Suprema Corte di Cassazione
sezione V
sentenza 9 settembre 2013, n. 36887
Ritenuto in fatto
Il difensore di A.M. , persona sottoposta a misure cautelari in quanto gravato da indizi di colpevolezza relativi ai reati di cui agli artt. 612-bis e 570 cod. pen., ricorre avverso l’ordinanza del Tribunale del riesame di Lecce indicata in epigrafe; con detta ordinanza, pur accogliendo parzialmente un’impugnazione presentata ex art. 310 cod. proc. pen. nell’interesse dello stesso A. nei confronti di un provvedimento della Corte di appello di Lecce, reiettiva di un’istanza difensiva di revoca degli arresti domiciliari in atto, il citato Tribunale manteneva forme di limitazione della libertà del ricorrente. La restrizione nel domicilio era infatti sostituita dalla diversa misura del divieto di avvicinarsi a tutti i luoghi frequentati dalla persona offesa (la di lui moglie) e dalle figlie della coppia, con particolare riguardo alle zone limitrofe la scuola frequentata dalle minori, che il ricorrente era autorizzato a vedere solo secondo modalità già in atto, documentate da relazioni dei competenti servizi sociali. Il provvedimento prescriveva altresì all’A. di non comunicare con la denunciante o con i familiari conviventi della donna, neppure mediante squilli telefonici o clacson.
Il difensore del prevenuto, ripercorse le vicende cautelari succedutesi nel corso del procedimento, con un’iniziale applicazione della custodia in carcere, poi revocata, cui aveva fatto seguito dopo circa un anno la nuova misura degli arresti domiciliari, lamenta violazione delle norme processuali di cui agli artt. 274, 282-bis, 282-ter e 299 del codice di rito, nonché motivazione carente, illogica e contraddittoria. Il Tribunale del riesame, infatti, avrebbe sottolineato il rilievo di quanto attestato dagli assistenti sociali del competente consultorio familiare (su un ottimo recupero del rapporto con le figlie da parte del prevenuto), tenendone conto ai fini del giudizio di attenuazione delle esigenze cautelari, ma non avrebbe in alcun modo spiegato quali esigenze giustificherebbero la sostituzione degli arresti domiciliari, in luogo di una più coerente revoca tout court di ogni forma di restrizione. Inoltre, ed in particolare, non verrebbero esplicitate le ragioni che imporrebbero ancora la misura di cui all’art. 282-ter cod. proc. pen., tanto più che i luoghi di abituale frequentazione della persona offesa (e delle minori) non risultano espressamente indicati.
Il ricorso si sofferma poi diffusamente sulla corretta nozione di pericolo di reiterazione criminosa ai sensi dell’art. 274 cod. proc. pen., richiamando precedenti giurisprudenziali di legittimità ed evocando i principi dettati dall’art. 27 Cost. in punto di finalità rieducativa della pena.
Considerato in diritto
1. Il ricorso non può trovare accoglimento.
1.1 Con riguardo alla sostituzione della misura, vero è che il Tribunale del riesame ha correttamente enfatizzato i risultati positivi degli incontri avuti dall’A. con le figlie, sottolineando che egli non era più incorso in violazioni delle prescrizioni impartitegli: tuttavia è altrettanto evidente che l’ordinanza impugnata prende in esame quegli elementi al fine di pervenire ad un giudizio di attenuazione delle esigenze cautelari, e non già di completa elisione. Del resto, nel corpo dell’odierno ricorso si da contezza di una precedente revoca di misura coercitiva cui poi aveva fatto seguito l’emissione di una nuova ordinanza custodiale: l’A. aveva dunque dato dimostrazione in passato di una obiettiva incapacità di autodeterminazione, che giustificava senz’altro – al momento dell’emissione dell’ordinanza oggi impugnata – un approccio del Tribunale limitato alla sola prospettiva dell’attenuazione dell’esigenza descritta dall’art. 274 cod. proc. pen..
1.2 A proposito del contenuto concreto delle limitazioni correlate alla misura ex art. 282-ter cod. proc. pen., come segnalato dal P.g., si registra in effetti un contrasto interpretativo sulle modalità applicative della misura medesima.
La Sezione Sesta di questa Corte (sentenza n. 26819 del 07/04/2011, C.) ha infatti osservato che per dare concreta efficacia all’istituto “appare necessaria la completa comprensione delle dinamiche che sono alla base dell’illecito, nel senso che il giudice deve modellare la misura in relazione alla situazione di fatto. Ciò comporta che il P.M. nella sua richiesta (e ancor prima la polizia giudiziaria) dovrà ben rappresentare al giudice, oltre agli elementi essenziali per l’applicazione della misura, anche aspetti apparentemente di contorno, che invece possono assumere una importanza fondamentale ai fini dei provvedimenti di allontanamento o di divieto di avvicinamento, che possono risultare utili per dare il migliore contenuto al provvedimento cautelare. Così […], assumono un particolare rilievo le informazioni circa i luoghi abitualmente frequentati dalla persona offesa o dai suoi parenti, proprio in quanto funzionali al tipo di tutela che si vuole assicurare attraverso l’allontanamento dell’autore del reato, che dovrebbe servire ad evitare il ripetersi di episodi delittuosi ai danni della persona offesa.
