Suprema Corte di Cassazione
sezione V
sentenza 6 febbraio 2015, n. 5664
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE QUINTA PENALE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. DUBOLINO Pietro – Presidente
Dott. DE BERARDINIS Silvan – Consigliere
Dott. SETTEMBRE A – rel. Consigliere
Dott. DE MARZO Giusep – Consigliere
Dott. DEMARCHI ALBENGO Paolo – Consigliere
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
(OMISSIS) N. IL (OMISSIS);
avverso l’ordinanza n. 936/2014 TRIB. LIBERTA’ di VENEZIA, del 07/08/2014;
sentita la relazione fatta dal Consigliere Dott. ANTONIO SETTEMBRE;
– Udito il Procuratore Generale della Repubblica presso la Corte di Cassazione, dr. Gioacchino Izzo, che ha chiesto la rimessione del ricorso alle Sezioni Unite, ovvero, in subordine, il rinvio pregiudiziale – ex articolo 267 TUE – alla Corte di Giustizia circa l’interpretazione dell’articolo 5, lettera C), della Direttiva 2011/99 UE del 13 dicembre 2011; in ulteriore subordine il rigetto del ricorso.
Il Tribunale ha ritenuto sussistente il quadro di gravita’ indiziaria sulla scorta delle dichiarazioni della persona offesa – che ha riferito di una serie continuativa di atti molesti, costituiti da messaggi e telefonate ingiuriose e minacciose, di pedinamenti e appostamenti, oltre che, infine, di aggressione fisica – e di vari testimoni, che sono stati spettatori di una selvaggia aggressione perpetrata in danno della donna.
2.0. Avverso tale provvedimento ha proposto ricorso per Cassazione, nell’interesse dell’indagato, l’avv. (OMISSIS), il quale, con un primo motivo, lamenta una violazione del diritto di difesa, derivante dal fatto che l’ordinanza del Giudice delle indagini preliminari fa riferimento al reato di cui all’articolo 612 c.p., e non a quello di cui all’articolo 612 bis c.p..
Con altro motivo si duole della violazione dell’articolo 274 c.p.p., comma 1, lettera c), oltre che di un vizio di motivazione, per essere stato inferito il pericolo di reiterazione criminosa dal carattere stesso dei reati contestati e dai precedenti penali dell’indagato, non attinenti agli specifici fatti oggetto di contestazione, e nonostante il (OMISSIS), successivamente all’aggressione del 22-6-2014, non abbia piu’ voluto incontrare la persona offesa.
Col terzo motivo contesta la sussistenza del reato di cui all’articolo 612 bis c.p., dal momento che la (OMISSIS), nella denuncia sporta il 23/6/2014, non aveva proposto querela e aveva, nelle sommarie informazioni del 7/7/2014, dichiarato di non aver avuto modo di incontrare di persona (OMISSIS). Il ricorrente conferma che, successivamente al 22/6/2014, furono inviati altri messaggi alla persona offesa, ma esclude che (OMISSIS) abbia agito con l’intenzione di recare ansia o disturbo alla (OMISSIS).
Con un quarto ed ultimo motivo si duole della indeterminatezza della misura.
1. Il primo motivo e’ inammissibile per manifesta infondatezza. Sebbene il provvedimento del Giudice delle indagini preliminari menzioni l’articolo 612 c.p., tutta l’ordinanza e le motivazioni del provvedimento fanno riferimento al reato di cui all’articolo 612 bis c.p., per cui nessun intralcio all’esplicazione del diritto di difesa e’ conseguito alla erronea indicazione della norma penale applicabile nella specie. La giurisprudenza di questa Corte e’ costante nell’individuare le cause di nullita’, dovute alla erronea contestazione dei reati e alla modificazione dell’imputazione nel corso del procedimento, con riguardo all’incidenza che l’errore o la modifica ha avuto sulle possibilita’ di difesa dell’interessato; pertanto, ove, come nella specie, nessun pregiudizio sia derivato all’esercizio del diritto suddetto, nessuna nullita’ e’ possibile predicare con riguardo al provvedimento affetto dall’errore o interessato dalla modifica.
