Il delitto di maltrattamenti previsto dall’art. 572 c.p. può trovare applicazione nei rapporti di tipo lavorativo, a condizione che sussista il presupposto della parafamiliarità, intesa come sottoposizione di una persona all’autorità di altra in un contesto di prossimità permanente, di abitudini di vita proprie e comuni alle comunità familiari, nonché di affidamento, fiducia e soggezione del sottoposto (soggetto più debole) rispetto all’azione di chi ha la posizione di supremazia
SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE
SEZIONE VI PENALE
SENTENZA 2 dicembre 2016, n. 51591
Ritenuto in fatto
V.M. , dirigente amministrativo e titolare di fatto di uno studio commercialista, datore di lavoro della dipendente D.G.F.N. , era originariamente imputato del delitto di maltrattamenti, ai sensi dell’art. 572 cod. pen., per condotte vessatorie cui aveva sistematicamente sottoposto la donna nell’ambito lavorativo.
Con sentenza del 10.04.2014 il Tribunale di Aosta, riqualificati i fatti ai sensi dell’art. 571 cod. pen., deliberava la colpevolezza dell’imputato e lo condannava al risarcimento dei danni, liquidati in via definitiva, in favore della D.G. , costituitasi parte civile, applicando la sospensione condizionale della pena subordinata all’effettivo risarcimento entro tre mesi dall’eventuale passaggio in giudicato.
Il 04.03.2016 la Corte d’appello di Torino escludeva la condizione cui era stata subordinata la sospensione condizionale della pena e confermava nel resto la decisione di primo grado.
L’imputato ha proposto ricorso enunciando unico motivo di violazione di legge in relazione all’art. 571 cod. pen..
Assume che il rapporto di lavoro subordinato in atto nella fattispecie non rientrerebbe tra i rapporti tassativamente considerati da tale norma incriminatrice, mancando il presupposto di un in sé legittimo jus corrigendi cui, solo, è connessa strutturalmente la particolare e fisiologica situazione di debolezza che la fattispecie incriminatrice intende tutelare. Pertanto, in assenza di un possibile uso lecito di strumenti di correzione o disciplina non sarebbe configurabile un loro abuso. In particolare, nel normale rapporto di lavoro subordinato il potere disciplinare-sanzionatorio potrebbe essere esercitato solo con gli strumenti e i mezzi indicati nell’art. 7 Statuto Lavoratori, sicché ogni altra modalità, specialmente se concretizzante condotta per sé autonomamente illecita, mai potrebbe integrare l’elemento materiale dell’art. 571, rilevando al più come illecito civile o come autonoma fattispecie penale, il cd mobbing in ambiente di lavoro non avendo invece ancora specifica e autonoma rilevanza penale.
Considerato in diritto
Il ricorso deve essere rigettato.
Va preliminarmente osservato che la questione sull’adeguatezza della qualificazione giuridica ai fatti è stata posta per la prima volta in questa sede di legittimità, perché l’atto d’appello aveva devoluto al Giudice di secondo grado solo censure relative alla ricostruzione dei fatti (primi due motivi), al trattamento sanzionatorio (quarto motivo), all’azione civile (terzo, quinto, sesto e settimo motivo). L’apprezzamento dell’unico motivo oggi devoluto all’esame della Corte deve quindi necessariamente fare riferimento alla ricostruzione dei fatti quale operata concordemente dai Giudici del merito.
Questa Corte ha affrontato incidentalmente il tema della configurabilità del delitto di cui all’art. 571 cod. pen. in ambito di lavoro subordinato, quando atti volontari idonei a produrre uno stato di abituale sofferenza fisica o morale nei dipendenti siano posti in essere dall’agente perseguendo la finalità della punizione per episodi censurabili, in una sentenza che ha confermato doversi configurare il più grave delitto di maltrattamenti quando la finalità sia quella dello sfruttamento del dipendente per motivi di lucro personale (Sez.6, sent. 10090 del 22.01.2001).
Va osservato che non è dubbio che il datore di lavoro sia titolare del potere di correzione e di disciplina intesi come poteri di indicare le modalità adeguate di esecuzione della prestazione di lavoro, necessarie, o anche solo opportune, perché la complessiva attività posta in essere dal soggetto organizzato per raggiungere un risultato economico (che sia un bene o un servizio, privato o pubblico) possa essere efficace allo scopo che ne giustifica, e consente, l’esistenza. In tali limiti è possibile sussumere il lavoratore dipendente nella nozione di soggetto sottoposto all’autorità del datore di lavoro.
E tuttavia va chiarito che il rapporto tra datore di lavoro e lavoratore dipendente è rapporto tra due persone poste sul medesimo piano, quanto al profilo della dignità e dell’autonomia individuale, sicché, tra loro, esula ogni prospettiva di un contenuto del potere disciplinare/organizzativo del primo nei confronti del secondo che sia, in qualunque modo, riconducibile al concetto di educazione, invece proprio di altre fattispecie sussumibili nell’art. 571 cod. pen. quali, ad esempio, quella afferente all’ambiente scolastico (Sez. 6 sent. 4904 del 18/03/1996, Rv 205034).
In altri termini, nel caso del rapporto di lavoro il potere di correzione e disciplina è esclusivamente funzionale ad assicurare la qualità e l’efficacia del risultato perseguito dalla singola organizzazione lavorativa, di cui è responsabile e fonte il datore di lavoro.
