SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE
SEZIONE VI
SENTENZA 17 novembre 2014, n. 47271
Ritenuto in fatto
1. Con l’ordinanza impugnata il Tribunale di Venezia, Sezione Riesame confermava quella emessa in data 31/05/2014 con cui il GIP dello stesso Tribunale aveva applicato nei confronti di C.E. la misura cautelare della custodia in carcere con l’imputazione provvisoria di corruzione continuata (artt. 81 cpv., 110, 319, 321 cod. pen.) in concorso con Ch.Re. , Assessore alle Infrastrutture della Regione Veneto, in occasione dei lavori di realizzazione del sistema MOSE ad opera del CVN – Consorzio Venezia Nuova.
Il Tribunale osservava che alle luce delle risultanze investigative acquisite, il C. poteva essere individuato come il soggetto che, in veste di Capo Gabinetto dell’Assessore Ch. , aveva favorito la dazione a quest’ultimo di somme di denaro, corrisposte a titolo di corruzione da B.P. , legale rappresentante dell’Impresa Costruzioni Ing. Mantovani SpA a sua volta controllante la Adria Infrastrutture SpA, alle cui volizioni l’amministratore pubblico si era completamente sottomesso, al punto da farsene dettare l’agenda dei lavori su cui operare in Regione.
Tali risultanze si fondavano sulle dichiarazioni rese da M.C. – già segretaria del Governatore del Veneto, G. e poi divenuta responsabile della Adria Infrastrutture SpA – confermate quanto alle dazioni indebite in favore dell’Assessore dalle intercettazioni telefoniche condotte a carico di S.F. (amico di vecchia data del Ch. ), dalle dichiarazioni rese dallo stesso B. , da Ma.Gi. (Presidente del CVN) e da P.R. (Vicedirettore Generale del CVN) e per quanto riguarda il ruolo del C. , da quelle ora più generiche rese dalla citata M. ora più specifiche rese da V.M. , commensale abituale del ricorrente nonché del predetto B. e di D.B.L. (ingegnere, membro del CdA di Adria Infrastrutture).
Il Tribunale disattendeva la tesi dell’errore di persona e della conseguente estraneità dell’indagato agli addebiti, motivata dalla difesa sulla circostanza che era stato C.G. – vice di E. in Regione – a recarsi più volte con l’assessore presso la sede della Adria Infrastrutture, nonché quella della sopravvenuta cessazione di esigenze cautelari a causa delle intervenute dimissioni dall’incarico di Capo Gabinetto, osservando che i dichiaranti – che riferivano di fatti appresi personalmente – avevano con certezza indicato l’indagato quale braccio destro dell’Assessore e che proprio in forza del suo pieno coinvolgimento nel meccanismo corruttivo si era finanche addensato su di lui il sospetto che avesse trattenuto parte delle somme destinate al Ch. .
In tema di esigenze cautelari, osservava il Tribunale che i fatti in addebito risalivano al 2012 e dovevano, pertanto, ritenersi recenti rispetto all’ordinanza applicativa della misura e inoltre che il C. non era nuovo a condotte analoghe, essendo stato già condannato con sentenza irrevocabile per fatti di corruzione nell’ambito della c.d. Tangentopoli veneta e proprio per detto motivo designato Capo di Gabinetto del Ch. , continuando così a trafficare con le tangenti, come già accertato nel procedimento degli anni ’90.
Concludeva per il carattere non ostativo alla detenzione inframuraria della patologia accertata (cardiopatia ipertrofica) attualmente sotto controllo terapeutico e non soggetta ad aggravamenti medio tempore.
2. Avverso l’ordinanza ha proposto ricorso l’indagato, deducendo violazione di legge e vizio di motivazione in ordine alla consistenza dei gravi indizi di colpevolezza fondata su dichiarazioni rese da chiamanti in correità, prive di attendibilità intrinseca e dei necessari riscontri estrinseci, in particolare per quanto riguarda le propalazioni provenienti da M.C. e da V.M. , a sua volta indagato per il reato di millantato credito in danno di uno dei magistrati della Procura della Repubblica di Venezia.
Sotto altro profilo, le predette propalazioni costituirebbero dichiarazioni de relato e comunque difetterebbero di specificità quanto alle condizioni di tempo e di luogo in cui il ricorrente avrebbe cooperato alla dazione di somme in favore dell’Assessore Ch. , tale carenza riverberandosi anche sull’individuazione del tempus commissi delicti dei reati in addebito, ad avviso della difesa da tempo prescritti, almeno quelli commessi dall’inizio del 2005 al 4 giugno 2008.
