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A fronte di queste attivita’ particolarmente invasive della sfera giuridica della controparte e particolarmente idonee a recare danno, i presupposti per la configurazione di una responsabilita’ in capo all’attore sono diversi e piu’ severi rispetto a quelli previsti dal primo comma, che assoggetta alla condanna risarcitoria l’attore che abbia agito in giudizio in mala fede o colpa grave: non e’ richiesto l’aver agito con dolo o colpa grave, ma soltanto l’aver proposto una domanda oggettivamente infondata, e la proposizione di essa senza la normale prudenza.
Costituisce consolidata affermazione della giurisprudenza di legittimita’, sul tema della responsabilita’ da avventata proposizione della domanda giudiziale (e dell’avventata trascrizione di essa e delle misure cautelari) che: ‘Tu materia di responsabilita’ aggravata ex articolo 96 c.p.c., ai fini della condanna al risarcimento dei danni, l’accertamento dei requisiti costituiti dall’aver agito o resistito in giudizio con mala fede o colpa grave, ovvero dal difetto della normale prudenza, implica un apprezzamento di fatto non censurabile in sede di legittimita’, salvo – per i ricorsi proposti avverso sentenze depositate prima dell’11.9.2012 – il controllo di sufficienza della motivazione. (Nella specie, la S.C. ha ritenuto congruamente motivata la condanna per responsabilita’ aggravata del ricorrente che aveva sostenuto circostanze di fatto rivelatasi manifestamente infondate, aveva formulato domande di manleva nei confronti di soggetti palesemente estranei alla vicenda, ed aveva sostenuto tesi giuridiche non gia’ semplicemente infondate, ma palesemente infondate”)” (Cass. n. 19298 del 2016; v. anche Cass. n. 3464 del 2017).
L’affermazione contenuta nella massima precedente – secondo la quale costituisce giudizio in fatto verificare se la parte abbia agito con mala fede o colpa grave (articolo 96 c.p.c., comma 1) o violato i canoni di comune prudenza per agire in giudizio (articolo 96 c.p.c., comma 2), salvo il controllo sulla motivazione – non preclude alla Corte, ed anzi implicitamente presuppone che la Corte stessa possa riempire di contenuto i presupposti per la valutazione del giudice di merito, in particolare definendo il contenuto del canone della comune prudenza nell’agire in giudizio, indicando al giudice di merito alcuni parametri che devono essere tenuti in conto ai fini del giudizio di fatto di sua competenza per poter ritenere legittimamente individuare, nel caso concreto, la violazione della regola di prudenza.
In generale, la determinazione del contenuto delle clausole generali di comportamento, qual e’ la clausola dell’ agire in giudizio facendo uso della normale prudenza, prevista dall’articolo 96 c.p.c., comma 2, non e’ rimessa alla esclusiva, personale sensibilita’ del giudice di merito nella sua valutazione della fattispecie concreta, non sindacabile a meno che non incorra negli strettissimi limiti dell’attuale rilevanza del vizio di motivazione, ovvero se la motivazione non sia di fatto inesistente o cosi’ illogica da essere sostanzialmente inesistente, ma va effettuata alla stregua di determinati parametri che ne rendano verificabile la correttezza del ragionamento.
Diversamente opinando, specie in un momento storico in cui il controllo di legittimita’ sulla motivazione e’ ristretto al minimo costituzionale, se non si ritiene di operare colmando a monte di significato il contenuto delle clausole generali, la loro interpretazione puo’ essere tanto variabile quanto arbitraria.
Occorre inoltre puntualizzare che, diversamente dalla ipotesi di cui all’articolo 96 c.p.c., comma 3, che adesso prevede, per tutti i giudizi iniziati dal 4.7.2009 in poi, la possibilita’ di una condanna anche d’ufficio del soccombente in favore della parte vincitrice, di natura sanzionatoria (v. in proposito Cass. n. 19285 del 2016), l’ipotesi contemplata dall’articolo 96 c.p.c., comma 2 e’ una fattispecie risarcitoria, tipica e ad istanza di parte.
