Corte di Cassazione, sezione seconda penale, sentenza 8 maggio 2018, n.20121.
Integra il reato di rapina, la condotta dell’agente che, al fine di impossessarsi di quanto sottratto ovvero per conseguire l’impunità, impedisca alle persone offese di intervenire costringendole a fuggire o comunque coartando la loro volontà e libertà di movimento con comportamenti violenti, minacciosi o aggressivi. Per violenza alla persona, infatti, deve intendersi non solo la violenza propria, ma anche la cd. violenza impropria che si verifica quando l’agente priva comunque coattivamente la libertà di autodeterminazione della persona offesa che, quindi, è costretto a fare, tollerare od omettere di fare qualcosa contro la propria volontà.
SENTENZA 8 maggio 2018, n.20121
Pres. Diotallevi – est. Monaco
Ritenuto in fatto
La Corte d’Appello di Caltanissetta, con sentenza in data 29/06/2017, parzialmente riformando la sentenza pronunciata dal GIP Tribunale di Enna, in data 22/09/2016, nei confronti di B.C. , C.I.A. , H.I.P. , confermava la condanna in relazione al reato, contestato in concorso di cui all’art. 628 CP (più grave) ed altro.
1. Propongono ricorso per cassazione gli imputati che, a mezzo del difensore, deducono i seguenti motivi.
1.1 Ricorso per B.C. .
1.1.1 Violazione di legge e vizio di motivazione con riferimento alla ritenuta responsabilità dell’imputato. La difesa in sostanza lamenta l’erronea applicazione della legge penale e la carenza, contraddittorietà ed illogicità della sentenza impugnata che, a fronte degli specifici motivi di appello, pur riformando la sentenza ritenendo per il B. il c.d. concorso anomalo, si sarebbe limitata a confermare l’impianto logico della sentenza di primo grado.
1.2 Ricorso per C.I.A. .
1.2.1 Violazione di legge e vizio di motivazione in relazione alla ritenuta sussistenza del reato di rapina impropria. La difesa evidenzia ‘l’assenza di qualsivoglia comportamento violento che consenta di ritenere integrato il reato di cui all’art. 628 cod. pen.’ tanto che la motivazione, che fonda il proprio convincimento sulle dichiarazioni delle persone offesa, sarebbe illogica.
1.2.2 Violazione di legge e vizio di motivazione in relazione alla mancata concessione delle circostanze attenuanti generiche. La Corte negherebbe la concessione delle invocate attenuanti in assenza di valutazione.
1.3 Ricorso per H.I.P. .
1.3.1 Violazione di legge e vizio di motivazione in relazione alla dichiarazione di responsabilità. La difesa rileva che le conclusioni cui è addivenuta la Corte non sarebbero coperte dal ‘crisma della certezza razionale’, ovvero sarebbero stati violati i principi ‘dell’oltre ogni ragionevole dubbio’ e disattesa ‘la regola della razionalità della decisione’.
Considerato in diritto
1. Il ricorso nell’interesse di B. è inammissibile perché proposto per motivi assolutamente privi di specificità in tutte le loro articolazioni (si reiterano censure già dedotte in appello e già non accolte: Sez. 4, n. 15497 del 22/02/2002, RV. 221693; Sez. 6, n. 34521 del 27/06/2013, RV. 256133) e, comunque, manifestamente infondati.
La Corte di appello, con argomentazioni giuridicamente corrette, nonché esaurienti, logiche e non contraddittorie, e, pertanto, esenti da vizi rilevabili in questa sede, ha incensurabilmente motivato:
– quanto all’affermazione di responsabilità, valorizzando il ruolo che il B. ha avuto nella commissione dei reati così come emerge dalle intercettazioni di conversazioni tra presenti, anche trascritte nella sentenza di primo grado. La Corte ha in specifico motivato circa il ruolo attivo avuto dal ricorrente sia nella fase di progettazione che di realizzazione di entrambi i reati;
– quanto alla qualificazione giuridica dei fatti, valorizzando le dichiarazioni delle persone offese e la conversazione intercorsa nei momenti immediatamente successivi alla consumazione del reato, conversazione nella quale il M. ha raccontato, proprio al B. , quanto accaduto e quale era stata la sua reazione quando erano sopraggiunte le persone offese.
