Suprema Corte di Cassazione
sezione lavoro
sentenza n. 22393 del 10 dicembre 2012
Svolgimento del processo
Con sentenza del 30.4.2009, la Corte di Appello, di Trieste respingeva il gravame proposto da C. L. avverso la sentenza del Tribunale di Pordenone che aveva rigettato il ricorso proposto dal predetto, inteso ad ottenere la declaratoria dell’illegittimità del licenziamento intimatogli, nonché la condanna della società J. Arredamenti presso cui aveva lavorato al risarcimento del danno conseguente al demansionamento ed alla discriminazione asseritamente subiti. Rilevava la Corte di Trieste che la sussistenza dei fatti disciplinarmente rilevanti era stata correttamente ravvisata dal giudice di prime cure, che aveva valutato la completezza e la specificità della contestazione e la idoneità della stessa a rendere conoscibile al lavoratore le circostanze di tempo e luogo a fini difensivi e che anche gli ulteriori fatti posti a fondamento dei precedenti provvedimenti disciplinari contestati avevano trovato suffragio probatorio adeguato, onde si rivelava superflua ulteriore istruttoria al riguardo. Ogni altro motivo di gravame era da respingere, dovendo ritenersi che gli episodi richiamati non avessero integrato il dedotto mobbing e che ogni sanzione disciplinare era stata comminata in osservanza del principio di proporzionalità, alla luce del complessivo comportamento tenuto dal ricorrente come confortato dall’espletata istruttoria.
Per la cassazione della decisione suindicata ricorre il C., affidando l’impugnazione ad undici motivi, illustrati con memoria ai sensi dell’art. 378 c.p.c.
Resistono la J. Arredamenti spa e gli intimati C., B., C., G., P., R., e Z., i quali ulteriormente espongono le proprie difese in memoria.
Motivi della decisione
Con il primo motivo, il C. denunzia violazione e falsa applicazione dell’art. 7 della legge 300/70, nonché degli artt. 1362 e 1363 del c.c.n.l. e degli artt. 17 e 18, parte terza -regolamentazione per gli operai, del c.c.n.l. legno, sughero, mobile, arredamento e boschivi forestali 21.12.199/31.12.2003 – industria, ai sensi dell’art. 360, n. 3, c.p.c, assumendo che la sentenza impugnata ha preso in considerazione, per la valutazione della legittimità del licenziamento, fatti e condotte disciplinari non indicati né richiamati nell’analitica motivazione del provvedimento disciplinare espulsivo, il quale è basato, invece, esclusivamente su quattro specifici fatti per i quali la contrattazione collettiva di settore prevede l’irrogazione della sola sanzione conservativa della multa o della sospensione dal lavoro e dalla retribuzione.
Con il secondo motivo, il ricorrente deduce la nullità della sentenza e del procedimento per violazione e falsa applicazione degli artt. 112 e 416 cp.c. anche in relazione all’art. 7 della legge 300/1970 e degli artt. 17 e 18, parte terza – regolamentazione per gli operai de! c.c.n.l. legno, sughero, mobile arredamento e boschivi forestali 21.12.1999/31.12.2003 -Industria, ai sensi dell’ art. 360, n. 4, c.p.c, sostenendo che comporti il vizio dì nullità della sentenza e/o del procedimento per violazione dell’art. 7 I. 300/70, in relazione agli artt. 17 e 18 c.c.n.l. e degli articoli del codice di procedura civile menzionati, la decisione che dichiara la legittimità de! licenziamento sulla base dell’art. 18 lett H del c.c.n.l. di settore, il quale considera, ai fini della determinazione della sanzione da irrogare, la recidiva in precedenti mancanze, quando tale norma non è stata richiamata nella motivazione del licenziamento, né in sede processuale dove il datore di lavoro ha sostenuto, invece, che la legittimità del licenziamento impugnato prescinde dalla recidiva di cui alla contrattazione collettiva.
