Corte di Cassazione, sezione seconda penale, sentenza 12 ottobre 2017, n. 46996. L’ambito di applicazione del disposto dell’art. 299 bis cod. proc. pen.

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6.3 Di fatto, le premesse alla direttiva 2012/29/UE anticipano specificamente le finalità dell’intervento in ambito di Unione Europea per come successivamente articolate e segnatamente:
– l’identità di trattamento delle parti offese con rimozione di ogni limite discriminatorio fondato su considerazioni di razza, colore della pelle, origine etnica o sociale, caratteristiche genetiche, lingua, religione o convinzioni personali, opinioni personali, appartenenza a una minoranza nazionale, patrimonio, nascita, disabilità, età, genere, espressione di genere, identità di genere, orientamento sessuale, status in materia di soggiorno, cittadinanza o nazionalità;
– la previsione di adeguata assistenza e adeguato accesso alla giustizia dei soggetti esposti a vittimizzazione secondaria e ripetuta (desunta dalle caratteristiche personali della vittima o dal tipo, dalla natura o dalle circostanze del reato in base a una valutazione individuale, da svolgersi nel primo momento utile – cfr § 55 delle premesse), o ad intimidazione e ritorsioni conseguenti al reato;
– la salvaguardia dei diritti dell’autore del reato.
6.4 Segue a tali enunciati l’espresso richiamo alla necessità di specifici interventi a tutela delle vittime minorenni, delle vittime con disabilità e delle vittime del terrorismo nonché una serie di definizioni che si deve ritenere siano costituiscano i suoi stessi presupposti di applicazione. Si tratta delle definizioni di violenza di genere e di violenza nelle relazioni strette, doppiate dall’enunciazione dell’espressa finalità di fornire assistenza specialistica e protezione giuridica alle persone particolarmente vulnerabili o in situazioni che le espongono particolarmente a un rischio elevato di danno, quali le persone vittime di violenze reiterate nelle relazioni strette, le vittime della violenza di genere o le persone vittime di altre forme di reato in uno Stato membro di cui non hanno la cittadinanza o in cui non risiedono.
6.5 Il dettato della richiamata direttiva è poi ricalcato sulle premesse così enunciate, prevedendosi una serie di facoltà e diritti di informazione e sostegno (diritto di comprendere e essere compresi, diritto di ottenere informazioni dall’AG sin dal primo contatto, diritto di essere messa in condizione di presentare la denuncia formale, diritto di ottenere informazioni sul proprio caso, diritto all’interprete e alla traduzione, diritto di accesso ai servizi di assistenza alle vittime e contenuto minimo di tale assistenza) e di partecipazione (diritto di essere sentiti, di chiedere il riesame della decisione di non esercitare l’azione penale, di accedere a istituti di giustizia riparativa, di accedere al patrocinio a spese dello stato, al rimborso delle spese, alla restituzione dei beni, a ottenere una decisione sul risarcimento danni nell’ambito del procedimento penale).
7. Rispetto all’assetto minimo disegnato dalla Direttiva sopra richiamata, la tutela offerta alla vittima dall’art. 299 cod. proc. pen. ha una valenza che supera i diritti di informazione, le facoltà di intervento e le tutele previste dalla normativa comunitaria risultando piuttosto espressione di una tutela processuale connessa a profili di salvaguardia della incolumità della persona (come emerge da due elementi già evidenziati: la sostanziale natura di condizione di procedibilità dell’informativa rispetto alla istanza de libertate e l’obbligo di comunicazione dell’esito del subprocedimento) rafforzata dalla possibilità di portare all’attenzione del giudice circostanze rilevanti tramite il deposito memorie.
7.1 Tale ultima facoltà appare – in subiecta materia e nella fase delle indagini – finalizzata non tanto a raccogliere ulteriori indizi di reato quanto a imporre una adeguata focalizzazione sulle esigenze cautelari, all’evidenza con principale riferimento al pericolo di reiterazione di reati a base violenta in quanto principale motivo fondante la tutela rafforzata della parte offesa in quanto soggetto debole; pericolo inevitabilmente ricollegabile alla personalità dell’aggressore ovvero a un pregresso rapporto tra quest’ultima e l’aggressore ovvero a concrete possibilità di ritorsioni.