Con tali argomentazioni il ricorrente in concreto non si confronta, limitandosi a riproporre, la propria diversa ‘lettura’ delle risultanze probatorie, formulata in modo astratto e fondata su mere ed indimostrate congetture.
2. Il ricorso nell’interesse di C. è manifestamente infondato quanto al primo motivo ed inammissibile anche quanto al secondo motivo.
2.1 La difesa del C. rileva la violazione di legge con riferimento alla ritenuta sussistenza degli elementi costitutivi della rapina impropria, insistendo affinché i fatti siano qualificati come furto aggravato.
In specifico il ricorrente evidenzia che nei confronti delle vittime non sarebbe stata posta in essere alcuna violenza ovvero minaccia.
La Corte, che era stata sollecitata sul punto proprio dalla difesa del C. , ha risposto con motivazione coerente ed adeguata e le attuali doglianze, che pure si confrontano direttamente con gli argomenti contenuti nel provvedimento impugnato, non colgono nel segno.
La circostanza che il M. non avrebbe in effetti colpito la sig.ra Indelicato, infatti, è del tutto irrilevante.
Per ‘violenza alla persona’ s’intende non solo la violenza propria, cioè l’impiego di forza fisica nei confronti della persona offesa al fine di togliergli la libertà di movimento (Sez. 2, n. 14901 del 19/3/2015, Rv 263307), ma anche la c.d. violenza impropria che si verifica quando l’agente priva comunque coattivamente la volontà di autodeterminazione della persona offesa che, quindi, è costretta a fare, tollerare od omettere di fare qualcosa contro la propria volontà (Sez. 2, Sentenza n. 28389 del 27/04/2017, Rv. 270180).
Questa Corte, infatti, ha chiarito che ‘la nozione di violenza deve farsi rientrare nella ampia accezione tecnico-giuridica, riconducibile piuttosto alla ipotesi criminosa dell’art. 610 c.p., e quindi in qualsiasi atto o fatto posto in essere dall’agente che si risolva comunque nella coartazione della libertà fisica o psichica del soggetto passivo che viene così indotto, contro la sua volontà, a fare, tollerare o omettere qualche cosa indipendentemente dall’esercizio su di lui di un vero e proprio costringimento fisico’ (Sez. 2, n. 39941 del 26/11/2002, Rv 222847; Sez. 2, n. 1176 del 11/10/2012, dep. 2013, Rv 254126)
Nel caso di specie risulta che ‘la persona offesa ha riferito di essersi resa conto che era in atto un tentativo di furto all’interno della tabaccheria di cui era titolare, poiché era solita dormire insieme alla madre in una stanza posta sul retro; così sentiti i rumori, la madre usciva per prima e veniva immediatamente fatta rientrare dalla figlia in quanto un uomo con volto travisato, non appena scorgeva la sua presenza davanti alla porta, le si scagliava contro tanto che la Mu. faceva giusto in tempo a tirarla dentro e chiudere il portone. L’uomo per incutere paura dava colpi al portone. Orbene, le modalità trovano conferma nei contenuti delle intercettazioni… M. racconta a B. che erano uscite le anziane ovvero le proprietarie della tabaccheria… e che lui era andato da lei per darle un pugno in bocca per farla entrare dentro…’.
La suddetta condotta, sulla base dei principi di diritto di cui sopra, come indicato dalla Corte territoriale che ha specificato ‘si ricava inequivocabilmente l’impiego della violenza nei confronti delle vittime al fine, evidentemente di vincerne un’eventuale resistenza’, integra gli estremi della violenza impropria perché ha ostacolato l’autonomia psico-fisica delle parti offese e perché era strumentale all’impossessamento ovvero a garantire la fuga degli autori del reato.
La censura, pertanto, va disattesa ribadendo il seguente principio di diritto: ‘Integra il reato di rapina, la condotta dell’agente che, al fine di impossessarsi di quanto sottratto ovvero per conseguire l’impunità, impedisca alle persone offese di intervenire costringendole a fuggire o comunque coartando la loro volontà e libertà di movimento con comportamenti violenti, minacciosi o aggressivi. Per violenza alla persona, infatti, deve intendersi non solo la violenza propria, ma anche la cd. violenza impropria che si verifica quando l’agente priva comunque coattivamente la libertà di autodeterminazione della persona offesa che, quindi, è costretto a fare, tollerare od omettere di fare qualcosa contro la propria volontà’.