Ma nell’ambito dei luoghi abitualmente frequentati la norma pretende che vengano individuati luoghi determinati, perché solo in questo modo il provvedimento assume una conformazione completa, che ne consente non solo l’esecuzione, ma anche il controllo che tali prescrizioni siano osservate.
D’altra parte, la completezza e la specificità del provvedimento costituisce una garanzia per un giusto contemperamento tra le esigenze di sicurezza, incentrate sulla tutela della vittima, e il minor sacrificio della libertà di movimento della persona sottoposta ad indagini. In altri termini, deve ritenersi che con il provvedimento ex art. 282-ter cod. proc. pen., il giudice debba necessariamente indicare in maniera specifica e dettagliata i luoghi rispetto ai quali all’indagato è fatto divieto di avvicinamento, non potendo essere concepibile una misura cautelare, come quella oggetto di esame, che si limiti a fare riferimento genericamente a tutti i luoghi frequentati dalla vittima. Così concepito il provvedimento, oltre a non rispettare il contenuto legale, appare strutturato in maniera del tutto generica, imponendo una condotta di non tacere indeterminata rispetto ai luoghi, la cui individuazione finisce per essere di fatto rimessa alla persona offesa”.
È stato però più recentemente affermato, da questa stessa Sezione, che “la misura cautelare del divieto di avvicinamento, prevista dall’art. 282-ter cod. proc. pen., può contenere anche prescrizioni riferite direttamente alla persona offesa ed ai luoghi in cui essa si trovi, aventi un contenuto coercitivo sufficientemente definito nell’imporre di evitare contatti ravvicinati con la vittima, la presenza della quale in un certo luogo è sufficiente ad indicare lo stesso come precluso all’accesso dell’indagato” (Cass., Sez. 5, n. 13568 del 16/01/2012, V., Rv 253297).
Nella motivazione di quest’ultima pronuncia, cui il collegio ritiene di aderire pienamente per la completezza e la puntualità delle argomentazioni adottate, si ricorda che “la previsione della misura cautelare in esame è stata oggetto nel tempo di due interventi normativi. Con il primo, la legge 4 aprile 2001, n. 154, art. 1, introduceva l’art. 282-bis cod. proc. pen., che al comma 2 prevede la possibilità per il giudice di prescrivere all’indagato di “non avvicinarsi a luoghi determinati abitualmente frequentati dalla persona offesa, in particolare il luogo di lavoro, il domicilio della famiglia di origine o dei prossimi congiunti”. Presupposto dell’applicazione della misura è, nell’espressa formulazione normativa, la sussistenza di esigenze di tutela dell’incolumità della persona offesa; e qui è inequivocabile, già in questa prima disciplina della misura, la funzione alla stessa attribuita dal legislatore. Scopo della previsione è evidentemente quello di rispondere a specifiche ragioni di cautela special-preventiva, riferite non solo alla personalità dell’indagato ed alla proclività dello stesso alla commissione di reati, ma anche al particolare rilievo che in questa prospettiva assumono la posizione della persona offesa ed i rapporti fra la stessa ed il soggetto agente; il che ricollega il campo applicativo della norma a reati in cui è particolarmente significativa la componente vittimologica, quale è senz’altro il delitto, oggetto di successiva previsione incriminatrice, di cui all’art. 612-bis cod. pen..
La misura appariva già all’epoca destinata, in altre parole, a quelle situazioni nelle quali la possibile reiterazione della condotta criminosa, al di là della sua generica incidenza sulla collettività, si indirizza specificamente nei confronti di un determinato soggetto passivo, ponendone in pericolo l’incolumità; la cui protezione acquisisce pertanto rilevanza in prospettiva cautelare. La norma prende atto, a questi fini, della possibile insufficienza di una tutela, per così dire, “statica” dell’incolumità della vittima, laddove le circostanze rendano concreto il pericolo di un’aggressione della stessa nel corso dello svolgimento della sua vita di relazione e pertanto inadeguata una mera interdizione all’indagato del luogo di abitazione della persona offesa; e d’altra parte si fa carico dell’eccessività del ricorso a misure custodiali a fronte di un’esigenza cautelare strettamente dipendente dai contatti dell’indagato con la vittima. Da ciò nasce la configurazione di una misura nell’applicazione della quale assume primaria importanza la garanzia della libertà di movimento e di relazioni sociali della persona offesa da possibili intrusioni dell’indagato, che facendo temere la vittima per la propria incolumità finiscano per condizionare e pregiudicare la fruizione di dette libertà […].