2. Il motivo relativo al fumus commissi delicti (il terzo del ricorrente, che viene esaminato prima del secondo per la sua priorita’ logica) e’ – parimenti – manifestamente infondato. Il reato di cui all’articolo 612 bis, e’ integrato da una serie ripetuta di atti minacciosi o molesti che cagionano alla vittima un perdurante e grave stato di ansia o di paura ovvero ingenerano un fondato timore per l’incolumita’ propria o di un prossimo congiunto o di persona al medesimo legata da relazione affettiva ovvero costringono lo stesso ad alterare le proprie abitudini di vita. Nella specie, i giudici di merito – sulla base delle dichiarazioni della donna, attentamente valutate, e di numerosi testi, che assistettero ad un episodio di selvaggia aggressione perpetrato in data 22 giugno 2014 – hanno ampiamente e congruamente motivato in ordine alla determinazione – da parte dell’indagato – dell’evento preso in considerazione dalla norma (sia il grave stato di ansia e di paura, sia il mutamento delle abitudini di vita, determinati da comportamenti minacciosi e violenti dell’uomo, durati mesi ed acuitisi dopo l’avvio di una nuova relazione sentimentale da parte della ex-compagna). Poco importa, quindi, se, come sostiene il ricorrente, in relazione all’episodio del 22 giugno 2014 la donna non abbia proposto querela, giacche’ nel fuoco dell’indagine giudiziale sono entrati comportamenti durati mesi e idonei, da soli, a integrare l’elemento oggettivo del reato; ne’ importa, per lo stesso motivo, che, nelle sommarie informazioni del 7/7/2014, la donna abbia – a dire del ricorrente – dichiarato di non aver incontrato di persona (OMISSIS), posto che gli “incontri” procurati, in precedenza, dall’indagato assumono da soli la rilevanza supposta dalla norma penale (senza contare che gli atti persecutori possono essere compiuti senza contatto fisico).
3. E’ manifestamente infondata anche la doglianza relativa alla ritenuta sussistenza delle esigenze cautelari, desunte dalla natura e reiterazione delle condotte delittuose attribuite all’indagato e alla sua negativa personalita’, apprezzata sia per i comportamenti – particolarmente odiosi – tenuti nei confronti della persona offesa, sia per i precedenti penali. Vale a dire, per le “specifiche modalita’ e circostanze del fatto e per la personalita’ della persona sottoposta alle indagini…, desunta da comportamenti o atti concreti o dai suoi precedenti penali”, secondo la testuale definizione dell’articolo 274 c.p.p., comma 1, lettera c), di cui l’ordinanza impugnata ha fatto puntuale applicazione.
4. Merita accoglimento parziale, invece, l’ultimo motivo di ricorso. Com’e’ noto, l’articolo 282 ter c.p.p. – introdotto dal D. L. 23 febbraio 2009, n. 11, conv., con mod., dalla Legge 23 aprile 2009, n. 38 – ha tipizzato una nuova figura di misura cautelare al fine di contrastare, prevalentemente, il fenomeno degli atti persecutori, costituito dal divieto di avvicinamento dell’imputato o dell’indagato “a luoghi determinati abitualmente frequentati dalla persona offesa”, nonche’ dall’imposizione dell’obbligo di “mantenere una determinata distanza da tali luoghi o dalla persona offesa”.
E’ vivo nella giurisprudenza di questa Corte – ma non contraddittorio – il dibattito sui caratteri che devono avere le misure suddette, affinche’ le esigenze di cautela sottese alla norma siano conciliabili con i diritti e le necessita’ della persona cui le misure sono imposte, sotto un duplice profilo: a) quello di determinare una compressione della liberta’ di movimento dell’onerato nella misura strettamente necessaria alla tutela della vittima; b) quella di assicurare una sufficiente determinatezza della misura, affinche’ sia ben chiaro all’obbligato quali comportamenti deve tenere e sia eseguibile il controllo sulla corretta osservanza delle prescrizioni a lui imposte. E’ compito del giudice, pertanto, riempire la misura di contenuti adeguati agli obbiettivi da raggiungere e rendere la misura sufficientemente determinata, per evitare elusioni o problematiche applicative.