Viene, inoltre, dedotta l’insussistenza di attuali esigenze cautelari, per assenza del pericolo di reiterazione dei reati evidenziata, da un lato dal decorso di poco più di un anno e mezzo dai fatti commessi rispetto all’applicazione della misura e dall’altro dalle intervenute dimissioni dalla carica di Capo di Gabinetto dell’Assessore Ch. nonché dalla sospensione (obbligatoria) dal servizio di dipendente regionale, costituenti entrambe circostanze atte ad impedire di fatto la reiterazione del reato.
Da ultimo, si deduce l’incidenza del d.l. n. 92/2014 convertito nella legge n. 114/2104 il cui articolo 8 ha modificato l’art. 275 comma 2 bis cod. proc. pen. nella parte in cui fa divieto di applicare misure cautelari nei confronti di indagati che all’esito del giudizio di merito possano riportare pena detentiva inferiore a tre anni di reclusione, situazione da valutare alla luce del limite edittale di pena massima stabilito per il delitto di corruzione provvisoriamente contestato.
Con memoria del 17/09/2014 è stata depositata copia di due ordinanze emesse dal Tribunale del riesame di Venezia a carico dei coindagati Ch. e G. , con le quali si è rilevata l’intervenuta estinzione del reato relativamente ai fatti commessi fino al mese di giugno del 2008.
Considerato in diritto
3. Il ricorso risulta infondato e come tale deve essere rigettato.
4. Risulta destituita di fondamento la censura relativa alla pretesa inattendibilità dei chiamanti in correità a carico del ricorrente.
Innanzitutto – e come già correttamente rilevato dal Tribunale di Venezia – essi non costituiscono propriamente dichiaranti de relato o per lo meno possono essere definiti tali solo in parte.
La prima, M.C. , riferisce di avere appreso da B. e dallo stesso Ch. (ovvero dal diretto beneficiario delle tangenti) che le ingenti somme a lui destinate venivano talora affidate anche al capo della sua segreteria, C.E. e che il Ch. si era anche lamentato del fatto che questi trattenesse il 30% delle provviste.
V.M. riferisce a sua volta di notizie apprese de relato quando aveva partecipato ad incontri conviviali presso il ristorante (omissis) di (…) unitamente ai predetti Ch. e M. nonché a D.B.L. ; riferisce, invece, notizie apprese direttamente dal C. , suo frequente commensale insieme al D.B. (pagg. 5 e 6 ordinanza impugnata), confermando anch’egli la ricorrenza del sospetto che l’indagato trattenesse per sé (“facesse la cresta”) parte delle somme di denaro destinate all’Assessore.
Né ad avviso di questo Collegio costituiscono divergenze significative quelle riferite al presunto trattenimento di parte delle tangenti destinate al Ch. : affermare che il C. tratteneva il 30% delle somme a ciò destinate o vi faceva la cresta altro non vuoi significare che, nella valutazione del circolo dei conoscenti, si riteneva che egli destinasse a sé e non facesse pervenire al suo referente politico una quota delle dazioni illecite.
5. Appare, altresì, destituita di fondamento la censura concernente la pretesa estinzione del reato in addebito, ancorché limitatamente alle condotte antecedenti il 4 giugno 2008.
Al C. è contestato, infatti, il delitto di cui agli artt. 319 e 321 cod. pen., in particolare per avere concorso con l’Assessore alle Infrastrutture Ch.Re. , di cui era il Capo di Gabinetto, a ricevere ingenti somme di denaro (tra i 200.000 e 250.000 Euro all’anno secondo quanto riferito da Ma.Gi. , v. ordinanza riguardante Ch. prodotta dalla difesa del ricorrente) che con frequenza annuale all’amministratore regionale venivano corrisposte da varie persone per conto di società del gruppo Mantovani e del Consorzio Venezia Nuova.
Orbene, secondo la prospettazione d’accusa, la dazione di dette somme è andata avanti fino a poco tempo prima dell’emissione della misura cautelare ed in particolare dal 2005 al 2012 secondo l’imputazione di cui al capo 8) dell’ordinanza cautelare ed anzi fino al giorno 7 febbraio 2013 secondo la distinta ordinanza resa dallo stesso Tribunale del Riesame di Venezia in data 28/06/2014 concernente il Ch. in prima persona (v. copia provvedimento prodotto dalla difesa del ricorrente).