Con il d.l. 23 febbraio 2009, n. 11, convertito con legge 23 aprile 2009, n. 38, che all’art. 7 prevedeva la nuova fattispecie incriminatrice di cui all’art. 612-bis cod. pen., veniva altresì emanata all’art. 9 la disposizione integrativa della misura del divieto di avvicinamento di cui all’art. 282-ter cod. proc. pen., comma 1, per la quale “il giudice prescrive all’imputato di non avvicinarsi a luoghi determinati abitualmente frequentati dalla persona offesa ovvero di mantenere una determinata distanza da tali luoghi o dalla persona offesa”. La norma si inserisce coerentemente nelle finalità di tutela che si è visto essere già proprie della misura in esame nella preesistente previsione di cui all’art. 282-bis, con il palese scopo di rendere detta tutela più efficace in determinate situazioni; ed è particolarmente significativo, a questo riguardo, che la disposizione sia stata introdotta contestualmente alla previsione del delitto di atti persecutori. Le modalità commissive di quest’ultimo comprendono infatti quali manifestazioni tipiche il costante pedinamento della vittima, da parte del soggetto agente, anche in luoghi nei quali la prima si trovi occasionalmente, e l’espressione di atteggiamenti minacciosi o intimidatori anche in assenza di contatto fisico diretto con la persona offesa e purtuttavia dalla stessa percepibili. Alle necessità indotte da quest’ultima tipologia comportamentale soccorre la sostanziale estensione della nozione di “avvicinamento” al superamento di una distanza minima della vittima, stabilita secondo le esigenze di tutela suggerite dal caso concreto. Ma, in termini più generali, il riferimento oggettuale del divieto di avvicinamento non più solo ai luoghi frequentati dalla persona offesa, ma altresì alla persona offesa in quanto tale, esprime una precisa scelta normativa di privilegio, anche nelle situazioni in esame, della libertà di circolazione del soggetto passivo. La norma, in altre parole, esprime una scelta di priorità dell’esigenza di consentire alla persona offesa il completo svolgimento della propria vita sociale in condizioni di sicurezza da aggressioni alla propria incolumità anche laddove la condotta dell’autore del reato assuma connotazioni di persistenza persecutoria tale da non essere legata a particolari ambiti locali; con la conseguenza che è rispetto a tale esigenza che deve modellarsi il contenuto concreto di una misura la quale, non lo si dimentichi, ha comunque natura inevitabilmente coercitiva rispetto a libertà anche fondamentali dell’indagato. È del resto significativo che l’art. 282-ter cod. proc. pen., nel richiamare la descrizione del divieto di cui al preesistente art. 282-bis, non riproponga i pur non tassativi accenni ivi presenti al luogo di lavoro della vittima ed al domicilio della famiglia di origine della stesse; a conferma che la tutela di un sereno esercizio della libertà di circolazione e di relazione della persona offesa non trova limitazione alle sfere del lavoro e della cura degli affetti familiari della stessa ed agli ambiti alle stesse assimilabili […].
Alla luce di questi presupposti funzionali deve concludersi che la misura cautelare in esame, per effetto dell’integrazione effettuata con l’introduzione dell’art. 282-ter cod. proc. pen., ha assunto una dimensione articolata in più fattispecie applicative, graduate in base alle esigenze di cautela del caso concreto. L’originaria indicazione dei luoghi determinati frequentati dalla persona offesa rimane invero significativa nel caso in cui le modalità della condotta criminosa non manifestino un campo d’azione che esuli dai luoghi nei quali la vittima trascorra una parte apprezzabile del proprio tempo o costituiscano punti di riferimento della propria quotidianità di vita, quali quelli indicati dall’art. 282-bis cod. proc. pen. nel luogo di lavoro o di domicilio della famiglia di provenienza. Laddove viceversa, ed è situazione come si è detto ricorrente per il reato di cui all’art. 612-bis cod. pen., la condotta oggetto della temuta reiterazione abbia i connotati della persistente ed invasiva ricerca di contatto con la vittima in qualsiasi luogo in cui la stessa si trovi, è prevista la possibilità di individuare la stessa persona offesa, e non i luoghi da essa frequentati, come riferimento centrale del divieto di avvicinamento. Ed in tal caso diviene irrilevante l’individuazione di luoghi di abituale frequentazione della vittima; dimensione essenziale della misura è invero a questo punto il divieto di avvicinamento a quest’ultima nel corso della sua vita quotidiana ovunque essa si svolga. La predeterminazione dei luoghi di cui sopra risulterebbe del resto, nella situazione descritta, chiaramente dissonante con le finalità della misura, per come in precedenza delineate. Detta predeterminazione verrebbe di fatto a porsi come un’inammissibile limitazione del libero svolgimento della vita sociale della persona offesa, che viceversa costituisce precipuo oggetto di tutela della norma. La vittima si vedrebbe invero costretta a contenere la propria libertà di movimento nell’ambito dei luoghi indicati ovvero ad essere esposta, esorbitando dagli stessi, a quella condizione di pericolo per la propria incolumità che si presuppone essere stato riconosciuta sussistente anche al di fuori del perimetro della ricorrente frequentazione della persona offesa.