Le previsioni dell’articolo 96 c.p.c. contemplano tutte le ipotesi di responsabilita’ per atti o comportamenti processuali, e dettano una disciplina avente carattere di specialita’ rispetto a quella generale della responsabilita’ per fatti illeciti, regolata dall’articolo 2043 cod. civ., con la conseguenza che la responsabilita’ processuale aggravata, pur rientrando concettualmente nel genus della responsabilita’ aquiliana, ricade interamente, in tutte le sue ipotesi, sotto la predetta disciplina (cfr. Cass., Sez. Un., 6 febbraio 1984, n. 874; Cass., Sez. 1, 23 marzo 2004, n. 5734; Cass., Sez. 3, 12 gennaio 1999, n. 253): in questo senso Cass. n. 23271 del 2016, a proposito dell’ipotesi, prevista dal medesimo comma, di responsabilita’ processuale per iscrizione di ipoteca giudiziale).
Si tratta di fattispecie in cui un soggetto qualificato, l’attore, e’ chiamato a risarcire nei confronti di un terzo individuato, il convenuto, il danno eventualmente derivante dall’esercizio di una facolta’ in se’ oltre che lecita costituzionalmente protetta e garantita, ovvero dall’agire in giudizio.
Va premesso, peraltro, che costituisce affermazione consolidata nella giurisprudenza di legittimita’ quella secondo la quale agire in giudizio per far valere una pretesa che si riveli infondata non e’ condotta in se’ rimproverabile (Cass. n. 21570 del 2012).
Cio’ che viene indirettamente sanzionato con la tutela risarcitoria prevista dall’articolo 96, commi 1 e 2, non e’ l’agire in giudizio in se’, ma l’agire in giudizio che abbia provocato a terzi un danno ingiusto.
Il legislatore ha in particolare considerato, nell’ipotesi disciplinata dal secondo comma, che il pregiudizio puo’ piu’ facilmente verificarsi ove la proposizione della domanda sia associata all’utilizzo imprudente di mezzi di tutela giudiziaria in se’ leciti ma particolarmente suscettibili, per la loro particolare idoneita’ ad incidere direttamente, e negativamente, sulla sfera giuridica dei terzi, a pregiudicare gli interessi altrui. Essa e’ connessa alle ipotesi in cui, oltre alla proposizione della domanda giudiziale, vi sia stata la esecuzione di un provvedimento cautelare, la trascrizione di una domanda giudiziale, l’iscrizione di ipoteca giudiziale oppure l’inizio dell’esecuzione forzata, e sanziona i casi in cui la facolta’ di agire in giudizio sia stata utilizzata, facendo ricorso a questi strumenti, senza la normale prudenza.
Nella previsione disciplinata dall’articolo 96 c.p.c., comma 2, l’ipotesi risarcitoria e’ connessa al verificarsi di un danno per la parte in presenza di due presupposti: la proposizione di una domanda giudiziale della quale sia stata accertata l’infondatezza, e l’utilizzo – scevro della normale prudenza – di uno degli strumenti processuali indicati, di per se’ volti a tutelare, incrementare o ripristinare la garanzia patrimoniale dell’attore.
Cosi’ tracciato, in generale, l’ambito di operativita’ dell’istituto, occorre procedere alla individuazione dei parametri di legittimo utilizzo.
Il rigetto nel merito, all’esito del giudizio, della domanda, e’ il primo elemento della fattispecie, e come tale costituisce circostanza necessaria ma non sufficiente a giustificare una condanna ex articolo 96 c.p.c., comma 2 in quanto esso non necessariamente si associa ad una valutazione di imprudenza nella proposizione della domanda.
Ad esso deve necessariamente accompagnarsi, per arrivare ad una condanna al risarcimento del danno, la valutazione della imprudenza della parte, che si sostanzia in una valutazione prognostica ex ante, ovvero ponendosi nelle condizioni della parte nel momento in cui ha agito e considerando gli elementi a conoscenza della parte, o quelli che non avrebbe potuto ignorare usando l’ordinaria diligenza e quindi considerando se, al momento di agire, l’attore fosse a conoscenza che le sue possibilita’ di aver ragione nel merito erano significativamente ridotte, il che avrebbe dovuto renderlo maggiormente prudente nel proporre la domanda o eventualmente sconsigliarlo dal richiedere o azionare quel particolare tipo di tutela (concessione di un provvedimento cautelare o altro) che sapeva avrebbe prodotto un presumibile danno per il destinatario, a fronte di una incerta titolarita’ del diritto per il quale agiva.
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