La massima
SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE
SEZIONE V
SENTENZA 1 marzo 2013, n.9847
Fatto e diritto
Propone ricorso per cassazione B.M. avverso la sentenza della Corte d’appello di Caltanissetta in data 31 gennaio 2012 con la quale è stata confermata quella di primo grado, di condanna in ordine ai reati di violazione di domicilio, porto abusivo di due coltelli, ingiuria e minaccia, commessi il 21 luglio 2006 ai danni di N.E. e S.A.
Con l’unico motivo di ricorso deduce la violazione di legge (articoli 85, 88, 89 c.p. nonché 125 c.p.p.) in relazione all’omesso riconoscimento, in suo favore, dell’incapacità di intendere di volere nella forma totale o parziale.
Evidenzia che agli atti del processo risultano acquisite due perizie: una prima (eseguita dal Dott. V., su incarico del Gip, a ridosso dei fatti per i quali è processo) che aveva concluso con la rilevazione, a carico dell’imputato, di una condizione borderline ossia una “malattia psichica” a cavallo tra la nevrosi e la psicosi. Tale perito aveva, invero, anche affermato che la capacità di intendere di volere del periziato, al momento in cui furono commessi fatti, era verosimilmente abolita per gli effetti che le sostanze stupefacenti da esso assunte, avevano determinato.
Una seconda perizia, su incarico del Tribunale di Gela, era stata eseguita tre anni dopo la prima, nel 2009.
Anche tale perito, dottor B. aveva rilevato un disturbo di personalità di tipo borderline in soggetto con pregresso abuso di sostanze stupefacenti.
Aveva tuttavia aggiunto che tali sostanze, produttive di effetti limitati nel tempo in un soggetto che non ne risultava dipendente, doveva ritenersi fossero state assunte in forma del tutto volontaria ed era anche possibile affermare che i fatti di reato in contestazione fossero stati commessi sotto l’effetto dell’LSD.
Ciò posto, rilevava il difensore di avere già argomentato dinanzi al giudice dell’appello come la tesi del primo perito fosse quella da preferire, avendo quella attribuito la commissione del fatto ad un soggetto affetto da patologia psichica, indipendentemente dall’uso di sostanze stupefacenti: e ciò sul rilievo che la giurisprudenza di legittimità riconosce al disturbo di personalità la possibile qualità infermità psichica, sulla base della sua intensità e gravità.
Denuncia oggi, la stessa difesa, che la Corte d’appello ha ritenuto di poter confermare la decisione del primo giudice ricomponendo in maniera autonoma le conclusioni dei due periti e ritenendole – con motivazione però manifestamente illogica – non difformi l’una dall’altra.
In sostanza, la difesa critica la decisione della Corte d’appello consistita nell’aver ritenuto -diversamente dal primo giudice e comunque in contrasto con la giurisprudenza di legittimità – non decisiva la condizione borderline.
Secondo la difesa, cioè, la Corte d’appello non avrebbe dovuto arrestarsi alla affermazione che gli atti erano stati commessi da soggetto indotto, dall’uso di droghe, in stato di incapacità di intendere e di volere, mentre si sarebbe dovuto adeguatamente valorizzare anche il pregresso stato di malattia psichica.
Il ricorso è infondato e deve essere rigettato.
Non sono qui in discussione i principi di diritto evocati dalla difesa nel ricorso, tutti tesi a riconoscere che in tema di imputabilità, ai fini del riconoscimento del vizio totale o parziale di mente, i disturbi della personalità possono rientrare nel concetto di infermità, purché siano di consistenza, intensità e gravità tali da incidere concretamente sulla capacità di intendere e di volere dell’autore del reato, e a condizione che sussista un nesso eziologico per effetto del quale il fatto di reato possa ritenersi causalmente determinato dal disturbo mentale (Rv. 245253; Conformi: N. 1038 del 2006 Rv. 233278, N. 8282 del 2006 Rv. 233228, N. 2774 del 2009 Rv., 242710; Sez. U, Sentenza n. 9163 del 25/01/2005 Ud. (dep. 08/03/2005) Rv. 230317).
Ed infatti, nella sentenza impugnata si sostiene, in maniera argomentata, che il primo perito si era limitato a rilevare che la condizione psichica borderline riconoscibile in capo all’imputato non era la causa diretta ed immediata dei fatti per i quali è processo posto che la effettiva determinazione causale era da ricondurre, piuttosto, all’assunzione delle sostanze stupefacenti del tipo LSD che avevano, esse sì, abolito la capacità di intendere di volere dell’imputato per un periodo di tempo circoscritto a poche ore e coincidente con quello in cui erano stati commessi reati.
In altri termini, secondo la conclusione motivatamente raggiunta dal giudice dell’appello, desunta da entrambe le perizie, la condizione borderline non era di intensità tale da far configurare una causa autonoma di esclusione della capacità di intendere di volere, essendo stata solo “slatentizzata”, e per un periodo di tempo circoscritto, dalla successiva assunzione delle anfetamine. Ed infatti lo stesso dottor V. aveva anche aggiunto di avere verificato che le analisi cui aveva sottoposto l’imputato ne avevano dimostrato l’assenza di dipendenza da sostanze stupefacenti, tanto da poter concludere, appunto, che la capacità di intendere di volere era rimasta esclusa per l’effetto delle sostanze stupefacenti medesime.
Queste, secondo lo stesso perito, erano all’origine della trasformazione della condizione borderline – in sé capace di indurre nell’imputato una semplice nevrosi – in una vera propria condizione psicologica nella quale è esclusa la capacità di intendere di volere.
Tale conclusione era, come dimostrato, concorde con quella del secondo perito dottor B.
A costui si doveva infatti la analoga affermazione del riconoscimento, in capo all’imputato, di una condizione borderline non particolarmente intensa e grave e dunque non idonea a costituire infermità mentale.
Il ragionamento esibito dal giudice dell’appello risulta, come è evidente, del tutto logico e plausibile e non è dunque ulteriormente censurabile nella presente sede, dovendosi ritenere congruamente motivata la tesi del avere, l’imputato, commesso i reati che gli sono stati contestati dopo avere assunto consapevolmente e volontariamente sostanze stupefacenti che non escludevano, dunque ne diminuivano l’imputabilità, secondo gli scherni degli articoli 93 e 92 primo comma cp.
P.Q.M.
rigetta il ricorso a condanna il ricorrente al pagamento delle spese del procedimento.
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