Ritiene il collegio che una interpretazione letterale della norma consenta di superare le difficolta’ applicative create da una misura che, nello spirito della legge, deve essere “calibrata” sulla situazione di fatto che si vuole tutelare in via cautelare. Ebbene, l’articolo 282-ter prevede – innanzitutto – il divieto di avvicinamento “a luoghi determinati abitualmente frequentati dalla persona offesa” e l’obbligo di “mantenere una determinata distanza da tali luoghi”, al fine – evidente – di assicurare alla vittima uno spazio fisico libero dalla presenza del soggetto che si e’ reso autore di reati in suo danno. La norma ricalca l’analoga previsione contenuta nell’articolo 282 bis c.p.p., introdotto per analoghe ragioni, dalla Legge 4 aprile 2001, n. 154, secondo cui il giudice, qualora sussistano esigenze di tutela dell’incolumita’ della persona offesa o dei suoi prossimi congiunti, puo’ ordinare all’imputato o all’indagato, oltre che di lasciare immediatamente la casa familiare, “di non avvicinarsi a luoghi determinati abitualmente frequentati dalla persona offesa, in particolare il luogo di lavoro, il domicilio della famiglia di origine o dei prossimi congiunti”. In entrambe le disposizioni e’ contenuta, quindi, l’avvertenza di riempire la prescrizione di un contenuto specifico: quello della individuazione (“determinazione”) del luogo a cui l’autore del reato non si deve avvicinare. Tale previsione corrisponde ad una esigenza pratica e una esigenza di giustizia: l’esigenza pratica e’ quella di rendere noto all’obbligato quali sono i luoghi da evitare, alla cui determinatezza e’ collegata la stessa praticabilita’ della misura; l’esigenza di giustizia e’ quella di contenere le limitazioni imposte all’indagato nei limiti strettamente necessari alla tutela della vittima e di assicurare a quest’ultima la certezza di uno spazio libero dalla presenza del prevenuto. Entrambe le norme partono dal presupposto, quindi, che una indicazione generica del luogo “interdetto” all’obbligato non sia funzionale alle esigenze che si vogliono tutelare, perche’ non consentirebbe al prevenuto di sapere in anticipo quale comportamento e’ a lui richiesto. A questa categoria e’ da ascrivere – ad avviso del Collegio – anche il divieto “di avvicinarsi ai luoghi abitualmente frequentati dalla persona offesa”, sia perche’ l’obbligato non puo’ sapere quali siano i luoghi suddetti – peraltro normalmente destinati a variare a seconda delle esigenze e delle abitudini della persona – sia perche’ la misura assumerebbe una elasticita’ dipendente dalle decisioni (o anche dal capriccio) dell’offeso, a cui verrebbe rimesso, sostanzialmente, di stabilire il contenuto della misura. Tanto, si badi bene, anche nel caso la frequentazione di un luogo avvenga, con priorita’, da parte della persona sottoposta ad indagini, con la conseguenze – a dir poco paradossale – di imporgli un facere (allontanarsi dal luogo) anche quando sia la persona offesa ad avvicinarsi ad esso.
E’ da condividere, pertanto, la conclusione cui e’ pervenuta, sul punto, la Sez. 6 di questa Corte, allorche’ ha rilevato che un provvedimento che si limiti a parlare, genericamente, di “luoghi frequentati dalla persona offesa”, oltre a “non rispettare il contenuto legale, appare strutturato in maniera del tutto generica, imponendo una condotta di non facere indeterminata rispetto ai luoghi, la cui individuazione finisce per essere di fatto rimessa alla persona offesa” (Cass., n. 26816 del 7/4/2011. In senso conforme, Sez. 5, n. 27798 del 4/4/2013).
4.1. A conclusione diversa conduce, invece, l’imposizione – pure consentita dall’articolo 282-ter cod. proc. pen., dell’obbligo di “non avvicinarsi alla persona offesa”, ovvero quello di “tenere una determinata distanza dalla persona offesa”.
