SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE
SEZIONE V
sentenza 18 gennaio 2016, n. 1804
Ritenuto in fatto
1. Il 19/03/2015, il Tribunale del riesame di Lecce riformava parzialmente l’ordinanza emessa in data 13/02/2015 dal Gip dello stesso Tribunale, in forza della quale era stata disposta a carico di M.S. la misura cautelare degli arresti domiciliari quale partecipe di una associazione per delinquere operante nel settore del gioco d’azzardo e della distribuzione di dispositivi per l’intrattenimento presso esercizi pubblici [capo o)]. L’attività del gruppo criminale riguardava, in particolare, la commercializzazione e l’installazione di congegni per il gioco, anche in forme vietate, e/o mediante accesso a servizi offerti da soggetti privi della necessaria concessione della competente autorità amministrativa; detti apparati, in gran parte del tipo “totem”, risultavano predisposti per il funzionamento attraverso schede:
– in taluni casi, apparentemente uniformi a modelli omologati, ma in realtà alterate attraverso la previsione di un meccanismo di interruzione parziale del flusso di comunicazione dei volumi di gioco sottoposti a prelievo fiscale;
– in altri, riproducenti giochi contenuti in dispositivi omologati da terzi, e quindi tali da consentire il gioco senza collegamento alcuno alla rete telematica, in evasione totale del prelievo fiscale.
All’indagato, cui erano addebitati anche reati ex artt. 640-ter cod. pen. [capo p)] e 4, commi 1 e 4, della legge n. 401/1989, 718 e 719 cod. pen. [capo r)], veniva ascritto un ruolo di venditore delle schede di gioco contraffatte, e di installatore presso vari esercizi commerciali delle apparecchiature “totem”, strumentali al gioco d’azzardo illegale.
Il Tribunale, confermata la sussistenza di gravi indizi di colpevolezza a carico del M. quanto ai reati sub o) e p) – nonché per il capo r), pur non rientrando tale ipotesi fra quelle sottese al titolo custodiale in ragione dei relativi limiti edittali di pena -, sostituiva gli arresti domiciliari in atto con la diversa misura dell’obbligo di presentazione quotidiano presso la Stazione dei Carabinieri territorialmente competente. Il collegio sottolineava come i fatti contestati all’indagato risalissero ad epoca compresa tra il marzo 2011 e l’aprile 2013, con un conseguente intervallo temporale – rispetto all’adozione del provvedimento de libertate – di circa due anni: tale circostanza, indicativa di un “proporzionale affievolimento delle esigenze di cautela”, portava alla conclusione dell’adeguatezza di una misura di minor rigore, dovendosi anche considerare il ruolo “non particolarmente rilevante” del M. all’interno delle dinamiche associative.
2. Avverso l’ordinanza indicata in epigrafe propone ricorso per cassazione la difesa del M. , che deduce:
– violazione di legge processuale e carenze motivazionali con riguardo alle operazioni di intercettazione compiute nel corso delle indagini preliminari.
Il Gip, nel provvedimento emesso in data 24/06/2011 con il quale erano state autorizzate le attività di captazione, si era riferito ad un procedimento (n. 12606/08 R.G.N.R.) dove erano state già acquisite intercettazioni, ma certamente diverso da quello in corso a carico (anche) del M. , che recava il n. 3219/11: i risultati di quelle prime intercettazioni erano stati quindi utilizzati senza che il fascicolo de quo fosse presente in atti. In definitiva, la motivazione del primo decreto autorizzativo era stata fondata su atti non versati nel carteggio; i decreti successivi, che si basavano comunque sui risultati delle prime intercettazioni, avrebbero dovuto considerarsi parimenti nulli.
Il Tribunale di Lecce risulta aver rigettato l’eccezione, sollevata con i motivi di gravame, richiamandosi ad una pronuncia di legittimità che tuttavia non può considerarsi pertinente (giacché relativa alla diversa problematica delle richieste di misure cautelari): rimane pertanto pacifico che il giudicante non lesse, perché non ebbe la possibilità materiale di farlo, “le intercettazioni di altro procedimento cui si riferì per autorizzare le intercettazioni in questo”. Analogamente è accaduto, peraltro, sia dinanzi al Tribunale che in occasione del presente giudizio di legittimità, in quanto il Pubblico Ministero non ha ritenuto, né all’esito della richiesta di riesame né dopo l’odierno ricorso, di allegare le intercettazioni telefoniche trascritte nell’ambito del ricordato procedimento n. 12606/08.