Detto altrimenti, il flusso di denaro pervenuto all’amministratore regionale costituiva il corrispettivo della vendita della sua funzione, messa al servizio dei soggetti corruttori, che in tal modo ne avevano acquisito la disponibilità, presente e futura, a soddisfare le rispettive esigenze.
In tal modo inquadrata la fattispecie, deve rilevarsi che, secondo quanto già affermato dalla giurisprudenza di questa Corte e di questa Sezione, essa ricadeva già nel fuoco della previsione dell’art. 319 cod. pen. nella versione antecedente la novella rappresentata dalla legge n. 190 del 2012, essendosi infatti stabilito che dinanzi ad una condotta prolungata nel tempo di un pubblico ufficiale (nella specie: un primario ospedaliero) il quale, dietro pagamento, vanificava la sua funzione di controllo nell’acquisizione di forniture pubbliche, correttamente il giudice di merito aveva ravvisato una vendita della funzione, nel senso di mercimonio della discrezionalità da parte del soggetto, in luogo di una pluralità di episodi di corruzione uniti in continuazione, derivandone la correttezza della mancata dichiarazione di prescrizione per alcune porzioni della condotta medesima, erroneamente ritenute singoli reati (Cass. Sez. 6 sent. n. 34735 del 14/06/2011, Anzillotti e altri).
Principio ribadito da Sez. 6 sent. n. 9079 del 24/01/2013, Di Nardo e altri, Rv. 254162 in cui si è affermato che la messa a disposizione del proprio ufficio corrisponde oggi alla fattispecie di cui al nuovo testo dell’art. 318 cod. pen. e che tale condotta, peraltro, già rientrava nell’art. 319 cod. pen. costituendo atto contrario ai doveri d’ufficio e atteso che le due norme prevedono la medesima pena (massima), stante l’evidente continuità normativa tra le stesse, appare irrilevante chiedersi se una condotta pregressa rientri nell’una o nell’altra disposizione; nonché da Sez. 6 sent. n. 9883 del 15/10/2013, Terenghi, Rv. 258521 la quale ha stabilito che la riconduzione della vendita della funzione all’attuale art. 318 cod. pen. non incide sulla natura del fatto pregresso, che resta riconducibile all’art. 319 cod. pen. vigente all’epoca dei fatti, anche sotto il profilo della sanzione in quanto norma più favorevole dell’attuale art. 319 cod. pen..
La giurisprudenza di questa sezione ha, inoltre, affermato gli altri principi secondo cui i fatti di corruzione impropria per atto conforme ai doveri d’ufficio continuano ad essere penalmente rilevanti ai sensi dell’art. 318 cod. pen. per come novellato dalla legge 190 del 2012 che, nella sua ampia previsione, li ricomprende integralmente (Cass. sez. 6 sent. n. 19189 dello 11/01/2013, Abruzzese, Rv. 255073) ed anzi che la nuova norma ha allargato l’area di punibilità ad ogni fattispecie di monetizzazione del munus publicus, pur se sganciata da una logica di “formale sinallagmaticità” (Sez. 6 sent. del 13/01/2014, Menna).
La fattispecie considerata dalla prima delle citate pronunzie appare del tutto sovrapponibile a quella in esame, con l’aggiunta che – al pari di quanto già rilevato con le successive decisioni – devesi oggi prendere atto dell’intervenuta trasposizione normativa da parte del legislatore di quell’orientamento giurisprudenziale, mediante la previsione del nuovo art. 318 cod. pen. che sanziona espressamente la corruzione per la funzione, rompendo con l’impostazione propria del dispositivo normativo ancorato al rapporto sinallagmatico tra atto dell’ufficio (contrario o dovuto) ed accettazione di promessa e/o percezione di utilità da parte del pubblico agente.
Trattasi, invero, di impostazione che ancora permane nel sistema, dal momento che la legge n. 190 del 2012 non ha eliminato l’ipotesi di corruzione per un atto contrario ai doveri d’ufficio (nuovo art. 319 cod. pen.), il quale è però sanzionato in maniera più grave rispetto alla figura di reato di cui all’art. 318 cod. pen..
Ad avviso di questo Collegio, anzi, la stessa collocazione topografica delle due norme, in rapporto di progressione sanzionatoria tra loro, evidenzia che alla luce della revisione normativa la previsione di base è appunto costituita dall’art. 318 cod. pen., la cui presenza infatti ha eliminato la necessità non solo di prevedere un’espressa sanzione per la corruzione collegata al compimento di atti dell’ufficio non contrari a legge ma anche di stabilire il compimento o meno di un atto dell’ufficio e la relativa natura, mentre il nuovo art. 319 cod. pen. contempla i casi di maggiore gravità, in cui il pubblico ufficiale omette o ritarda un atto di sua competenza o ne compie di addirittura contrari ai doveri d’ufficio, situazioni che come tali esigono una risposta più rigorosa da parte dell’ordinamento.