Non appaiono di contro fondate le preoccupazioni espresse nell’orientamento giurisprudenziale qui non condiviso in ordine alla soggezione dell’indagato a limitazioni della propria libertà personale di carattere indefinito, estranee alle proprie intenzioni persecutorie e di fatto dipendenti dalla volontà della persona offesa. Le prescrizioni, anche nel generico riferimento al divieto di avvicinarsi alla persona offesa ed ai luoghi in cui la stessa in concreto si trovi, mantengono invero un contenuto coercitivo sufficientemente definito nell’essenziale imposizione di evitare contatti ravvicinati con la vittima, la presenza della quale in un certo luogo è sufficiente ad indicare lo stesso come precluso all’accesso dell’indagato”.
Le osservazioni appena evidenziate non trovano smentita nelle successive previsioni della direttiva del Parlamento Europeo e del Consiglio UE n. 2001 del 13/12/2011, in tema di “ordine di protezione Europeo”; la disposizione sovranazionale non esprime, a ben guardare, principi a sostegno della interpretazione suggerita dalla Sezione Sesta di questa Corte nella coeva pronuncia, giacché nell’art. 5 di quel testo si legge che:
Un ordine di protezione Europeo può essere emesso solo se nello Stato di emissione è stata precedentemente adottata una misura di protezione che impone alla persona che determina il pericolo uno o più dei seguenti divieti o delle seguenti restrizioni:
a) divieto di frequentare determinate località, determinati luoghi o determinate zone definite in cui la persona protetta risiede o che frequenta;
b) divieto o regolamentazione dei contatti, in qualsiasi forma, con la persona protetta, anche per telefono, posta elettronica o ordinaria, fax o altro;
c) divieto o regolamentazione dell’avvicinamento alla persona protetta entro un perimetro definito.
La lett. a) della norma è dunque ricalcata sulla falsariga della misura ex art. 282-bis cod. proc. pen., ed è avuto riguardo a quel peculiare tipo di divieto che si impone – anche a livello di ordine di protezione Europeo – la specificazione delle località, dei luoghi o delle zone cui al destinatario della restrizione è inibito comunque di accedere. In altre parole, data la regola statistica secondo cui presso la residenza, l’ambiente di lavoro od un luogo di abituale frequentazione della persona offesa è altamente probabile rinvenire quest’ultima, si impone al presunto autore di condotte criminose di non trovarsi a sua volta in quegli ambiti, senza la necessità di verificare in ogni circostanza se la vittima sia in loco.
È invece la lettera c) a riguardare il divieto (o la regolamentazione) dell’avvicinamento del destinatario della misura alla persona offesa, dovunque quest’ultima si trovi e secondo uno schema che si attaglia alla previsione dell’art. 282-ter: qui la direttiva Europea richiede soltanto che sia definito il “perimetro” all’interno del quale scatta la protezione, come potrebbe accadere laddove sia prescritto a taluno di rimanere a una distanza minima, esattamente quantificata, dal soggetto a tutela del quale venga emesso il provvedimento. Prescrizione che tuttavia, in ragione delle peculiarità della fattispecie concreta, non sempre è possibile adottare, essendo talora imprevedibile la stessa evenienza che le due persone vengano occasionalmente in contatto: ben più ragionevole, e di maggior garanzia per gli stessi diritti di colui che viene gravato dal divieto, risulta allora la soluzione adottata nel caso oggi in esame dal Tribunale di Lecce, che impone all’A. di non avvicinarsi a tutti i luoghi frequentati dalla moglie e dalle figlie, e comunque di allontanarsi da detti luoghi in ogni occasione di incontro. In altre parole, non vi è alcuna compressione ingiustificata della libertà del ricorrente, né vuota indeterminatezza delle modalità applicative della misura: fermo restando che gli è proibito transitare in una via determinata ed in prossimità della scuola delle minori (come si legge nel dispositivo dell’ordinanza impugnata), egli può recarsi dove vuole, salvo doversene allontanare qualora incontri – anche imprevedibilmente – le persone da tutelare.
2. Il rigetto del ricorso comporta la condanna del ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio di legittimità.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.
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