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Ebbene, alla luce delle puntualizzazioni fornite dalle Sezioni unite, risulta ormai definitivamente stabilito che la “quasi flagranza” legittimante l’arresto da parte della polizia giudiziaria e’ configurabile tutte le volte in cui sia possibile stabilire un particolare “nesso” tra il soggetto ed il reato che, pur superando l’immediata individuazione dell’arrestato sul luogo del reato, permetta comunque la riconduzione della persona all’illecito sulla base della continuita’ del controllo, anche indiretto, eseguito da coloro i quali si pongano al suo inseguimento. Tale condizione si puo’ configurare nei casi in cui l’arresto avvenga in esito a inseguimento, ancorche’ protratto ma effettuato senza perdere il contatto percettivo anche indiretto con il fuggitivo, o nel caso di rinvenimento sulla persona dell’arrestato di cose o tracce dalle quali appaia che egli abbia commesso il reato immediatamente prima; ma non si puo’ configurare nelle ipotesi nelle quali l’arresto avvenga in seguito ad un’attivita’ di investigazione, sia pure di breve durata, attraverso la quale la polizia giudiziaria raccolga elementi (dalla vittima, da terzi o anche autonomamente) valutati i quali ritenga di individuare il soggetto da arrestare, il quale beninteso non sia trovato con cose che lo colleghino univocamente al reato e non presenti sulla persona segni inequivoci riconducibili alla commissione del reato da parte del medesimo.
Or bene, alla luce di tale principio, il ricorso non puo’ trovare accoglimento.
Risulta in fatto dal provvedimento del Gip – e tale apprezzamento non puo’ essere qui rinnovato, nei termini prospettati in ricorso- che l’arrestato si era spogliato della borsa contenente la merce e che solo successivamente era stato individuato e trovato in possesso di altra refurtiva (non riguardata dalla contestazione di che trattasi): e’ evidente che l’attivita’ della p.g., pur puntualmente svoltasi, non ha consentito di affermare come sussistente quel “nesso” tra il soggetto e il reato fondante la legittimita’ dell’arresto secondo giurisprudenza consolidata (da ultimo, Sez. 3, n. 3075 del 24/11/2010, dep. 2011, Proc. Rep. Trib. Nola in proc. Aladie).
Secondo la citata giurisprudenza, in sede di convalida dell’arresto in flagranza, il giudice, ai sensi dell’articolo 391 c.p.c., comma 4, deve controllare: a) l’osservanza formale dei termini dall’articolo 386 c.p.p., comma 3, e articolo 390 c.p.p., comma 1; b) la sussistenza dei presupposti legittimanti l’eseguito arresto, secondo il disposto degli articoli 380, 381 e 382 c.p.p., ossia se ricorrono gli estremi della flagranza e se sia configurabile, con riferimento al caso specifico, una delle ipotesi criminose che consentono o impongono l’arresto (fumus commissi delicti); nonche’ c) a valutare la legittimita’ dell’operato della polizia giudiziaria sulla base di un “controllo di ragionevolezza” dell’arresto stesso in relazione allo stato di flagranza ed alla ipotizzabilita’ di uno dei reati di cui agli articoli 380 e 381 c.p.p..
Tale ultimo controllo deve essere condotto in una prospettiva di lettura che, da un lato, non puo’ riguardare l’aspetto della gravita’ indiziaria e delle esigenze cautelari (riservato, ex articolo 391 c.p.p., comma 5, in combinato con gli articoli 273 e 274 c.p.p., all’applicabilita’ delle misure cautelari coercitive), e che, dall’altro lato, non puo’ sconfinare in un apprezzamento dei presupposti per l’affermazione della responsabilita’, riservato alla fase di cognizione del giudizio di merito.
Ne consegue, quindi, che la verifica e la valutazione in oggetto vanno fatte in riferimento all’uso ragionevole dei poteri discrezionali in concreto esercitati dalla polizia giudiziaria e, ove il giudice ritenga che la polizia abbia ecceduto, deve fornire in proposito adeguata motivazione.
E’ evidente che qui il giudice ha fatto corretto uso di questi poteri, avendo negato la convalida sviluppando considerazioni in linea con i principi sopra enunciati.
Il ricorso va, pertanto, rigettato.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso.
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