7.2 La considerazione sopra enunciata offre un argomento logico alla tesi di una limitazione del novero dei reati rilevanti ai fini della applicazione dei commi 2 bis e 3 dell’art. 299 cod. proc. pen. Infatti, se il fondamento della previsione dovesse essere la tutela della p.o. in presenza di preoccupanti segnali conseguenti alla valutazione della personalità dell’imputato, la nuova formulazione normativa nulla verrebbe ad aggiungere al regime preesistente e il condizionare la proponibilità delle istanze de libertate alla previa notifica alle parti offese risulterebbe disposto di fatto ridondante e senza una effettiva giustificazione in termini di tutela effettiva. Al contrario, soltanto il riferimento a un pregresso rapporto tra vittima e aggressore ovvero a concrete possibilità di ritorsioni permette di individuare un fondamento razionale alla norma tale da giustificare (come nel caso di specie) la compressione dei diritti processuali dell’indagato sottoposto a limitazione della libertà personale.
8. Tali caratteri evidenziano ulteriormente come l’intervento legislativo di cui si discute trovi i propri inevitabili presupposti nella direttiva 2012/29/UE che esplicitamente prevede tutela rafforzata risulta in particolare per le vittime di violenze reiterate nelle relazioni strette, per le vittime della violenza di genere o per i soggetti esposti a concreto pericolo di intimidazione, di ritorsioni, di vittimizzazione secondaria e ripetuta (desunta – secondo gli enunciati della direttiva medesima – dalle caratteristiche personali della vittima o dal tipo, dalla natura o dalle circostanze del reato in base a una valutazione individuale, da svolgersi nel primo momento utile).
Si tratta di parametri che esplicitano i criteri alla stregua dei quali deve essere individuato non solo il fondamento dell’intervento normativo, ma anche un criterio interpretativo di razionalità espresso in sede di legislazione sopra nazionale posto che – nell’interpretazione delle norme che ridisegnano il regime della posizione processuale delle vittime di reato – non può prescindere dai criteri guida specificamente espressi in ambito nazionale.
9. Tale fondamento e tale criterio di razionalità vengono ad essere validi criteri interpretativi della norma in esame (l’art. 299 bis cod. proc. pen.) al fine di determinare l’esatta accezione dell’espressione “delitti commessi con violenza alla persona” in essa richiamati e trovano fondamento ulteriore nell’obbligo di interpretazione conforme gravante sul giudice interno. La sussistenza di tale obbligo è del resto assunto consolidato della Corte di Giustizia (con specifico riferimento allo strumento della Direttiva Comunitaria, già la Corte di Giustizia CEE, con la decisione 13 novembre 1990 nella causa C-106/89, Marleasing) aveva affermato che nell’applicare il diritto nazionale (…) il giudice nazionale deve interpretare il proprio diritto nazionale alla luce della lettera e dello scopo della direttiva onde conseguire il risultato perseguito da quest’ultima e conformarsi all’allora vigente art. 189, terzo comma, del Trattato) e recepito finanche per quanto atteneva alla applicabilità dei principi enunciati in provvedimenti espressivi di un principio di cooperazione e segnatamente le decisioni quadro in materia rientrante nel c.d. terzo pilastro, secondo quella che era la definizione ormai oggi superata per effetto dell’approvazione e ratificazione del Trattato di Lisbona. Al proposito, le sezioni unite di questa Corte (Sez. U, Sentenza n. 38691 del 25/06/2009 Rv. 244191) avevano avuto modo di richiamare i principi espressi dalla sentenza 16 giugno 2005 nella causa C-105/03, Pupino, in cui la Corte di Giustizia aveva stabilito che il giudice nazionale doveva, nell’applicare il diritto interno, attenersi ad una interpretazione “conforme” alle decisioni-quadro adottate nell’ambito del titolo VI del Trattato sull’Unione Europea. Pertanto, il giudice dello Stato membro era tenuto ad applicare il diritto nazionale per quanto possibile “alla luce della lettera e dello scopo della decisione-quadro”, al fine di conseguire il risultato perseguito da questa e di conformarsi così all’art. 34, n. 2 – lett. b), del Trattato. In altri termini, fin dove il diritto interno consentisse un’interpretazione conforme alla decisione-quadro, in quanto, ad esempio, le disposizioni pertinenti contenessero clausole generali o concetti giuridici indefiniti, il giudice nazionale avrebbe dovuto utilizzare l’intero spazio valutativo ad esso concesso in favore del diritto dell’Unione Europea. Il riferimento a tale pronuncia è particolarmente suggestivo non perché si voglia in qualche modo far richiamo ai principi espressi dalla decisione quadro 2001/220/GAI, quanto piuttosto in considerazione del fatto che le premesse contenute nella Direttiva de qua esprimono presupposti e linee guida che hanno determinato e fondano l’intervento normativo e che quindi costituiscono parametro la cui vincolatività è in qualche modo riconducibile alle direttive che qualificavano il contenuto delle decisioni quadro.