Con il terzo motivo, denunzia contraddittoria, omessa o insufficiente motivazione su un fatto controverso e decisivo, ossia sulla motivazione del licenziamento , ex art. 360, n. 5, c.p.c, evidenziando l’erronea e carente ricognizione della fattispecie concreta. Ritiene che sia affetta da vizio motivazionale su fatto decisivo la sentenza che ha posto a fondamento del dichiarato legittimo licenziamento fatti e condotte disciplinari che non erano stati indicati né richiamati nell’analitica motivazione del provvedimento stesso, il quale è basato, invece, esclusivamente, su quattro specifici fatti per i quali la contrattazione collettiva di settore prevede sanzioni conservative.
Con il quarto e quinto motivo, si deduce la nullità della sentenza e del procedimento per violazione e falsa applicazione dell’art. 246 c.p.c circa l’ammissibilità della parte resistente a rendere testimonianza sui fatti di causa, per violazione e falsa applicazione dell’art. 421 e 4 del c.p.c per avere elevato al rango di prova le dichiarazioni rese dalle parti resistenti- mobbers, ai sensi dell’art. 360, n. 4, cp.c. Si assume che sia stato violato l’art. 246 c.p.c e che sia pertanto nulla la decisione che ha ammesso ad essere escusse come testimoni le parti in causa mobbers, le quali sono state evocate in giudizio per rispondere dei danni da mobbing, realizzatosi da ultimo, nel quadro di un unitario disegno vessatorio, con il licenziamento, che è stato ritenuto legittimo proprio sulla base delle dichiarazioni testimoniali rese dalle parti stesse a comprova degli addebiti contestati e delle sanzioni conservative, considerate peraltro indebitamente quali precedenti disciplinari ai fini della legittimità del licenziamento. Si rileva, altresì, che l’interrogatorio non può assumere valore dì prova.
Con il sesto motivo, il ricorrente lamenta violazione e falsa applicazione dell’art. 7 della I. 300/70 anche in relazione agli artt. 1175 e 1375 c.c., per genericità della contestazione da cui è conseguito l’impugnato licenziamento, osservando che non sono state nominate nella contestazione, indicandone le generalità, le altre persone presenti ai fatti (ad es. dott.sa Fornasiero, unico soggetto estraneo alla denunciata dinamica del mobbing, che avrebbe potuto spiegare obiettivamente i fatti).
Con il settimo e l’ottavo motivo, vengono denunciate rispettivamente violazione e falsa applicazione degli art. 115 e 116 c.p.c, ai sensi dell’ art.360, n. 4, c.p.c.) ed. omessa insufficiente o contraddittoria motivazione, ex art. 360, n. 5, c.p.c, dolendosi il ricorrente della mancata ammissione di alcuni mezzi di prova proposti (a pag. 30-32 ricorso introduttivo, nella memoria autorizzata del 26.4.2004 e riproposti in appello pag. 32 e nelle conclusioni). Assume dì avere dedotto prova per testi, disattesa dal giudice del merito, relativamente alle discriminazioni subite ed a fatti controversi e decisivi, quali le azioni ostili (mobbing) a cui era stato sottoposto ed ai riflessi che le stesse avevano avuto sulla ritenuta illegittimità del licenziamento e delle sanzioni disciplinari conservative.
Omessa insufficiente o contraddittoria motivazione in ordine a fatti controversi e decisivi, con riguardo sia al licenziamento che alle sanzioni conservative, viene dedotta nel nono e decimo motivo di ricorso, in relazione all’assunta violazione del principio di proporzionalità, con ogni conseguente riflesso anche in punto di illegittimità del licenziamento e del mobbing, ai sensi dell’ art. 360 n. 5 c.p.c, denunciandosi l’erronea e carente ricognizione della fattispecie considerata.
Con l’ultimo motivo, analogamente viene dedotto vizio motivazionale in merito alla valutazione delle varie condotte vessatorie ed ostili poste a fondamento sia dell’accertamento del mobbing e della conseguente richiesta di risarcimento del danno -anche a carico delle parti resistenti persone fisiche – da cui sarebbe dovuta conseguire la declaratoria di illegittimità del licenziamento e delle altre sanzioni disciplinari pure sotto il profilo della non proporzionalità dei detti provvedimenti rispetto ai fatti contestati.