Come e’ stato rilevato, l’articolo 282 ter c.p.p., e’ stato introdotto contestualmente alla previsione del reato di “atti persecutori”, di cui all’articolo 612 bis c.p., che ha tra le sue manifestazioni tipiche il costante pedinamento della vittima, da parte del soggetto agente, anche in luoghi nei quali la prima si trovi occasionalmente, e l’espressione di atteggiamenti intimidatori o molesti anche in assenza di contatto fisico diretto con la persona offesa e purtuttavia dalla stessa percepibili. Proprio per ovviare a questo tipo di “persecuzione” sono state previste, dal legislatore, le particolari misure del divieto di “avvicinamento” alla persona offesa, nonche’ quello di mantenere una determinata distanza dalla persona suddetta e il divieto di comunicazione. Il contenuto di queste misure e’ funzionale alla particolare tutela di cui e’ bisognosa la persona oggetto di attenzioni sgradite e di interferenze abusive nella sua sfera di vita personale, in quanto idonee a tenere lontano l’autore delle condotte sopra specificate. La norma, in altre parole, viene incontro all’esigenza di consentire alla persona offesa il completo svolgimento della propria vita lavorativa e sociale in condizioni di serenita’ e di sicurezza, anche laddove la condotta dell’autore del reato assuma connotazioni di persistenza persecutoria slegata da particolari ambiti territoriali; con la conseguenza che e’ rispetto a tale esigenza che deve modellarsi il contenuto concreto di una misura la quale, non lo si dimentichi, ha comunque natura inevitabilmente coercitiva rispetto a liberta’ anche fondamentali dell’indagato (in questo senso si e’ gia’ espressa la sez. quinta di questa Corte, con le sentenze nn. 13568 del 16/1/2012; n. 36887 del 16/1/2013; n. 19552 del 26/3/2013).
Peraltro, il divieto di avvicinamento alla persona offesa e il divieto di comunicazione, ovvero quello di tenere una determinata distanza da lei, non hanno affatto (contrariamente al divieto di stare lontano dai “luoghi” frequentati dalla persona offesa, a meno che l’espressione non venga interpretata come divieto di stare lontano dalla persona offesa puramente e semplicemente) un contenuto generico o indeterminato, come talvolta si e’ sostenuto, pure in dottrina, perche’ rimandano ad un comportamento specifico, chiaramente individuabile: quello di non ricercare contatti, di qualsiasi natura, con la persona offesa; e quindi di non avvicinarsi fisicamente alla persona suddetta, di non rivolgersi a lei con la parola o con lo scritto, di non telefonarle, di non inviarle SMS, di non guardarla (quando lo sguardo assume la funzione di esprimere sentimenti e stati d’animo): insomma, di non fare tutto cio’ che lo “stolker” e’ solito fare e che i soggetti appartenenti alla detta categoria comprendono benissimo. Peraltro, la sfera di liberta’ del prevenuto non e’ affatto compressa, con le misure suddette, in maniera indefinita o eccessiva, ma solo nella misura strettamente necessaria alla tutela della vittima, poiche’ si risolve nel rapporto interpersonale tra due soggetti; e quindi rappresenta la misura di minima invadenza, alternativa ad altre, pure previste dall’ordinamento (anche per far fronte alle situazioni contemplate dall’articolo 612 bis c.p.), che agiscono direttamente sulla persona e sulla sua liberta’ di locomozione. E non e’ nemmeno idonea a determinare violazioni involontarie delle prescrizioni giudiziali, rimanendo esclusi dall’ambito di rilievo penale gli eventuali, occasionali e non prevedibili incontri che non si traducano in alcun tipo di contatto molesto, dovendosi apprezzare, ai fini della valutazione del rispetto della misura, anche l’elemento soggettivo.