Ciò comporterebbe, stando alla tesi difensiva, la nullità di tutti i decreti in tema di intercettazione telefonica emessi nell’ambito del presente procedimento e la conseguente inutilizzabilità dei relativi risultati; ciò in quanto, come evidenziato in precedenza, gli atti concernenti le intercettazioni disposte nel proc. n. 12606/08 (come pure degli ulteriori procc. nn. 498/09 e 5589/13 R.G.N.R.) non risultano essere stati qui depositati. Sostiene la difesa che “al fine di utilizzare i risultati delle intercettazioni telefoniche in procedimento diverso da quello nel quale esse sono state disposte, è necessario […], stante il disposto dell’art. 270 cod. proc. pen., il deposito dei verbali e delle registrazioni delle intercettazioni presso l’autorità competente per il diverso procedimento”.
Né potrebbe obiettarsi, come sostenuto dal Tribunale, che la regola formale appena ricordata vale per la fase dibattimentale e non anche per le indagini preliminari, dal momento che era stata comunque ritualmente eccepita l’assenza degli atti de quibus nel fascicolo della procedura incidentale;
– inosservanza ed erronea applicazione dell’art. 416 cod. pen., nonché vizi di motivazione del provvedimento impugnato.
Secondo la difesa, i giudici di merito avrebbero dovuto registrare l’inesistenza di gravi indizi con riferimento al reato associativo, atteso che l’ipotesi accusatoria vorrebbe la struttura organizzativa del sodalizio fondata sulle dotazioni di effettive società e ditte individuali: il Tribunale non ha considerato, però, che “la costituzione di una società di capitali non può rappresentare la struttura oggettiva e organizzativa dell’associazione a delinquere”, anche in ragione della ineludibile pubblicità delle vicende di una formale persona giuridica a fronte della segretezza che dovrebbe essere sottesa ad una consorteria criminale, e soprattutto tenendo conto che nella fattispecie concreta, stando all’assunto degli inquirenti, “i ruoli rivestiti all’interno di quest’ultima corrispondono a quelli della compagine societaria”. Il presunto programma criminoso, inoltre, non sarebbe stato affatto indeterminato, ma specificamente orientato alla commissione di specifiche condotte che, quand’anche illecite, risultano essersi esaurite non appena realizzate, facendo venir meno ogni motivo di pericolo o di allarme sociale;
– inosservanza ed erronea applicazione degli artt. 640-ter e 640, comma 2, n. 1, cod. pen., nonché carenze motivazionali dell’ordinanza impugnata
Secondo il difensore del M. , “il Tribunale ha sostenuto che con l’introduzione di un abbattitore destinato ad interferire col collegamento telematico con l’A.A.M.S., si sarebbe comunicato (per via telematica) all’amministrazione un numero di giocate inferiore a quello reale, così sottraendo a tassazione parte degli incassi della macchina”; tuttavia, il meccanismo fraudolento effettivamente addebitato agli indagati, stando al tenore della rubrica, non è quello appena descritto – che riguarderebbe gli apparati di cui all’art. 110, co. 6, lett. a), del T.U.L.P.S. – bensì quello del c.d. “meccanismo della doppia scheda”, che attiene piuttosto ai macchinari previsti dall’art. 110, co. 7, lett. e), del medesimo T.U. I congegni di quest’ultimo tipo, peraltro, non debbono essere collegati a reti di trasmissione dati, diversamente da quanto ritenuto dai giudici di merito: perciò – in assenza di flussi di comunicazioni telematiche suscettibili di alterazione – anche i meccanismi di tassazione non derivano dalla quantità di giocate, rendendo così non applicabile l’ipotesi criminosa ex art. 640-ter cod. pen..
Per la stessa ragione, deve parimenti escludersi che le presunte condotte di frode siano state commesse in danno dello Stato o di altro ente pubblico, con la conseguente non ravvisabilità dell’aggravante di cui all’art. 640, co. 2, n. 1, cod. pen.: “la quantità di denaro incassata dall’Erario non dipende assolutamente dal numero delle giocate o dall’incasso della macchina, in quanto il gestore sconta l’imposta sugli intrattenimenti (ISI) in misura fissa a seconda della tipologia di gioco […]. I soggetti danneggiati dal reato potrebbero, al più, dirsi i giocatori, ma solo e soltanto laddove fosse provato che il gioco illecito non garantisse loro alcun tipo di vincita”;
– inosservanza ed erronea applicazione dell’art. 4 della legge n. 401/1989.
