Ai fini della configurabilità del delitto di concussione mediante abuso della qualità di pubblico ufficiale o incaricato di pubblico servizio, non è necessario che l’atto intimidatorio rifletta la specifica competenza del soggetto attivo, ma è sufficiente che la qualità soggettiva lo renda credibile e idoneo a costringere all’indebita promessa o daziane di denaro o di altra utilità. Ne consegue che risponde di tale delitto il maresciallo della Guardia di finanza che, abusando della sua qualità, si fa dare merce o servizi senza pagare alcun corrispettivo
 

SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE

SEZIONE VI PENALE

SENTENZA 16 giugno 2016, n.25054 

Ritenuto in fatto

1. V.S. impugna la sentenza della Corte d’appello di che ha confermato la decisione dei giudice di primo grado che lo condannò per il delitto di concussione continuata, con riferimento a tutti gli episodi commessi in epoca successiva a luglio all’anno 1998; dichiarando estinti per prescrizione i reati anteriori a tale data.

Il fatto enunciato nell’imputazione ascritta a V.S. – maresciallo, in servizio presso la Guardia di Finanza di Viareggio – è di aver abusato della sua qualità e dei suoi poteri, in tal modo facendosi consegnare, mediante larvate e tacite minacce, merce e altre utilità, senza pagare alcun corrispettivo, commettendo fatti dal 1990 al 2010.

La Corte d’appello ha condiviso la ricostruzione effettuata dal primo giudice; ricostruzione effettuata in base alle dichiarazioni dei soggetti i quali hanno riferito di avere dato a S. quanto da lui ‘preteso’ senza ricevere alcun corrispettivo. Entrambi i giudici di merito, hanno escluso che le condotte potessero essere giuridicamente inquadrate nell’ambito del diverso delitto previsto dall’art. 319 quater c.p., poiché si è dei tutto fuori da rapporti sinallagmatici e, comunque, diretti a reciproci vantaggi, bensì si è in presenza di condotte caratterizzate da atteggiamenti incontestabilmente intimidatori e volti a far valere la ‘posizione rivestita’.

In alcuni episodi, è stata esclusa la configurazione illecita in ragione dei dettagliati racconti di alcuni testi, quale P.G. di tenore diverso rispetto a quelli degli altri che han parlato dì condotte ‘disinvolte’ di S. esplicitamente dirette a manifestare abuso della ‘qualità’ e a ottenere ‘utilità’ in termini del tutto privi di ogni interesse degli altri soggetti privati.

E’ pertanto condivisa la conclusione raggiunta dal Tribunale quanto alla configurazione dei delitto di concussione.

In conclusione, la esclusione della sussistenza del delitto de quo, quanto all’episodio G., ha comportato la riduzione della pena di anni sette di reclusione, inflitta dal Tribunale, a quella di quattro anni e mesi dieci di reclusione, rideterminata individuando, quale pena base, quella relativa alla più grave concussione in danno di Antonio C., con un aumento di due mesi di reclusione per ciascun altro episodio concussione. Diniego delle attenuanti generiche le quali, sebbene non espressamente richieste, il giudice d’appello ha ritenuto che vi fossero le condizioni richieste per applicarle, prima fra tutte la specifica e singolare ‘diffusività’ dei fatti delittuosi commessi per un luogo periodo.

2. I Difensori del ricorrente, avvocati Sandro Guerra e Filippo Bellagamba, deducono:

2.1.Violazione di legge in relazione agli artt.429, comma 1, lett. c) e comma 2, 521, comma 2, 522 c.p.p., nonché mancanza di motivazione e illogicità manifesta.

Si rileva che l’originaria imputazione, per la quale è stato richiesto il rinvio a giudizio, indicava non soltanto il delitto di concussione continuata, ma anche quello di millantato credito, nell’ambito di un unitario contesto, in tal modo delineando un tipo di autore più che fatti concernenti delitti istantanei.

Nel corso del procedimento, iscritto nell’anno 2000, è intervenuta la legge n. 190 del 2012 che ha introdotto il delitto di induzione indebita ex art. 319 quater c.p. a fronte di imputazioni che definivano in termini alternativi le modalità della condotta quale ‘induzione o costrizione’, e, pertanto, si è sollecitato il potere-dovere del giudice di definire in termini corretti la contestazione.

La Corte d’appello ha disatteso tale richiesta, escludendo ogni dubbio sulla qualificazione giuridica dei delitti anche dopo l’entrata in vigore della disciplina introdotta dalla legge 190 del 2012; affermazione assertiva e priva di specificità.

2.2. Violazione di legge in relazione all’art. 317 c.p. e con riferimento alla ricostruzione dell’elemento oggettivo del reato; mancanza di motivazione.

Non si è tenuto conto della nozione di ‘costrizione’, quale enucleabile dalla nuova norma e definita dalla giurisprudenza di legittimità, in particolare dalle decisioni delle Sezioni Unite.