4.2. In definitiva, tenuto conto delle puntualizzazioni sopra esposte, corretta, e non contrastante con l’orientamento espresso dalla Sez. 6 – sopra richiamato – appare la conclusione cui e’ giunta questa Corte fin dalle prime applicazioni della norma, allorche’ ha affermato che l’articolo 282 ter c.p.p., “ha assunto una dimensione articolata in piu’ fattispecie applicative, graduate in base alle esigenze di cautela del caso concreto. L’originaria indicazione dei luoghi determinati frequentati dalla persona offesa rimane invero significativa nel caso in cui le modalita’ della condotta criminosa non manifestino un campo d’azione che esuli dai luoghi nei quali la vittima trascorra una parte apprezzabile del proprio tempo o costituiscano punti di riferimento della propria quotidianita’ di vita, quali quelli indicati dall’articolo 282 bis c.p.p., nel luogo di lavoro o di domicilio della famiglia di provenienza. Laddove viceversa, ed e’ situazione come si e’ detto ricorrente per il reato di cui all’articolo 612 bis c.p., la condotta oggetto della temuta reiterazione abbia i connotati della persistente ed invasiva ricerca di contatto con la vittima in qualsiasi luogo in cui la stessa si trovi, e’ prevista la possibilita’ di individuare la stessa persona offesa, e non i luoghi da essa frequentati, come riferimento centrale del divieto di avvicinamento. Ed in tal caso diviene irrilevante l’individuazione di luoghi di abituale frequentazione della vittima; dimensione essenziale della misura e’ invero a questo punto il divieto di avvicinamento a quest’ultima nel corso della sua vita quotidiana ovunque essa si svolga. La predeterminazione dei luoghi di cui sopra risulterebbe del resto, nella situazione descritta, chiaramente dissonante con le finalita’ della misura, per come in precedenza delineate. Detta predeterminazione verrebbe di fatto a porsi come un’inammissibile limitazione del libero svolgimento della vita sociale della persona offesa, che viceversa costituisce precipuo oggetto di tutela della norma. La vittima si vedrebbe invero costretta a contenere la propria liberta’ di movimento nell’ambito dei luoghi indicati ovvero ad essere esposta, esorbitando dagli stessi, a quella condizione di pericolo per la propria incolumita’ che si presuppone essere stato riconosciuta sussistente anche al di fuori del perimetro della ricorrente frequentazione della persona offesa” (Cass., n. 13568 del 16/1/2012).
E’ compito del giudice del merito, pertanto, stabilire, in base alle concrete connotazioni assunte dalla condotta invasiva dell’agente, stabilire se questi debba tenersi lontano da luoghi determinati – in questo caso da indicare specificamente – ovvero se debba tenersi lontano, puramente e semplicemente, dalla persona offesa; e se una siffatta prescrizione debba essere accompagnata dal divieto di comunicare, anche con mezzi tecnici, con quest’ultima.
4.3. Alla luce di tali criteri va ritenuta eccessivamente generica la misura applicata a (OMISSIS), allorche’ prescrive a quest’ultimo di non avvicinarsi “ai luoghi frequentati da (OMISSIS)”, in quanto i luoghi – intesi come porzioni di territorio della Repubblica – vanno specificamente individuati, con conseguente annullamento dell’ordinanza. Sara’ compito del giudice di rinvio accertare se, oltre ai comuni di (OMISSIS) e (OMISSIS), vi siano altri “luoghi” che, per le esigenze di tutela dalla vittima, vanno interdetti al prevenuto, ferma la possibilita’ di applicare a quest’ultimo un generale divieto di avvicinamento alla ex compagna. Non vi e’ necessita’ di disporre il rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia della Comunita’ Europea – richiesto dal Pubblico Ministero d’udienza – per l’interpretazione dell’articolo 5, lettera C), della Direttiva 2011/99 UE del 13 dicembre 2011, sia perche’ la direttiva suddetta stabilisce le norme che permettono all’autorita’ giudiziaria o equivalente di uno Stato membro (in cui e’ stata adottata una misura di protezione volta a proteggere una persona da atti di rilevanza penale di un’altra persona, tali da metterne in pericolo la vita, l’integrita’ fisica o psichica, la dignita’, la liberta’ personale o l’integrita’ sessuale) di emettere un ordine di protezione Europeo (articolo 1 della Direttiva), di cui non e’ stata intravista la necessita’ nella specie, sia perche’ la lettera c) dell’articolo 5 si riferisce alla possibilita’ di regolamentare “l’avvicinamento alla persona protetta entro un perimetro definito”, ma non esclude affatto un generale divieto di avvicinamento alla persona offesa. Non vi sono dubbi – pertanto – quanto alla corretta interpretazione della norma di diritto di cui trattasi.
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