La difesa sottolinea innanzi tutto l’interesse dell’indagato a dolersi della ritenuta sussistenza dei gravi indizi di colpevolezza con riferimento al reato in questione (malgrado si tratti di contestazione per la quale non vi è mai stata adozione di provvedimenti de libertate), in quanto la presunta associazione per delinquere suo o) avrebbe avuto ad oggetto anche la commissione di quelle condotte illecite; condotte che, al più, avrebbero dovuto invece integrare ipotesi contravvenzionali ai sensi dell’art. 718 cod. pen., trattandosi di accesso a giochi di azzardo senza alcuna raccolta di scommesse “a distanza”.
Il Tribunale, infatti, si sarebbe limitato a dare apoditticamente per provato che i dispositivi del tipo “totem” commercializzati dalle ditte facenti capo al presunto sodalizio fossero collegati alla rete internet, senza però offrire alcuna prova (non essendovi stati concreti accertamenti sul punto) che “le macchine connesse alla rete consentivano, nel momento in cui si fosse attivato il gioco, di raccogliere su una competizione simulata o su una partita di poker, ovvero ancora su una giocata alle slot-machine, una indefinita quantità di scommesse da parte di più giocatori che avevano puntato su un particolare esito della competizione o della partita”. Al contrario, le indagini svolte avevano portato a riscontrare soltanto episodi di singoli soggetti che si intrattenevano, con un determinato apparecchio, a giocare “in solitario” contro la macchina; in particolare, non era stato provato che vi fosse stata una effettiva raccolta di scommesse su presunte corse di cavalli, visto che il consulente nominato dal P.M. si era limitato a prendere atto dell’impossibilità di accedere ai giochi offerti dal dispositivo esaminato, in assenza di una validazione da effettuare mediante connessione ad internet. Nell’interesse del M. si fa presente che il c.t., in pratica, “non ha potuto provare i giochi contenuti nel congegno, pertanto non è stato in grado di descrivere gli stessi nemmeno nelle regole fondamentali, al fine di accertare che la tipologia dei giochi fosse quella dei giochi vietati, avendo limitato la propria indagine solo alla prima schermata statica di uno dei giochi, senza fornire all’accusa la prova che tale schermata fosse l’inizio del programma che riproduceva nelle sue regole fondamentali il gioco di un videopoker e che avesse insito in sé il fine di lucro”;
– inosservanza ed erronea applicazione di legge penale, nonché mancanza e manifesta illogicità della motivazione, in ordine ai ritenuti elementi individualizzanti circa la partecipazione del ricorrente all’ipotizzata associazione per delinquere.
Il Tribunale del riesame non avrebbe considerato che il M. collaborava con diversi imprenditori nel settore dei videogiochi, intessendo relazioni di carattere lavorativo con più soggetti (fra questi, anche taluno in rapporto di concorrenza rispetto ai presunti vertici del sodalizio descritto in rubrica): le attività prestate dal ricorrente all’interno della compagine associative, oltre che del tutto marginali, si sarebbero comunque concentrate nel solo periodo luglio 2011 – luglio 2012.
Considerato in diritto
1. Il ricorso non può trovare accoglimento.
1.1 Quanto al primo motivo, è comunque evidente che nella fattispecie concreta non si pongono problemi di utilizzazione probatoria del contenuto di intercettazioni eseguite in altro procedimento, ma ci si trova dinanzi a notitiae criminis che da altro procedimento provengono, e nel quale risultano acquisite a seguito di intercettazioni. Tali notizie di reato, trasfuse in una informativa curata dalla polizia giudiziaria e richiamata sia nell’ordinanza impugnata che negli scritti difensivi, costituiscono pertanto il presupposto, nell’ambito del presente – ed altro, rispetto al precedente – procedimento, per nuove e del tutto autonome intercettazioni: una situazione, in definitiva, in nulla difforme da quella, assolutamente ordinaria, in cui la polizia giudiziaria richiede, all’esito di indagini già svolte, di sottoporre alcuni telefoni ad intercettazione o di dare corso alla captazione di comunicazioni fra presenti.