La difesa distingue gli episodi in due gruppi, con riferimento alle minacce implicite, richiamando a riguardo tre posizioni, quali quelle di tali I., P. e B. rispetto alle quali la Corte d’appello prende atto della mancanza di minacce o di esplicite prospettive di ‘vantaggi’ o ‘svantaggi’, giungendo poi alla configurazione di un ‘fare implicitamente minaccioso’, non considerando la impostazione delle Sezioni unite che fan riferimento a ‘sopraffazioni prepotenti’. In tale contesto, la concussione richiede che vi sia un ‘abuso di qualità’, quale momento essenziale della condotta, e una ‘minaccia’, intesa quale modalità tipica.

Nelle vicende I., B. e P., ad avviso della difesa, la condotta dell’imputato non presenta tali connotazioni, poiché il tutto si è limitato a una mancata corresponsione del prezzo di mercato e non può farsi riferimento a ‘moti dell’animo’, quali ‘imbarazzo’ suscitato nella vittima della concussione. Né tantomeno, è significativo il riferimento a ‘latente intimidazione’, della quale non vi è traccia nelle dichiarazioni di P..

Vi è invece un secondo gruppo – nel cui ambito si inseriscono gli episodi di G.M., P.N. e A.C. – rispetto ai quali la sentenza impugnata, secondo la difesa non riesce a definire quale sia la figura di minaccia implicita o esplicita cui si fa riferimento. Nel ricorso si introducono brani della sentenza nella parte in cui si individuano le condotte ritenute tali da configurare la costrizione richiesta per integrare il delitto di concussione. Anche qui, si richiamano i principi delle Sezioni unite che si ritiene abbiano adottato un ‘approccio oggettivistico’, in ragione del criterio dell’intensità della pressione psichica esercitata sul destinatario, evitando di affidare la distinzione a una indagine ‘psicologica’ che potrebbe determinare un arbitrio nella distinzione delle diverse condotte.

La vicenda di C., rispetto alla quale la Corte d’appello si è espressa nel senso di episodio significativo rispetto agli altri, non denota alcunché secondo la difesa, riferibile a ipotesi di concussione, bensì di una ‘disponibilità clientelare’ che rappresenta un ‘vantaggio indebito’ che l’agente pubblico prospetta al privato.

Secondo la difesa, il giudice d’appello anche qui si discosta da quanto riferito dal teste, mutando le espressioni da questi usate in minaccia.

2.3. Violazione di legge in relazione agli artt. 125, comma 3, 546 comma 1 lett. e) c.p.p. nonché mancanza di motivazione in relazione a norme rilevanti per l’applicazione della legge penale processuale e sostanziale.

La Motivazione della sentenza impugnata risente della indeterminatezza e genericità delle imputazioni.

Peraltro, non si è tenuto conto della genesi del procedimento, inquinata per lo sviluppo della indagine penale in un momento di contrasti esistenti nell’ambito del reparto di appartenenza di S..

Per tali ragioni, è stata richiesta la rinnovazione parziale dei dibattimento al fine di correggere alcune imprecisioni contenute nella sentenza di primo grado. Non si è considerata la risposta di C. secondo cui non è stata percepita una ‘minaccia, neppure implicita’, poiché se ciò fosse accaduto, riferisce il teste, vi sarebbe stata una risposta a tono.

La Corte d’appello di Firenze confonde la ‘sudditanza psicologica’ o la ‘costrizione morale’ con un non facere, poi ricondotto a una condotta implicita. Quanto agli altri episodi, si riportano brani delle dichiarazioni rese in sede di esame in contradditorio, dai quali emergono circostanze ambigue e non equivoche sulle ragioni delle utilità percepite da S..

Secondo la difesa, non è ipotizzabile un ‘condizionamento’ là dove gli stessi protagonisti delle vicende attribuiscono ad altre cause la loro ‘tolleranza’.

La difesa deduce la violazione dell’art. 546, comma 1, lett. e) c.p.p., poiché manca ogni specifica indicazione delle prove poste a fondamento dell’affermazione di responsabilità.

Non soddisfa tale regola la precisazione secondo cui la motivazione pone a confronto le prove dell’accusa rispetto a quelle della difesa per poi ricostruire le vicende oggetto di imputazione. Rispetto a tale conclusione, non vi è traccia di esame degli elementi di prova indicate nell’impugnazione. Ciò dimostra che la sentenza d’appello non ha reso una adeguata risposta alle questioni poste dall’atto di appello, dando a esse una risposta adeguata e completa alle deduzioni difensive.

Si deduce ancora che la Corte d’appello avrebbe trascurato dei tutto le deduzioni difensive relative alla necessità di rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale, rispetto alle quali si è esprime nel senso dell’inutilità di ulteriori accertamenti, ritenendo immotivatamente che il soggetto passivo della concussione ‘avverta come minaccioso non già un comportamento dell’agente, bensì l’agente stesso’.