Per effetto delle modifiche introdotte dal Trattato di Lisbona, le materie dell’ex terzo pilastro ancora disciplinate dal Trattato sull’Unione Europea (rispetto a cui era pacifica la vigenza di un obbligo di interpretazione conforme ribadito dalla citata sent. 38691 del 2009) hanno assunto una rilevanza e un ruolo ben più pregnante essendo state inserite nel Titolo V del Trattato sul Funzionamento dell’Unione Europea. In linea con questa impostazione, sussiste una specifica competenza del legislatore Europeo che – ai sensi dell’art. 82 del Trattato sul Funzionamento dell’Unione Europea – include il ravvicinamento delle disposizioni legislative e regolamentari degli Stati membri nei settori riguardanti i diritti della persona nella procedura penale.
La Direttiva Europea 2012/29/UE costituisce espressamente uno strumento di attuazione di tale norma, con la conseguente – esplicita – funzione di dettare le linee guida dei successivi interventi del legislatore interno per lo meno come enunciazione di canoni interpretativi della legislazione interna, soprattutto successiva.
10. Tale funzione deve essere riconosciuta in relazione a due diverse previsioni.
11. In primo luogo in relazione alla definizione dei soggetti rispetto a cui tale tutela è riconosciuta.
Nell’interpretazione della norma dovrà quindi tenersi conto innanzi tutto del catalogo contenuto della direttiva 2012/29/UE, che identifica i soggetti cui la tutela è riconosciuta in relazione al tipo di reato di cui sono vittima (si veda in proposito il § 57 della citata direttiva con riferimento alle vittime della tratta di esseri umani, del terrorismo, della criminalità organizzata, di violenza o sfruttamento sessuale, di reati basati sull’odio), alla loro condizione (ancora il § 57 fa riferimento alle vittime disabili; alle vittime minorenni), al contesto in cui i reati sono sviluppati (sotto questo aspetto, le citate premesse alla direttiva fanno particolare riferimento alle vittime di reati connotati da violenza diretta contro una persona a causa del suo genere ovvero della sua identità di genere ovvero della sua espressione di genere o ancora – di violenza che colpisce in modo sproporzionato le persone di un particolare genere §17 delle premesse alla direttiva citata. Vi è poi il riferimento alle vittime di violenza nelle relazioni strette in quanto commessa dall’attuale o precedente coniuge o partner della vittima ovvero da un altro membro della sua famiglia, a prescindere dal fatto che l’autore del reato conviva o abbia convissuto con la vittima, anche in relazione alla sfera economica della vittima medesima contenuto nel §18 delle citate premesse).
Il carattere che unifica la figura e la considerazione di tali vittime è costituito dal fatto che queste risultano esposti a un concreto pericolo di vittimizzazione secondaria e ripetuta, di intimidazione e di ritorsioni. Si tratta di caratteri che permettono l’univoca identificazione delle vittime, della categoria di reati o di contesti di reato che fanno scattare l’applicabilità della norma.
12. Vi è poi un secondo ordine di previsioni che qualifica e limita al tempo stesso l’intervento normativo in sede Europea e detta un criterio interpretativo altrettanto rilevante e vincolante.
Il § 12 delle premesse della direttiva 2012/29 esplicita che i diritti da essa previste fanno salvi i diritti della persona condannata ovvero della persona indagata o imputata prima dell’eventuale dichiarazione di responsabilità o della condanna e fa salva la presunzione d’innocenza.
Tale inciso risulta poi essere rafforzato dalla successiva previsione del § 32 per cui le informazioni da fornire alle vittime sulla scarcerazione o evasione dell’autore del reato risulta esclusa non dovrebbe essere appli-cato alle situazioni in cui siano stati commessi reati mi-nori e vi sia quindi soltanto un debole rischio di danno per le vittime. Secondo la stessa disposizione, il riferimento al “rischio concreto di danno per le vittime” dovrebbe com-prendere fattori quali la natura e la gravità del reato e il rischio di ritorsioni.