In ogni caso, e ad abundantiam, qualora si ritenesse di dover applicare al caso in esame le previsioni di cui all’art. 270 cod. proc. pen. (il che, per le ragioni esposte, è invece da escludere), deve ricordarsi che “in tema di intercettazioni disposte in altro procedimento, l’omesso deposito degli atti relativi, ivi compresi i nastri di registrazione, presso l’autorità competente per il diverso procedimento, non ne determina l’inutilizzabilità, in quanto detta sanzione non è prevista dall’art. 270 cod. proc. pen. e non rientra nel novero di quelle di cui all’art. 271 cod. proc. pen. aventi carattere tassativo.; detto principio conserva la sua validità anche a seguito della sentenza della Corte costituzionale n. 336 del 2008 che – dichiarando l’illegittimità costituzionale, in riferimento agli art. 3, 24, comma secondo, 111 Cost., dell’art. 268 cod. proc. pen., nella parte in cui non prevede che, dopo la notificazione o l’esecuzione dell’ordinanza che dispone una misura cautelare personale, il difensore possa ottenere la trasposizione su nastro magnetico delle registrazioni di conversazioni o comunicazioni intercettate, utilizzate ai fini dell’adozione del provvedimento cautelare, anche se non depositate – amplia i diritti della difesa, incidendo sulle forme e sulle modalità di deposito delle bobine, ma senza incidere sul regime delle sanzioni processuali in materia di inutilizzabilità delle intercettazioni di cui all’art. 271 cod. proc. pen.” (Cass., Sez. V, n. 14783 del 13/03/2009, Badescu, Rv 243609).
per consolidata giurisprudenza, del resto, “ai fini dell’utilizzabilità degli esiti di intercettazioni di conversazioni o comunicazioni in procedimento diverso da quello nel quale esse furono disposte, non occorre la produzione del relativo decreto autorizzativo, essendo sufficiente il deposito, presso l’autorità giudiziaria competente per il “diverso” procedimento, dei verbali e delle registrazioni delle intercettazioni medesime” (Cass., Sez. U, n. 45189 del 17/11/2004, Esposito, Rv 229244; v. anche, nello stesso senso, Cass., Sez. I, n. 19791 del 06/02/2015, Alberti). Né il giudice del procedimento, diverso da quello nel quale le intercettazioni furono autorizzate, è tenuto a rilevare l’inutilizzabilità dei relativi risultati, per violazione degli artt. 267 o 268 del codice di rito, gravando invece sulla parte interessata a farla valere l’onere di allegare e provare il fatto dal quale dipende l’eccepita inutilizzabilità, sulla base di copia degli atti rilevanti del procedimento originario che la parte stessa ha diritto di ottenere, a tal fine, in applicazione dell’art. 116 cod. proc. pen.
Deve anche aggiungersi che la non necessarietà di alcun deposito ex art. 270 cod. proc. pen. discende proprio dall’influire le risultanze dell’intercettazione del procedimento a quo sulle autorizzazioni del procedimento ad quem come mero presupposto di fatto, incidente sulla motivazione dei successivi, autonomi provvedimenti autorizzativi solo sotto il profilo della loro rilevanza ai fini della verifica dei gravi indizi di reato, richiesta dall’art. 267 dello stesso codice (v. Cass., Sez. II, n. 30815 del 26 aprile 2012, Parisi): il che, in definitiva, conferma l’assunto iniziale secondo cui, nel caso oggi sub judice, non si pone alcun problema di rapporto fra procedimenti diversi e di conseguenti implicazioni in punto di utilizzabilità delle intercettazioni disposte in quello precedente.
1.2 Quanto al delitto di frode informatica, le censure mosse dalla difesa appaiono inammissibili per genericità, costituendo mera iterazione delle identiche doglianze già mosse dinanzi al Tribunale del riesame e puntualmente confutate nell’ordinanza impugnata, senza che il ricorrente abbia inteso confrontarsi con le argomentazioni sviluppate dai giudici di merito per disattenderne le tesi (qui apoditticamente riproposte). In particolare, quanto alla piena ravvisabilità del reato di cui all’art. 640-ter cod. pen. con riguardo sia a dispositivi a premi – ex art. 110, comma 6, lett. a), T.U.L.P.S. – che a dispositivi da intrattenimento per i quali sia esclusa la possibilità di vincite – ex art. 110, comma 7, lett. c), T.U.L.P.S. – l’ordinanza oggetto di ricorso ha diffusamente richiamato le indicazioni della costante giurisprudenza di questa Corte (v. pagg. 9 e 10): indicazioni certamente applicabili al caso di specie, laddove risulta accertata la fraudolenta modificazione e commercializzazione di dispositivi elettronici che consentivano la creazione di una “doppia contabilità”.