Il ricorso è infondato.
Le censure sub 1) e 2) e 3) vanno trattate congiuntamente per la connessione delle questioni affrontate, sia pure nella differente articolazione di denunzie attinenti a violazione di norme ed a vizio di motivazione. Preliminarmente, si rileva che in merito alla dedotta violazione e falsa applicazione degli articoli della contrattazione collettiva nazionale di riferimento, il ricorrente, tra i documenti indicati come allegati al ricorso per cassazione menziona estratto degli arti 17 e 18 c.c.n.l. e non riporta, nel corpo del motivo di ricorso, neanche il contenuto di tali articoli che sarebbe stato suo onere produrre con il testo dell’intero c.c.n.l. secondo le norme che regolano il procedimento in cassazione. Ciò contrasta con il principio affermato da questa Corte, secondo cui l’art. 369, secondo comma, n. 4, cod. proc. civ., nella parte in cui onera il ricorrente (principale od incidentale), a pena di improcedibilità del ricorso, dì depositare i contratti od accordi collettivi di diritto privato sui quali il ricorso si fonda, va interpretato nel senso che, ove il ricorrente denunci, con ricorso ordinario, la violazione o falsa applicazione di norme dei contratti ed accordi collettivi nazionali di lavoro ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 3, cod. proc. civ. (nel testo sostituito dall’art. 2 del d.lgs. n. 40 del 2006), il deposito suddetto deve avere ad oggetto non solo l’estratto recante le singole disposizioni collettive invocate nel ricorso, ma l’integrale testo del contratto od accordo collettivo di livello nazionale contenente tali disposizioni, rispondendo tale adempimento alla funzione nomofilattica assegnata alla Corte di cassazione nell’esercizio del sindacato di legittimità sull’interpretazione della contrattazione collettiva di livello nazionale (cfr. Cass., s. u. 23 settembre 2010 n. 20075; conf. v. Cass 15 ottobre 2010 n. 21358). Più di recente, è stato, poi, osservato che, in tema di giudizio per cassazione, l’onere del ricorrente, di cui all’art. 369, secondo comma, n. 4, cod. proc. civ., così come modificato dall’art. 7 del d.lgs. 2 febbraio 2006, n. 40, di produrre, a pena di improcedibilità del ricorso, “gli atti processuali, i documenti, i contratti o accordi collettivi sui quali il ricorso si fonda” è soddisfatto, sulla base del principio di strumentalità delle forme processuali, quanto agli atti e ai documenti contenuti nel fascicolo di parte, anche mediante la produzione del fascicolo nel quale essi siano contenuti e, quanto agli atti e ai documenti contenuti nel fascicolo d’ufficio, mediante il deposito della richiesta di trasmissione di detto fascicolo presentata alla cancelleria del giudice che ha pronunciato la sentenza impugnata e restituita al richiedente munita di visto ai sensi dell’art. 369, terzo comma, cod. proc. civ., ferma, in ogni caso, l’esigenza di specifica indicazione, a pena di inammissibilità ex art. 366, n. 6, cod. proc. civ., degli atti, dei documenti e dei dati necessari al reperimento degli stessi, (cfr. Cass.,s. u. 3.11.2011 n. 22726).
