo conto della “percezione diretta avuta dal collegio di primo grado”. Su queste basi, il secondo motivo di ricorso risulta manifestamente infondato, emergendo, peraltro, che le questioni riguardano più che i riflessi delle condizioni mentali della F. sulla sua capacità di testimoniare la esistenza di ragioni che avrebbero potuto condurre la donna a mentire.
3. Le dichiarazioni rese dalle persone che assumono l’ufficio di testimone ex art. 197-bis cod. proc. pen. vanno valutate “unitamente agli altri elementi di prova che ne confermano l’attendibilità” (artt. 197-bis, comma 6, e 192, comma 3, cod. proc. pen. e a questo aspetto, sotto diversi versanti, si rivolgono gli ulteriori motivi del ricorso.
3.1. A fortiori, le chiamate in correità di un soggetto affetto da disturbi mentali, vanno vagliate rigorosamente e secondo un preciso ordine logico (ex plurimis: Cass. pen., Sez.3, n. 44882 del 18/07/2014, Rv.260607; Sez.6, n.16939 del 20/12/2011, dep.2012, Rv. 252630; Sez.5, n.31442 del 28/06/2006, Rv.235212): a) in primo luogo, valutandone la credibilità in relazione alla sua personalità, alle sue condizioni di vita, al suo passato, ai suoi rapporti con l’accusato, nonché alla genesi e alle cause della confessione e delle accuse; b) successivamente, analizzando le caratteristiche delle dichiarazioni relativamente alla loro precisione, consistenza, coesione, costanza e spontaneità; c) infine, verificando se la credibilità soggettiva del dichiarante e l’attendibilità intrinseca delle sue dichiarazioni, sono confermate da riscontri esterni, che possono essere di qualsiasi natura e anche indiretti. Proprio questo metodo è stato seguito nella motivazione della sentenza di primo grado: nelle pagine 17-18 relativamente alle caratteristiche del rapporto fra la F. e la R. (fra loro assai amiche e colleghe, entrambe in condizioni di fragilità psicologica e a conoscenza della procedura che consentì alla F. di appropriarsi di somme versate come tassa per l’occupazione di suolo pubblico) e a pagina 18 relativamente alla intrinseca consistenza e coerenza della narrazione dei fatti, mentre nelle pagine 19-20 è sviluppata l’analisi critica dei riscontri esterni (documenti e dichiarazioni di altri testimoni). Analogo risulta l’andamento della motivazione della sentenza di secondo grado che l’ha confermata (nelle pagine 4 e 6 sono esaminati i rapporti fra le due donne e a pagina 6 i riscontri esterni, dandosi implicitamente conto del requisito della consistenza e coerenza delle narrazioni della F. ). Ne deriva l’infondatezza del terzo motivo di ricorso.
3.2. Il quarto motivo di ricorso concerne le prove, indicate come decisive, per dimostrare che reale beneficiario del peculato della F. non era l’imputata ma Fr.Ma. (con il quale l’imputata aveva una relazione sentimentale). Questa prospettiva è stata vagliata e scartata dal Tribunale: in particolare la sentenza richiama (pagg. 9 – 11) dichiarazioni testimoniali della figlia e del nipote dell’imputata e dello stesso T. , nonché affermazioni dell’imputata, che indicano stretti rapporti personali tra costui e la F. e la diretta corresponsione di prestiti della seconda al primo, ma conclude – con plausibile argomentazione – che (pagg. 18 – 20) gli esborsi (della F. , della R. e anche dei parenti della stessa) in favore di Fr. ebbero comunque “come principale collettore” l’imputata. A sua volta – nel recepire e confermare la sentenza di primo grado – la Corte di appello non ha trascurato la linea difensiva soggiacente al motivo di ricorso in esame, ma ha pertinentemente puntualizzato (pag.5) che le dichiarazioni della F. accusano “la R. , e non altri, di averla sollecitata a commettere l’azione delittuosa, in quanto assillata dalle sue continue richieste di prestito” e che dalle dichiarazioni stesse dell’imputata (pag. 7) emerge che un suo precedente penale per ricettazione truffa e insolvenza fraudolenta sarebbe collegato al suo rapporto con Fr. (che le avrebbe dato per l’incasso assegni di provenienza illecita). La rinnovazione dell’istruttoria in appello è istituto eccezionale e il rigetto della sua richiesta è censurabile se la motivazione della sentenza palesa lacune o manifeste illogicità, ricavabili dal testo del provvedimento e concernenti punti di decisiva rilevanza, che sarebbero state presumibilmente evitate con l’assunzione o la riassunzione di determinate prove in appello (Cass. pen., Sez.6, n. 1256 del 28/11/2013, dep. 2014, Rv. 2582369). La motivazione del rigetto può essere implicita nella stessa struttura argomentativa della sentenza, che evidenzi la sussistenza di sufficienti prove della colpevolezza (Cass. pen.: Sez. 6, n. 8936 del 13/01/2015, Rv. 262620; Sez. 6, n. 5782 del 18/12/2006, Rv. 36064; Sez. 6, n. 3986 del 1/02/1996, Rv. 204780) e il giudizio di questa Corte al riguardo non concerne la concreta rilevanza dell’atto istruttorio da espletare ma soltanto la congruenza e la consistenza del ragionamento (Cass. pen., Sez. U, n. 2110 del 23/11/1995, dep. 1996, Rv. 203764; Sez. 4, n. 37624 del 19/09/2007, Rv. 237689). Da quanto precede emerge che le richieste istruttorie sulla reiezione delle quali poggia il quarto motivo di ricorso non concernono profili di indagine nuovi ma elementi fattuali già esaminati dai giudici con motivazioni convergenti, esenti da vizi logici e coerenti con gli elementi probatori, sicché anche il quarto motivo di ricorso è manifestamente infondato.
4. Dalla inammissibilità del ricorso deriva la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali e della sanzione pecuniaria in favore della Cassa delle ammende che si ritiene congruo determinare nella misura indicata in dispositivo, ai sensi dell’art. 616 cod. proc. pen..
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro 1000 in favore della Cassa delle ammende.
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