Corte di Cassazione, sezione terza civile, sentenza 24 ottobre 2017, n. 25091. Perché possa configurarsi una responsabilità che superi i limiti del massimale per mala gestio dell’assicuratore della responsabilità civile

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Oltre alla svalutazione, che ha la funzione di ripristinare la situazione patrimoniale del danneggiato antecedentemente alla consumazione dell’illecito, l’assicurato e’ in tal caso tenuto a risarcire anche il nocumento finanziario subito dal terzo danneggiato a causa della mancata tempestiva disponibilita’ della somma di denaro dovutagli a titolo di risarcimento (la quale se tempestivamente corrisposta avrebbe potuto essere investita per ricavarne un lucro finanziario); qualora tale danno sia liquidato con la tecnica degli interessi, questi non debbono essere calcolati ne’ sulla somma originaria, ne’ sulla somma rivalutata al momento della liquidazione, ma debbono computarsi o sulla somma originaria via via rivalutata anno per anno, ovvero sulla somma originaria rivalutata in base ad un indice di rivalutazione medio, con decorrenza dal giorno in cui si e’ verificato l’evento dannoso (cfr. Cass., 3/8/2010, n. 18028; Cass., 3/3/2009, n. 5054; Cass., 10/3/2006, n. 5234; Cass., 25/1/2002, n. 883. Cfr. altresi’ Cass., 4/5/2009, n. 10236; Cass., 24/2/2006, n. 4184. E gia’ Cass., Sez. Un., 17/2/1995, n. 1712. Diversamente, nel senso che ai fini del riconoscimento del danno da ritardato pagamento deve escludersi il cumulo degli interessi e della rivalutazione monetaria nell’obbligazione pecuniaria derivante da mala gestio dell’assicuratore della responsabilita’ civile, trattandosi di debito di valuta, v. peraltro Cass., 28/11/2007, n. 24747).
Orbene del suindicato principio la corte di merito ha nell’impugnata sentenza fatto invero piena e corretta applicazione.
Emerge evidente, a tale stregua, come lungi dal denunziare vizi della sentenza gravata rilevanti sotto i ricordati profili, le deduzioni della ricorrente, oltre a risultare formulate secondo un modello difforme da quello delineato all’articolo 366 c.p.c., comma 1, n. 6, in realta’ si risolvono nella mera doglianza circa la dedotta erronea attribuzione da parte del giudice del merito agli elementi valutati di un valore ed un significato difformi dalle sue aspettative (v. Cass., 20/10/2005, n. 20322), e nell’inammissibile pretesa di una lettura dell’asserto probatorio diversa da quella nel caso operata dai giudici di merito (cfr. Cass., 18/4/2006, n. 8932).
Per tale via in realta’ sollecita, cercando di superare i limiti istituzionali del giudizio di legittimita’, un nuovo giudizio di merito, in contrasto con il fermo principio di questa Corte secondo cui il giudizio di legittimita’ non e’ un giudizio di merito di terzo grado nel quale possano sottoporsi alla attenzione dei giudici della Corte di Cassazione elementi di fatto gia’ considerati dai giudici del merito, al fine di pervenire ad un diverso apprezzamento dei medesimi (cfr. Cass., 14/3/2006, n. 5443).
Le spese del giudizio di cassazione, liquidate come in dispositivo, seguono la soccombenza.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso. Condanna la ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di cassazione, che liquida in complessivi Euro 18.200,00, di cui Euro 18.000,00 per onorari, oltre a spese generali ed accessori come per legge.
Ai sensi del Decreto del Presidente della Repubblica 30 maggio 2002, n. 115, articolo 13, comma 1-quater, come modif. dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, da’ atto della sussistenza dei presupposti per il versamento da parte della ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso articolo 13, comma 1 bis.

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