2.4. Violazione di legge, in relazione agli artt. 62 bis, 81, 133 c.p., in relazione agli artt. 125, comma 3, 546 lett. e) c.p.p., nonché mancanza di motivazione.

La Corte d’appello, sebbene dà conto della pena base e degli aumenti per la continuazione, non motiva sulle ragioni degli aumenti per la continuazione.

Altrettanto immotivato il diniego delle attenuanti generiche, riferito semplicemente alla mancanza di resipiscenza e alla reiterazione delle condotte criminose; argomento quest’ultimo, utilizzato per gli aumenti della continuazione e non spedibile anche per le attenuanti generiche, per non incorrere nella violazione del divieto del ne bis ín idem ex art. 15 c.p.. La concessione delle attenuanti generiche non implica sempre un giudizio di non gravità delle condotte.

2.5.1 difensori hanno depositato motivi aggiunti con i quali su ciascuno dei motivi di ricorso sviluppano ulteriori elementi per sostenerne la fondatezza, insistendo anzitutto sulla genericità dell’imputazione, priva di precise indicazioni temporali.

Quanto agli episodi di concussione si insiste nella violazione di legge e nel vizio di motivazione, per manifesta illogicità e mancanza, per gli argomenti già dedotti con il ricorso riferiti in particolare all’insussistenza delle minacce richieste per la configurazione della concussione.

3. Tale è la sintesi dei motivi di ricorso enunciati nei limiti stabiliti dall’art.173, comma 1, disp. att. c.p.p..

Considerato in diritto

4. Il ricorso è manifestamente infondato e le censure non sono dirette a rilevare mancanze argomentative e illogicità ictu oculi percepibili, bensì a prospettare una diversa ricostruzione dei fatti e a ottenere un non consentito sindacato su scelte valutative compiutamente giustificate dal giudice di appello, che ha adeguatamente ricostruito le singole vicende.

Il giudice d’appello, come sinteticamente descritto in narrativa, si è confrontato ed ha dialogato con le conclusioni raggiunte dal Tribunale e, dopo una complessiva e accurata valutazione delle prove acquisite, ne ha condiviso il significato da esse tratto, mettendo in rilievo che i motivi di appello non erano altro che una mera riproposizione di questioni poste nel corso dei giudizio di primo grado e correttamente risolte dal giudice di primo grado.

Una prima decisiva e condivisa ricostruzione raggiunta da entrambi i giudici di merito riguarda le modalità della condotta da S. in ciascuno degli episodi analizzati, contraddistinti dalla volontà di ottenere utilità, consistenti nel non pagare il corrispettivo dovuto per servizi ricevuti o per merce prelevata per anni e non pagata, come riferito dal teste M. e ribadito in termini ancor più dettagliati da C., le cui parole oltremodo significative sono riportate testualmente nella sentenza impugnata (pp.24 e 25 sentenza d’appello).

La Corte d’appello ha condiviso la ricostruzione effettuata dal primo giudice fondata non solo su tali dichiarazioni, ma anche da quelle rese da altri commercianti della zona cui S. per anni ha continuato rivolgersi per ottenere merce e utilità di ogni genere, senza pagare alcunché. In tale contesto, si inserisce il racconto di P.H., riportato nella sentenza di primo grado e riprodotto in quella di appello nei tratti significativi che danno consistenza e conferma alle condotte di V.S..

La vicenda di P., ritiene il giudice d’appello, offre una chiara chiave di lettura delle condotte di S., caratterizzate da ‘abuso della qualità’ di maresciallo della Guardia di Finanza, nella prospettiva di poter in futuro esser utile. E’ appunto P. che si rivolge a S. quando fu sottoposto nel 2010 a una importante verifica fiscale, per avvisarlo e chiedere il suo aiuto( pp.22 e 23 cit.).

5. Il diniego della rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale in appello, è stata correttamente giustificato dal richiamo ai presupposti richiesti dall’art. 603 c.p.p. nonché alla completezza della quadro probatorio acquisito dal giudice di primo grado. Anche tale censura difensiva si rivela manifestamente infondata.

6. La descrizione delle singole vicende, le modalità dalle quali sono caratterizzate denotano in termini incontrovertibili, che V.S. abbia agito con ‘abuso della qualità’, consistente nell’uso ‘indebito della posizione rivestita e della sua preminenza rispetto ai privati cui si rivolgeva, diretta a far sorgere in loro ‘rappresentazioni costrittive di prestazioni non dovute’.