E del resto, come ricorda lo stesso ricorrente la normativa complessiva della disciplina del rapporto di lavoro prevede e disciplina l’esercizio di tale potere funzionale.
Non è quindi condivisibile la deduzione del ricorrente secondo la quale il reato di cui all’art. 571 cod. pen. non sarebbe mai configurabile in ambiente di lavoro, e comunque mai quando gli interventi correttivi/disciplinari del datore di lavoro siano diversi da quelli tassativamente disciplinati dalla normativa positiva. La nozione di abuso, infatti, presuppone per definizione l’eccesso rispetto alla fisiologia. Sicché, ad esempio, la previsione del rimprovero verbale indica una fisiologia (a fronte dell’errore oggettivo chi ha autorità correttive/disciplinare esercita il potere di rimprovero, nel pieno rispetto della pari dignità personale del dipendente) che può trasmodare in abuso quando, con condotta abituale, vi sia superamento dei limiti di continenza propri del rimprovero fisiologico (ad esempio con il ricorso ripetuto a epiteti ingiuriosi o minacciosi).
Nel nostro caso, la Corte d’appello ha precisato che ‘le esplosioni di ira, le sanzioni umilianti, gli insulti ed addirittura i lanci di oggetti erano condotte sempre correlate, secondo le testimonianze assunte, a veri o presunti errori delle dipendenti, e finalizzate, nell’intento dell’imputato, all’esercizio del suddetto potere direttivo correlato alla sua superiorità gerarchica di fatto’. Il Tribunale, prima, aveva argomentato che la donna nel periodo preso in considerazione dal capo di imputazione era accusata dall’imputato di ‘commettere numerosi e ripetuti errori nello svolgimento dei compiti a lei assegnati’. Da qui la riconduzione delle condotte dell’imputato al reato di cui all’art. 571 cod. pen..
Ma, e come ricordato in precedenza questa è la sedimentata ricostruzione in fatto che le due sentenze offrono, senza alcuna ulteriore censura dell’imputato in questa sede sul punto, tra tali condotte ve ne sono almeno due (il lancio di oggetti; l’imporre alla donna di rimanere seduta davanti al tavolo di lavoro dell’imputato per lungo tempo e mentre questi svolgeva attività del tutto prive di connessione con le incombenze demandate alla dipendente, come fare o ricevere telefonate, lavorare per proprie esigenze al computer: e, ciò, in esclusiva valenza punitiva umiliante) che sono del tutto eccentriche rispetto all’esercizio, pur eccedente i limiti fisiologici, del potere di correzione/disciplinare. Si tratta di condotte che quindi non sono riconducibili alla nozione di abuso.
Osserva allora la Corte che, nella nostra fattispecie concreta, i Giudici del merito hanno ricostruito il contesto in fatto nei termini di uno studio commercialistico con pochi dipendenti, dove si verificano condotte sistematiche del titolare caratterizzate, oltre che da insulti minacce e ingiurie, pronunciati con assoluto disprezzo e tono di voce elevato, da lancio di oggetti ed imposizione di comportamenti gratuitamente prevaricanti, tali da incidere pesantemente sulle libertà personali e del tutto avulse dalle funzioni direttive/disciplinari attribuite, poste in essere con piena consapevolezza (il dato non è mai in discussione nel processo), approfittando della situazione di debolezza del dipendente nei confronti del datore di lavoro e determinando documentata situazione di profondo disagio psichico (sul punto, p. 2 sent. Tribunale).
Poiché la riferita situazione ambientale è sussumibile nel contesto lavorativo caratterizzato da quella che per comodità espositiva è stata qualificata come parafamiliarità, intesa come sottoposizione di una persona all’autorità di altra in un contesto di prossimità permanente per le dimensioni e la natura del luogo di lavoro, di abitudini di vita proprie e fisiologiche alle comunità familiari per la stretta comunanza di vita, nonché di affidamento e fiducia del sottoposto (soggetto più debole) rispetto all’azione di chi ha ed esercita l’autorità con modalità, tipiche del rapporto familiare, caratterizzate da ampia discrezionalità ed informalità (per tutte, Sez.6 sentenze 24642 del 19.03.2014, 24057 del 11.04.2014, 13088 del 05.03.2014, 12517 del 28.03.2012, 26594 del 06.02.2009), tali condotte debbono essere sussunte nella più grave fattispecie di cui all’art. 572 cod. pen. (in tal senso, per tutte, Sez. 6 sent. 24057/2014 cit.).
In tal senso il ricorso deve essere rigettato.
Nessun pregiudizio al diritto di interlocuzione difensiva sul punto della diversa qualificazione giuridica sussiste, posto che proprio l’imputazione originaria, rispetto alla quale l’imputato e la sua difesa hanno svolto la propria attività di contrasto, contestava, correttamente, proprio tale più grave delitto.
Consegue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali, nonché alla rifusione delle spese di difesa sostenute per il grado dalla parte civile D.G.F.N. , liquidate come da dispositivo tenuto conto dell’attività prestata.
P.Q.M.
Riqualificati i fatti ai sensi dell’art. 572 cod. pen., rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali, nonché alla rifusione delle spese sostenute dalla parte civile D.G.F. che liquida in complessivi 3.500 Euro oltre 1 5 % per spese generali, iva e cpa.
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