Suprema Corte di Cassazione
sezione tributaria
sentenza 5 settembre 2014, n. 18767
Svolgimento del processo
1. A seguito di processo verbale di constatazione della Guardia di Finanza, veniva notificato alla Diotronic Europe s.r.l., un avviso di accertamento, con il quale l’Ufficio recuperava a tassazione l’IVA indebitamente detratta, per l’anno di imposta 2002, su fatture ritenute dall’Amministrazione inerenti ad operazioni soggettivamente inesistenti.
2. L’atto impositivo veniva impugnato dalla contribuente dinanzi alla CTP di Torino, che respingeva il ricorso.
3. Il gravame proposto dalla Diotronic Europe s.r.l. veniva, peraltro, accolto dalla CTR del Piemonte con sentenza n. 36/33/2006, depositata il 20.12.2006, con la quale il giudice di appello – in riforma della decisione di prime cure – riteneva non comprovata la pretesa tributaria dell’Amministrazione finanziaria, difettando la dimostrazione della partecipazione della società all’attività fraudolenta posta in essere dalle pretese ditte “cartiere”.
4. Per la cassazione della sentenza n. 36/33/2006 ha, quindi, proposto ricorso l’Agenzia delle entrate affidato a cinque motivi. La resistente ha replicato con controricorso.
Motivi della decisione
1. Con i primi tre motivi di ricorso – che, per la loro palese connessione, vanno esaminati congiuntamente l’Agenzia delle entrate denuncia la violazione o falsa applicazione del D.P.R. n. 633 del 1972, artt. 21 e 54 e artt. 2697 e 2729 c.c., art. 17 della 6 Direttiva n. 77/388/CE, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5.
1.1. In presenza di elementi oggettivi di prova forniti dall’Amministrazione finanziaria, concernenti la totale mancanza, presso le società pretese importatrici ed apparenti fornitrici alla Diotronic Europe s.r.l., della merce oggetto delle fatture ritenute soggettivamente inesistenti, di strutture organizzative idonee al compimento di tali forniture, ed in presenza di ammissioni dell’amministratore della società contribuente circa la conoscenza del comportamento scorretto delle società importatrici, avrebbe, invero, errato la CTR nel non ritenere che costituisse onere della contribuente comprovare la legittimità e correttezza delle operazioni in contestazione. Ed a fronte della constatata mancanza di tale elementi di prova di segno contrario, il giudice di seconde cure avrebbe dovuto correttamente escludere il diritto della contribuente alla detrazione, in relazione alle operazioni contestate dall’Ufficio.
1.2. Sarebbe, inoltre, errata l’impugnata sentenza, laddove il giudice di appello ha ritenuto che il ricorso, da parte dell’Ufficio, ad elementi presuntivi, ai sensi del D.P.R. n. 633 del 1972, art. 54, comma 2, fosse, nella specie, impedito dal fatto che l’ispezione contabile aveva dato luogo solo a rilievi “di piccolissimo conto”. Ad avviso della CTR, infatti, la rettifica della dichiarazione IVA senza previa ispezione della contabilità sarebbe consentita, ai sensi del comma terzo della medesima disposizione, solo se “l’esistenza di operazioni imponibili o l’inesattezza delle indicazioni che hanno dato luogo a detrazioni risulti in modo certo e diretto e non in via presuntiva”.
Per contro, a parere dell’Agenzia delle entrate, in frodi come quelle concernenti operazioni soggettivamente inesistenti, la regolarità contabile delle operazioni in relazione alle quali la contribuente aveva effettuato detrazioni rientrerebbe nello schema stesso del modello di frode posto in essere, mentre il fatto che le fatture documentavano una transazione commerciale non avvenuta tra i soggetti in esse indicate non potrebbe che risultare da elementi presuntivi extracontabili.
1.3. Le censure suesposte sono fondate.
1.3.1. Osserva – per vero – la Corte che, in ipotesi di fatture che l’Ufficio ritenga relative ad operazioni oggettivamente, o anche solo soggettivamente, inesistenti, o che – ancorchè effettivamente poste in essere – si iscrivono in combinazioni negoziali fraudolente ai danni del fisco, l’Amministrazione stessa ha l’onere di provare che l’operazione commerciale oggetto della fattura non è stata posta in essere, o non lo è stata tra i soggetti che figurano nella fattura, o che tale documento sottende un’operazione fraudolenta cui il cessionario sia partecipe. E non può revocarsi in dubbio che – al contrario di quanto ritenuto, nella specie, dal giudice di appello – tale prova possa essere fornita anche mediante presunzioni, come espressamente prevede, per l’IVA, il D.P.R. n. 633 del 1972, art. 54, comma 2, (analoga previsione è contenuta, per le imposte dirette, nel D.P.R. n. 600 del 1973, art. 39, comma 1, lett. d)) (cfr. Cass. nn. 21953/2007, che fa riferimento alla possibilità che l’amministrazione produca elementi anche indiziari, a sostegno della pretesa fiscale azionata; 9108/2012; 15741/2012, in motivazione;
23560/2012; 27718/2013; nello stesso senso C. Giust. 6.7.2006, C- 439/04; 21.2.2006, C-255/02; 21.6.2012, C-80/11; 6.12.2012, C-285/11;
31.1.2013, C-642/11).