Né può sussistere dubbio sulla individuazione dell’Erario quale soggetto passivo, atteso che “in tema di imposte sui redditi, costituiscono reddito imponibile i ricavi del gioco d’azzardo, i quali sono riconducibili alla categoria delle vincite dei giochi e delle scommesse prevista dall’art. 81, lettera d), del d.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, e devono quindi considerarsi assoggettati a tassazione ai sensi del successivo art. 83, anche in epoca anteriore all’entrata in vigore dell’art. 14, comma quarto, della legge 24 dicembre 1993, n. 537, il quale, nella parte in cui stabilisce che nelle categorie di reddito di cui all’art. 6, comma primo, del d.P.R. n. 917 del 1986 devono intendersi ricompresi, ove classificabili in tali categorie, i proventi derivanti da fatti, atti o attività qualificabili come illecito civile, penale o amministrativo (se non già sottoposti a sequestro o confisca penale), costituisce interpretazione autentica della normativa contenuta nel d.P.R. n. 917 del 1986” (Cass. Civ., Sez. V, n. 16504 del 19/07/2006, Rv 592080).
1.3 Certamente inammissibile appare altresì il motivo di ricorso della difesa afferente la presunta mancanza di gravi indizi di colpevolezza a proposito del reato di cui all’art. 4 della legge n. 401/1989: a dispetto del prospettato interesse a contestare la ravvisabilità dei delitti ipotizzati (perché assunti quali reati fine di una associazione ex art. 416 cod. pen. ritenuta pur sempre configurabile), una eventuale pronuncia di questa Corte favorevole alla ricostruzione difensiva dovrebbe comunque portare all’annullamento di un capo dell’ordinanza custodiale genetica che non risulta essere mai esistito.
In ogni caso, alle pagg. 13 e 14 della relativa motivazione, l’ordinanza impugnata risulta avere già chiarito che nel caso di specie non vi è alcuna possibilità di ravvisare meri illeciti contravvenzionali, al di là di quanto sottolineato dalla difesa in punto di carenza degli accertamenti compiuti sulle caratteristiche dei dispositivi; infatti, il Tribunale di Lecce evidenzia che, nel corso di intercettazioni telefoniche, più di un sodale si era manifestato pienamente consapevole della illiceità dei “totem” proprio perché tali apparati consentivano raccolte di scommesse.
1.4 Quanto infine alla ritenuta sussistenza del reato associativo, il Tribunale di Lecce ha correttamente posto in risalto la sistematica dedizione del gruppo di cui faceva parte il M. alla commercializzazione di “dispositivi elettronici le cui schede erano state fraudolentemente modificate mediante l’inserimento del c.d. abbattitore, cioè di quel particolare meccanismo che, interrompendo il flusso dei dati alla competente A.A.M.S., determina un fraudolento ridimensionamento dell’ammontare complessivo delle giocate per singolo apparecchio, con conseguente abbattimento del relativo prelievo fiscale” (v. pag. 16). Il risultato che ne derivava era “la creazione di una doppia contabilità, una reale ed effettiva, utilizzata per la ripartizione degli utili tra i soggetti privati interessati (proprietario, noleggiatore ed esercente) ed una fittizia (più modesta) destinata al Fisco”. Né può affermarsi che la struttura del sodalizio fosse sovrapponibile a quella di una società regolarmente costituita ed operante sul mercato, atteso che l’associazione descritta in rubrica operava – come si evince dallo stesso tenore letterale del capo d’imputazione – dietro lo schermo di più soggetti giuridici.
Con specifico riguardo alla posizione del M. , i documentati rapporti fra l’indagato ed altri membri del gruppo (emersi dalle intercettazioni richiamate dai giudici di merito) appaiono ragionevolmente valorizzati nell’ordinanza impugnata ai fini della conferma della gravità del quadro indiziario e della piena consapevolezza da parte del ricorrente in ordine alla fraudolenta alterazione delle schede commercializzate. La durata del rapporto intercorso fra l’indagato e gli altri sodali, indicata dalla stessa difesa in circa un anno, esclude del resto l’occasionalità delle condotte illecite poste in essere.
2. Il rigetto del ricorso comporta la condanna del M. al pagamento delle spese del presente giudizio di legittimità.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso, e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.
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