2.2 Il secondo motivo è inammissibile.
Le doglianze in tema di diniego delle circostanze attenuanti generiche, compendiate nell’argomento secondo il quale la Corte avrebbe espresso un giudizio ‘denegatorio’ in assenza di valutazione, sono manifestamente infondate.
Nel motivare il diniego della concessione delle attenuanti generiche, infatti, non è necessario che il giudice prenda in considerazione tutti gli elementi favorevoli o sfavorevoli dedotti dalle parti o rilevabili dagli atti, ma è sufficiente che egli faccia riferimento a quelli ritenuti decisivi o comunque rilevanti, rimanendo tutti gli altri disattesi o superati da tale valutazione (Sez. 3, n. 28535 del 19/03/2014, Rv. 259899). È principio noto in giurisprudenza che il giudice del merito nell’accordare o nel negare le attenuanti generiche, non ha l’obbligo di prendere in considerazione tutti i parametri previsti dall’art. 133 cod. pen., essendo sufficienti che egli indichi quello che dei suddetti parametri abbia maggior rilievo, al fine di permettere la ricostruzione del pensiero logico-giuridico che giustifica la decisione assunta e consenta di verificare che il giudice, nell’esercizio del potere discrezionale, di merito, non sia caduto in arbitrii.
In tale contesto la motivazione della Corte, che ha valorizzato l’impegno attivo del ricorrente sia nella fase organizzativa che esecutiva, anche se sintetica sul punto ma che comunque deve essere integrata a quella della sentenza di primo grado, non è censurabile.
La circostanza che allo stesso imputato sia stato riconosciuto il c.d. concorso anomalo ex art. 116 cod. pen. – afferente il diverso rilievo che il giudice ritiene di riconoscere all’elemento psicologico del concorrente – d’altro canto, non è incompatibile con il formulato giudizio negativo in termini di concessione delle circostanze attenuanti generiche.
3. Il ricorso nell’interesse di H. è inammissibile.
Il motivo – nel quale la questione è proposta in termini astratti e facendo riferimento al ‘crisma della certezza razionale’, al ‘principio del ragionevole dubbio’ ed alla ‘razionalità della decisione’, senza confrontarsi con gli argomenti ed i passaggi della motivazione del provvedimento impugnato – è generico perché viene meno allo scopo proprio dell’impugnazione, che è quello di mettere in evidenza i punti della decisione censurabili e i motivi di fatto e di diritto che giustificano il giudizio di legittimità.
La doglianza ha quindi carattere generico e come tale non rispetta il precetto dell’art. 581 lett. c) cod. proc. pen., cui segue necessariamente il giudizio di inammissibilità ex art. 591 cod. proc. Pen. (‘Ai sensi degli art. 606, 10 comma, e 591, 10 comma, lett. c), c.p.p. (in relazione al difetto dei requisiti dell’impugnazione indicati dall’art. 581, lett. c, c.p.p.), è inammissibile il ricorso per cassazione nel quale si propongano censure attinenti al merito della decisione, congruamente giustificata, mancando peraltro una specifica indicazione della correlazione fra le motivazioni della decisione impugnata e quelle poste a fondamento dell’atto di impugnazione’, così Sez. 2, n. 44912 del 30/10/2008, Rv 242246; Sez. 2, n. 19951 del 15/05/2008, Rv. 240109 e, da ultimo, Sez. 2, n. 7986 del 18/11/2016, dep. 2017, Rv 269217).
Alla inammissibilità dei ricorsi nell’interesse di B. , C. H. consegue la condanna dei ricorrenti al pagamento delle spese processuali, nonché, ai sensi dell’art. 616 c.p.p., valutati i profili di colpa nella determinazione della causa di inammissibilità emergenti dai ricorsi (Corte Cost. 13 giugno 2000, n. 186), ciascuno al versamento della somma, che si ritiene equa, di Euro duemila o a favore della cassa delle ammende.
P.Q.M.
Dichiara inammissibili i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro duemila ciascuno alla cassa delle ammende.
Leave a Reply