1.3.2. Con specifico riferimento, poi, all’ipotesi delle operazioni soggettivamente inesistenti, la Corte europea ha, da ultimo, ribadito che se – tenuto conto di evasioni o irregolarità commesse dall’emittente della fattura, o comunque a monte dell’operazione dedotta a fondamento del diritto alla detrazione – tale operazione è considerata come non effettivamente realizzata, si deve dimostrare, alla luce di elementi oggettivi ed alla stregua dei principi sull’onere della prova vigenti nello Stato membro, senza, peraltro, esigere dal destinatario della fattura verifiche (circa la qualità di soggetto passivo IVA in capo al fatturante, o la disponibilità dei beni di cui trattasi) alle quali non è tenuto, che tale destinatario sapeva o avrebbe dovuto sapere che detta operazione si inseriva nel quadro di un’evasione dell’imposta sul valore aggiunto;
circostanza, questa, che – secondo la Corte di Lussemburgo – spetta al giudice del rinvio verificare (C. Giust. 6.12.2012, cit.;
31.1.2013, cit.).
1.3.3. Nel medesimo ordine di idee, questa Corte ha rilevato, al riguardo, che la prova, fornita dall’Amministrazione, che la prestazione non è stata effettivamente resa dal fatturante, perchè sfornito della, sia pur minima, dotazione personale e strumentale adeguata alla sua esecuzione, costituisce di per sè, per la sua pregnanza dimostrativa, idoneo elemento sintomatico dell’assenza di “buona fede” del contribuente. L’immediatezza dei rapporti (cedente o prestatore – fatturante – cessionario o committente) induce, invero, ragionevolmente ad escludere in via presuntiva – a fronte di una conclamata inidoneità allo svolgimento dell’attività economica – l’ignoranza incolpevole del cessionario o committente circa l’avvenuto versamento dell’IVA a soggetto non legittimato alla rivalsa, nè assoggettato all’obbligo del pagamento dell’imposta. In tal caso, sarà – di conseguenza – il contribuente a dover provare, in applicazione di principi ordinari sull’onere della prova vigenti nel nostro ordinamento (art. 2697 c.c.), di non essere a conoscenza del fatto che il fornitore effettivo del bene o della prestazione era, non il fatturante, ma altri, dovendosi altrimenti negare il diritto alla detrazione dell’IVA versata (Cass. n. 6229/2013).
1.3.4. Ed invero, come questa Corte ha più volte affermato, qualora l’Amministrazione contesti al contribuente – come nel caso di specie – l’indebita detrazione di fatture, in quanto relative ad operazioni inesistenti, e fornisca attendibili riscontri indiziari sull’inesistenza delle operazioni fatturate, ricade sul contribuente medesimo l’onere di dimostrare la fonte legittima della detrazione, altrimenti non operabile. Il cessionario, in particolare, ha l’onere di dimostrare almeno, anche in via alternativa, di non essersi trovato nella situazione giuridica oggettiva di conoscibilità delle operazioni pregresse intercorse tra il cedente ed il fatturante in ordine al bene ceduto, oppure, nonostante il possesso della capacità cognitiva adeguata all’attività professionale svolta in occasione dell’operazione contestata, di non essere stato in grado di abbandonare lo stato di ignoranza sul carattere fraudolento delle operazioni degli altri soggetti coinvolti nell’evasione (Cass. nn. 8132/2011; 23074/2012).
1.3.5. A tal fine, per le ragioni suesposte, non è – tuttavia – sufficiente dedurre, da parte del contribuente, che la merce sia stata consegnata e la fattura, IVA compresa, sia stata effettivamente pagata, trattandosi di circostanze pienamente compatibili con il modello di frode fiscale, posto in essere mediante un’operazione soggettivamente inesistente (Cass. nn. 17377/2009; 230744/2012). E tanto meno può considerarsi sufficiente la dimostrazione della regolarità formale delle scritture o le evidenze contabili dei pagamenti, in quanto si tratta – com’è del tutto evidente – di dati e circostanze facilmente falsificabili dal contribuente (cfr. Cass. nn. 1950/2007; 12802/2011).