Risulta di particolare evidenza che tali limiti agli oneri informativi della vittima / parte offesa costituiscono l’espressione della necessità di un contemperamento tra diritti oggetto di specifiche garanzie sia a livello sovranazionale sia a livello Costituzionale.
Lo stesso legislatore in sostanza il quesito in ordine alla esistenza, determinazione e giustificazione razionale dei limiti ai diritti di partecipazione e interlocuzione delle vittime e fornisce una risposta specifica, articolata e coerente con gli stessi principi costituzionali a tale quesito.
Tale risposta non può non essere riproposta nella interpretazione delle norme interne che prevedono le forme di partecipazione al procedimento delle vittime / parti offese.
13. Ne consegue che, nell’ambito dei delitti commessi con violenza alla persona e ai fini dell’applicazione dell’art. 299 comma 2 bis e 3 cod. proc. pen. il giudice dovrà tener conto – in via gradata – della tipologia di parte offesa (potendosi tenere conto del fatto che si tratti di parte offesa di delitti connessi alla tratta di esseri umani, al terrorismo, alla criminalità organizzata, alla violenza o sfruttamento sessuale, a reati basati sull’odio ovvero si tratti di parte offesa minorenne) o del movente del reato (potendosi tenere conto del fatto che si sia trattato di c.d. violenza di genere come definita nel § 17 delle premesse della Direttiva 2012/29/UE) ovvero del contesto in cui il reato è stato commesso (potendosi ritenere rilevante il fatto che si sia trattato vittima di violenza in relazioni strette secondo le definizioni contenute nel § 18 delle premesse della Direttiva 2012/29/UE).
Al di fuori di tali casi, il giudice procedente o il Tribunale del riesame investito della questione dovrà valutare – con motivazione esplicita o comunque desumibile dal tenore generale del provvedimento – se al delitto connotato da violenza si ricolleghi un concreto pericolo di intimidazione, ritorsioni o vittimizzazione secondaria ripetuta tali da escludere che si sia in presenza di reati minori ovvero vi sia soltanto un debole rischio di danno per le vittime.
14. A tali considerazioni se ne aggiungono altre in ordine alla concreta possibilità di adempiere all’onere dell’avviso ove esistente, secondo orientamento già espresso da questa Corte in precedenza (Sez. 2, Sentenza n. 25135 del 25/05/2016 Rv. 267236).
Lo stesso giudice del riesame non specifica se le persone offese abbiano nominato difensore ovvero eletto domicilio od anche soltanto se le stesse paiono identificate compiutamente dagli atti del procedimento.
Deve pertanto ritenersi che in assenza di specifiche indicazioni non potrà che essere lo stesso giudice, adito in sede di istanza ex art. 299 cod. proc. pen., nell’ipotesi di omessa notifica della stessa a parte offesa notiziabile (ossia con difensore nominato ovvero con domicilio dichiarato o eletto) a verificare se detta omissione possa ritenersi colpevole o meno (ossia se il dato di ricerca potesse essere rilevato dagli atti accessibili alla parte o meno) e solo nel primo caso, dichiarare l’inammissibilità della richiesta; di contro, nell’ipotesi in cui questa verifica comprovi l’esistenza di un’omissione del tutto incolpevole (o, comunque, scusabile), per essere la parte offesa non identificabile né identificata, l’istanza dovrà essere valutata nel merito per impossibilità di adempiere all’obbligo informativo.
15. Nella fattispecie, il Tribunale della Libertà di Palermo non risulta aver tenuto conto né dei sopra richiamati canoni interpretativi in ordine alla determinazione dell’ambito di applicazione dell’art. 299 bis cod. proc. pen. né della concreta possibilità di verificare la sussistenza di una concreta possibilità o di una incolpevole impossibilità di adempiere agli oneri di comunicazione come sopra richiamati.
16. Si impone pertanto l’annullamento dell’ordinanza impugnata con rinvio al Tribunale di Palermo – sezione per il riesame delle misure coercitive – per nuovo giudizio.

P.Q.M.

Annulla l’ordinanza impugnata e rinvia per nuovo giudizio al Tribunale di Palermo, sezione per il riesame delle misure coercitive, disponendo la trasmissione integrale degli atti.

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