Entrambi i giudici di merito, hanno escluso correttamente che le condotte potessero essere giuridicamente inquadrate giuridicamente nell’ambito del diverso delitto previsto dall’art. 319 quater c.p., poiché si è dei tutto fuori da rapporti sinallagmatici e, comunque, diretti a reciproci vantaggi, bensì si è in presenza di comportamenti caratterizzati da atteggiamenti incontestabilmente intimidatori, volti a far valere la ‘posizione rivestita’.

Ciò dà conferma a tale corretta conclusione ermeneutica, anche dopo la novella del 2012 n.190, l’abuso della qualità da parte del pubblico agente, che concorre ad integrare il delitto di concussione, consiste in una strumentalizzazione della sua posizione di preminenza sul privato, posta in essere indipendentemente dalle specifiche competenze (Sez. VI, 12 febbraio 2014, n. 10604).

In altri termini, ai fini della configurabilità del delitto di concussione mediante abuso della qualità di pubblico ufficiale o incaricato di pubblico servizio, non è necessario che l’atto intimidatorio rifletta la specifica competenza dei soggetto attivo, ma è sufficiente che la qualità soggettiva lo renda credibile e idoneo a costringere all’indebita promessa o daziane di denaro o di altra utilità.

Il riferimento chiaro alla posizione di ‘preminenza’ manifestato esplicitamente o anche indirettamente è più volte affermato nelle sentenze di merito, riguarda essenzialmente un accertamento di fatto adeguatamente motivato dal Tribunale e condiviso, mediante dettagliate argomentazioni, dalla Corte d’appello.

Ciò che dà consistenza e rende coerente le conclusioni raggiunte dalla Corte d’appello è la esclusione ìn alcuni episodi della configurazione illecita, ìn ragione dei dettagliati racconti di alcuni testi, quale P.G. di tenore diverso rispetto a quelli degli altri che han parlato di condotte ‘disinvolte’ di S. volte a manifestare abuso della ‘qualità’ e a ottenere utilità in termini dei tutto privi di ogni interesse degli altri soggetti privati, ritenuti del tutto attendibili (pp.27 e 28 sent. cit.).

6.1. La Corte territoriale ha compiutamente esposto le ragioni per le quali ha ritenuto la sussistenza degli elementi richiesti per la configurazione dei delitti de quíbus e le condotte alle quali ha riconosciuto tale illecita connotazione, in tal modo implicitamente disattendendo la richiesta di rinnovazione del dell’istruttoria dibattimentale.

Altrettanto manifestamente infondata e la censura, reiterata con i motivi d’appello, relativa alla violazione dell’art. 521 c.p. Come noto, si è in presenza di continuità normativa tra le ipotesi di reato introdotta dalla legge n. 190 del 2012 e quelle precedente racchiuse ‘unitariamente’ nella fattispecie di cui all’art. 317 c.p., spettando dunque al giudice di merito, rispetto alle condotte ‘costrittive o induttive’, verificare quale in concreto sia stata realizzata; valutazione correttamente svolta da entrambi i giudici di merito e altrettanto correttamente motivata.

6.2. In conclusione, a fronte di una plausibile ricostruzione della vicenda, come ampiamente descritta in narrativa, su precisi riferimenti probatori operati dal giudice d’appello, in questa sede, non è ammessa alcuna incursione nelle risultanze processuali – come richiesta con i motivi di ricorso e reiterata con i motivi nuovi – per giungere a diverse ipotesi ricostruttive dei fatti che integrano il delitto oggetto di imputazione, dovendosi la Corte di legittimità limitare a ripercorrere l’iter argomentativo svolto dal giudice di merito per verificarne la completezza e la insussistenza di vizi logici ictu oculi percepibili, senza possibilità di verifica della rispondenza della motivazione alle acquisizioni processuali.

7. Inammissibili le censure riferite alle ragioni per le quali la Corte d’appello, in linea con le conclusioni dei Tribunale, ha ritenuto corretto il trattamento sanzionatorio, correttamente, ritenendolo in tal modo giustificato nel suo complesso, anche per il diniego delle attenuanti generiche, peraltro non espressamente richieste e delle quali sono già state indicate in narrativa le rinnovate ragioni di diniego.

Anche qui, si è in presenza di una motivazione logicamente e giuridicamente corretta quanto all’adeguatezza della pena inflitta, individuando in relazione ai criteri di cui all’art. 133 c.p. – come già detto in narrativa – la pena base per il reato più grave e le ulteriori pene per gli altri reati satelliti unificati nel vincolo della continuazione.

8. II ricorso è, dunque, inammissibile e, a norma dell’art. 616 c.p.p, il ricorrente va condannato, oltre che al pagamento delle spese del procedimento, anche a versare una somma, che si ritiene equo determinare in euro 1.000,00 in favore della cassa delle ammende, non ricorrendo le condizioni richieste dalla sentenza della Corte costituzionale 13 giugno 2000, n.186.

P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro 1500 in favore della cassa delle ammende.

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