1.3.6. Tanto premesso in via di principio, va rilevato che, nel caso in esame, la Diotronic Europe s.r.l. aveva acquistato, nell’anno 2002, merce da società “cartiere” (in particolare dalla Salcom s.r.l. e dalla PC Plast s.r.l.), poichè prive – secondo quanto risulta dal pvc, trascritto, sul punto, a p. 7 del ricorso – di competenza gestionale e di conoscenze tecniche nel settore informatico, nonchè di adeguate strutture organizzative, e che vendevano a prezzi inferiori a quelli di acquisto. Ebbene, non può revocarsi in dubbio che tali elementi, atteso il rapporto diretto tra la contribuente e le “cartiere”, induce a ritenere per i motivi suesposti – che l’acquisto fosse stato effettuata direttamente dalla Diotronic Europe s.r.l. presso ditte operanti in ambito comunitario, e che le predette “cartiere” si siano fittiziamente interposte nelle transazioni commerciali al solo fine di consentire alla contribuente un’indebita detrazione di imposta. Tanto più che la CTR ha, altresì, accertato che dagli atti di causa era emerso che la Diotronic “era a conoscenza del comportamento scorretto delle società importatrici”.
1.3.7. A fronte di tali elementi, di indubbio spessore sul piano indiziario e presuntivo, offerti in giudizio dall’Amministrazione finanziaria, la contribuente si è, per contro, limitata ad allegare, nel controricorso, la regolarità della contabilità e dei pagamenti effettuati, nonchè l’effettiva ricezione della merce, circostanze queste del tutto irrilevanti, per le ragioni in precedenza esposte.
1.4. Le censure in esame vanno, di conseguenza, accolte.
2. Con il quarto e quinto motivo di ricorso l’Agenzia delle entrate denuncia l’insufficiente e contraddittoria motivazione su punti decisivi della controversia, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5.
2.1. In relazione alla ritenuta carenza di elementi probatori da parte dell’Ufficio, a sostegno dell’atto impositivo emesso, la motivazione dell’impugnata sentenza si paleserebbe, invero, del tutto carente, non avendo la CTR indicato in maniera esaustiva le ragioni per le quali avrebbe disatteso gli elementi presuntivi offerti dall’Amministrazione finanziaria, nonchè contraddittoria ed illogica, sul fatto relativo alla vendita sottocosto della merce relativa alle fatture in contestazione da parte delle società “cartiere”.
2.2. Le censure suesposte sono inammissibili.
2.2.1. L’Amministrazione ricorrente ha, invero, del tutto omesso di formulare un’indicazione riassuntiva e sintetica, ai sensi dell’art. 366 bis c.p.c., comma 2, (applicabile alla fattispecie ratione temporis), a tenore del quale la formulazione della censura ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 5 deve contenere un “momento di sintesi” omologo del quesito di diritto, che costituisca un quid pluris rispetto all’illustrazione del motivo operata dalla parte ricorrente (cfr., ex plurimis, Cass. 8897/08; 2652/08; Cass. S.U. 11652/08;
16528/08). E ciò anche quando l’indicazione del fatto decisivo controverso sia rilevabile dal complesso della formulata censura, o dalle sue conclusioni, attesa la “ratio” che sottende la disposizione indicata, associata alle esigenze deflattive del filtro di accesso alla Suprema Corte, la quale deve essere posta in condizione di comprendere, dalla lettura del solo quesito, quale sia l’errore commesso dal giudice di merito (Cass. n. 24255/2011).
2.2.2. Nel caso di specie, per contro, l’Agenzia delle Entrate si è limitata ad esporre le ragioni per le quali la motivazione dell’impugnata sentenza sarebbe, a suo parere, affetta dal vizio motivazionale dedotto, con la mera indicazione del fatto controverso, ma senza operare la sintesi richiesta dalla norma succitata.
2.3. Le censure in questione, pertanto, per le ragioni suesposte, non possono trovare accoglimento.
3. L’accoglimento dei primi tre motivi di ricorso comporta la cassazione dell’impugnata sentenza. Non essendo necessari ulteriori accertamenti di fatto, la Corte, nell’esercizio del potere di decisione nel merito di cui all’art. 384 c.p.c., comma 1, rigetta il ricorso introduttivo proposto dalla contribuente.
4. Le spese del presente giudizio di legittimità vanno poste a carico della resistente soccombente, nella misura di cui in dispositivo. Concorrono giusti motivi per dichiarare interamente compensate fra le parti le spese dei giudizi di merito.
P.Q.M.
La Corte Suprema di Cassazione accoglie i primi tre motivi di ricorso e dichiara inammissibili il quarto ed il quinto; cassa l’impugnata sentenza e, decidendo nel merito, rigetta il ricorso introduttivo della contribuente; condanna l’intimata alle spese del presente giudizio che liquida in Euro 7.000,00, oltre alle spese prenotate a debito; dichiara compensate tra le parti le spese dei gradi di merito.
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