Non v’è dubbio, tuttavia, che come nella fattispecie, possano darsi casi in cui all’accettazione di indebite promesse o (evenienza più verosimile) alla percezione di indebite utilità collegate semplicemente all’esercizio della pubblica funzione si accompagnino situazioni in cui è, invece, riconoscibile il sinallagma tra quelle ed il compimento di un atto contrario ai doveri d’ufficio ovvero l’omissione o il ritardo di un atto dovuto.
In tali casi, si pone il problema di definire i rapporti tra le due figure di reato di cui agli artt. 318 e 319 cod. pen., al fine di stabilire se debbano applicarsi congiuntamente o meno.
A tale riguardo, ritiene il collegio, in linea di continuità con la richiamata giurisprudenza, che l’art. 318 cod. pen. non abbia coperto integralmente l’area della vendita della funzione, ma soltanto quelle situazioni in cui non sia noto il finalismo del suo mercimonio o in cui l’oggetto di questo sia sicuramente rappresentato da un atto dell’ufficio.
Residua, infatti, tuttora un’area di applicabilità dell’art. 319 cod. pen. quando la vendita della funzione sia connotata da uno o più atti contrari ai doveri d’ufficio, accompagnati da indebite dazioni di denaro o prestazioni d’utilità, sia antecedenti che susseguenti rispetto all’atto tipico, il quale finisce semplicemente per evidenziare il punto più alto di contrarietà ai doveri di correttezza che si impongono al pubblico agente.
Deve, pertanto, essere riaffermata la perdurante validità della citata giurisprudenza (su tutte Sez. 6 n. 34735/11 Anzillotti e al.) che, alla luce del mutato quadro normativo determinato dalla legge n. 190 del 2012, finisce per costituire applicazione della categoria dogmatica della progressione criminosa, che consente di individuare un unico reato (e un’unica pena) in fattispecie, come quella in esame, al confine tra l’applicabilità del concorso di norme sullo stesso fatto ed il concorso materiale di reati.
6. Priva di pregio si rivela, infine, anche la censura riguardante la scelta del regime cautelare custodiale in vigore a carico del ricorrente.
La gravità del fatto, dimostrata dall’entità delle somme raccolte e veicolate all’indirizzo dell’assessore, la persistenza nel tempo dell’illecito (perlomeno dal 2005 fino al 2012), la dimestichezza dell’indagato a reiterare le medesime condotte illecite pur dopo avere patteggiato (secondo la precisazione difensiva) una pena per fatti analoghi commessi durante la c.d. Tangentopoli veneta – circostanza che all’evidenza non fa venir meno la storicità della condotta illecita, anche se per il reato per avventura possa essere stato dichiarato estinto ai sensi dell’art. 445, comma 2 cod. proc. pen. – rende talmente alto il pericolo di recidiva nel reato da indurre a ritenere ogni altra misura allo stato inappropriata.
Né l’intervenuta decadenza dal’incarico di Capo di Gabinetto dell’Assessorato alle Infrastrutture o la sospensione obbligatoriamente comminata dal servizio di pubblico dipendente regionale attenua quella esigenza: si è al cospetto, invero, di un soggetto particolarmente proclive a commettere e reiterare reati della stessa specie di quello per cui si procede, per la cui consumazione – come correttamente rilevato dal Tribunale – occorre non solo la permanenza nell’incarico ma anche il mantenimento di una serie consistente di rapporti personali che occorre assolutamente impedire mediante l’applicazione del più grave regime custodiale.
7. Quanto, infine, all’incidenza del d.l. n. 92/2014 convertito nella legge n. 114/2104 e alla modifica dell’art. 275 comma 2 bis cod. proc. pen. nella parte in cui fa divieto di applicare misure cautelari nei confronti di indagati che all’esito del giudizio di merito possano riportare pena detentiva inferiore a tre anni di reclusione, essa suppone una prognosi positiva in tal senso che – per quanto sopra appena esposto – appare di difficile formulazione, quando non da escludere completamente.
8. Al rigetto del ricorso consegue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali.
P.Q.M.
rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali. Manda alla Cancelleria per gli adempimenti di cui all’art. 94 comma 1 ter disp. att. cod. proc. pen..
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