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RAGIONI DELLA DECISIONE
1. L’Agenzia delle Entrate, senza articolare con precisione le doglianze in singoli distinti motivi, premette che l’articolo 20 cit. e’ la prima norma antielusiva dell’ordinamento tributario, che collega agli effetti voluti dalle parti il calcolo del valore dell’imposta, anche se non vi corrisponde il titolo o la forma apparente, con la conseguenza che la sentenza impugnata sarebbe incorsa in errore laddove negherebbe che il Fisco possa, da altri atti o circostanze, evincere che gli effetti dell’atto tassato siano diversi da quelli apparenti.
Sulla base di questa affermazione, l’Agenzia delle Entrate sostiene, in relazione all’articolo 360 c.p.c., comma 1, n. 4 (omessa pronuncia) e n. 5 (insufficiente motivazione), che il negozio realmente voluto non sia un conferimento alla societa’ ma il trasferimento della proprieta’ di un immobile a titolo oneroso.
2. Deve premettersi che, secondo quanto gia’ affermato da questa Corte, l’erronea intitolazione del motivo di ricorso per cassazione non osta alla riqualificazione della sua sussunzione in altre fattispecie di cui all’articolo 360 c.p.c., comma 1, ne’ determina l’inammissibilita’ del ricorso, se dall’articolazione del motivo sia chiaramente individuabile il tipo di vizio denunciato (Cass. 7 novembre 2017, n. 26310): nel caso di specie il ricorrente avrebbe dovuto piu’ correttamente invocare, oltre all’articolo 360 c.p.c., comma 1, n. 5 (nel testo applicabile “ratione temporis” prima della riforma del 2012) il vizio di violazione di legge di cui al n. 3 del citato articolo 360 c.p.c., comma 1; tuttavia, dalla premessa relativa all’articolo 20 e dalla globalita’ delle (sia pur scarne) argomentazioni, si evince la chiara intenzione dell’Ufficio delle entrate di denunciare anche una violazione – appunto ex articolo 360 c.p.c., comma 1, n. 3 – del Decreto del Presidente della Repubblica n. 131 del 1986, articolo 20, da parte della sentenza impugnata.
3. I due motivi cosi’ individuati possono essere congiuntamente esaminati, in quanto tra loro strettamente connessi, e sono fondati.
Deve ancora premettersi che non trova applicazione al caso di specie il nuovo testo del Decreto del Presidente della Repubblica n. 131 del 1986, articolo 20, come modificato dalla L. 27 dicembre 2017, n. 205, articolo 1, comma 87, lettera a), (Bilancio di previsione dello Stato per l’anno finanziario 2018 e bilancio pluriennale per il triennio 2018-2020) ed entrato in vigore il 1 gennaio 2018.
Tale norma, nel testo novellato, prevede che “L’imposta e’ applicata secondo la intrinseca natura e gli effetti giuridici dell’atto presentato alla registrazione, anche se non vi corrisponda il titolo o la forma apparente, sulla base degli elementi desumibili dall’atto medesimo, prescindendo da quelli extra testuali e dagli atti ad esso collegati, salvo quanto disposto dagli articoli successivi”, mentre il vecchio testo stabilisce che “L’imposta e’ applicata secondo la intrinseca natura e gli effetti giuridici degli atti presentati alla registrazione, anche se non vi corrisponda il titolo o la forma apparente”:
Non puo’ condividersi la tesi della retroattivita’ del nuovo testo dell’articolo 20 cit. in quanto gli articoli 10 e 11 disp. gen., prevedono che una norma non ha effetto retroattivo, salvo contraria espressa disposizione (Corte Cost. 193 del 2017; nello stesso senso Corte cost. n. 257 del 2017; Cass. 6 ottobre 2017, n. 23424; Cass. 30 maggio 2017, 13597), assente nel caso di specie.
Il principio di tendenziale irretroattivita’ della legge civile e’ stato affermato anche dalla Corte di Giustizia (Grande Sezione, 6 settembre 2011, C-108/10, § 83) e dalla Corte europea dei diritti dell’uomo; quest’ultima ha ricondotto tale principio all’articolo 6 della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo (Raffineries greques Stran et Stratis Andreadis c. Grecia, 9 dicembre 1994, § 37-50; Papageorgiou c. Grecia, 22 ottobre 1997, §37; Agrati c. Italia, 8 novembre 2012, §11: quest’ultima sentenza sottolinea altresi’ che una norma retroattiva si giustifica solo se obbedisce a ragioni imperative di interesse generale).
La Corte costituzionale peraltro si e’ ripetutamente espressa nel senso che “va riconosciuto carattere interpretativo alle norme che hanno il fine obiettivo di chiarire il senso di norme preesistenti ovvero di escludere o di enucleare uno dei sensi fra quelli ritenuti ragionevolmente riconducibili alla norma interpretata, allo scopo di imporre a chi e’ tenuto ad applicare la disposizione considerata un determinato significato normativo” (sentenze n. 132 del 2016 e n. 424 del 1993) ed ha altresi’ affermato che “il legislatore puo’ adottare norme di interpretazione autentica non soltanto in presenza di incertezze sull’applicazione di una disposizione o di contrasti giurisprudenziali, ma anche quando la scelta imposta dalla legge rientri tra le possibili varianti di senso del testo originario, cosi’ rendendo vincolante un significato ascrivibile ad una norma anteriore” (ex plurimis: sentenze n. 232 del 2016, n. 314 del 2013, n. 15 del 2012, n. 271 del 2011).
Tuttavia, la Consulta ha anche piu’ volte affermato che il divieto di retroattivita’ della legge, pur non essendo stato elevato a dignita’ costituzionale (salvo la previsione dell’articolo 25 Cost., per la materia penale), costituisce fondamentale valore di civilta’ giuridica, per cui, allorquando “una norma di natura interpretativa persegua lo scopo di chiarire situazioni di oggettiva incertezza del dato normativo in ragione di un dibattito giurisprudenziale irrisolto o di ristabilire un’interpretazione piu’ aderente all’originaria volonta’ del legislatore”, non e’ precluso al legislatore di emanare norme retroattive (sentenza n. 232 del 2016; n. 150 del 2015), che pero’, oltre a dover espressamente contenere come detto tale previsione di retroattivita’, deve altresi’, al fine di superare indenni il vaglio di costituzionalita’, trovare adeguata giustificazione sul piano della ragionevolezza ed essere sostenuta da adeguati motivi di interesse generale (ex multis, sentenze n. 232 del 2016, n. 69 del 2014 e n. 264 del 2012).
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