Con riguardo alle ulteriori deduzioni, deve osservarsi che la lettera di licenziamento richiama il contenuto delle due contestazioni nelle quali vi è specifico richiamo alla recidiva e tanto basta a ritenere soddisfatto l’onere di conoscibilità, da parte del lavoratore, delle condotte addebitategli nel provvedimento espulsivo con specifico richiamo alle contestazioni disciplinari di cui alla lettera del 10.6.2003 e del successivo telegramma de! 11.6.2003, con possibilità di estendere la valutazione del giudice, ai fini dell’esame della legittimità del recesso, oltre che ai quattro episodi ascritti, a condotte precedenti, richiamate in funzione della contestata recidiva. Vale al riguardo richiamare i principi affermati con sentenza di questa Corte 9.2. 2006 n. 2851, secondo cui, nel procedimento disciplinare a carico del lavoratore, l’essenziale elemento di garanzia in suo favore è dato dalla contestazione dell’addebito, mentre la successiva comunicazione del recesso ben può limitarsi a far riferimento sintetico a quanto già contestato, non essendo tenuto il datore di lavoro, neppure nel caso in cui il contratto collettivo preveda espressamente l’indicazione dei motivi, ad una motivazione “penetrante”, analoga a quella dei provvedimenti giurisdizionali, né in particolare è tenuto a menzionare nel provvedimento disciplinare le giustificazioni fornite dal lavoratore dopo la contestazione della mancanza, e le ragioni che lo hanno indotto a disattenderle.
Quanto al quarto ed al quinto motivo, attinenti alla questione dell’incapacità dei testimoni escussi, ai sensi dell’art. 246, c.p.c, il giudice del gravame ha ampiamente motivato sulla posizione di alcuni dei convenuti come testi (C., G., B. e R.), osservando che gli stessi erano convenuti con riguardo soltanto ad alcune delle domande del C., nelle quali si assumeva il loro ruolo di persecutori, senza che tale posizione sussistesse anche in ordine alle vicende del licenziamento e delle sanzioni disciplinari, rilevando, altresì, che “nel caso in oggetto e per la più parte delle domande non vi era poi un interesse concreto ed attuale da parte di tali persone al corso del procedimento tale da coinvolgerle nel rapporto controverso e da giustificare l’assunzione da parte delle stesse della veste di parti vere e proprie”. Orbene, risulta bene evidenziato che non poteva essere invocato il divieto sancito dall’art. 246 c.p.c. con riguardo alla domanda riguardante il licenziamento, rispetto alla quale le indicate persone erano estranee, non potendo intervenire nel relativo giudizio, perché non titolari di nessun interesse, neppure ad adiuvandum, che potesse legittimare una loro partecipazione. Il giudizio, infatti, limitatamente al recesso, ha un solo oggetto, riguardante la sua impugnazione e diretto ad ottenere la pronunce reintegratone e risarcitone nei confronti dell’azienda (v., sia pure in relazione ad ipotesi non del tutto sovrapponibile, Cass. 28.7.2010 n. 17630). Rispetto ad esso, l’accertamento da compiere – proprio perché funzionale alla verifica della legittimità del licenziamento del C. – ben poteva richiedere l’approfondimento dei fatti posti a suo fondamento attraverso il ricorso alla testimonianza di colleghi, presenti al verificarsidei fatti stessi. Potevano sussistere, semmai, motivi per mettere in dubbio l’attendibilità di tali colleghi come testi, in ragione del loro diretto coinvolgimento in posizione di parti in relazione al procedimento conseguente alla domanda di risarcimento dei danni da mobbing, ma non per escludere a priori l’assunzione della loro deposizione. Al riguardo la Corte di Trieste si è pronunciata ritenendo che le perplessità del ricorrente sull’obiettività dei testi trovava smentita indiretta nell’esito del dei procedimenti penali radicati a carico del Santarossa e del G. su querela del C., definiti con sentenza di assoluzione per insussistenza del fatto.
Tale argomentazione non è stata fatta oggetto di specifica censura, sicché il rilievo per come prospettato deve essere disatteso alla luce di quanto sopra detto con riguardo alla capacità a testimoniare. Per quel che riguarda quest’ultima rileva per di più il Collegio che la valutazione del giudice di merito in ordine all’inesistenza, da parte del testimone, dell’interesse che potrebbe legittimare la partecipazione dello stesso al giudizio involge apprezzamenti di fatto, ed è conseguentemente rimesso al giudice di merito, essendo pertanto insindacabile in sede di legittimità, se congruamente motivato (Cass. 3.10.2007 n. 20731, Cass. 19.1.2007 n. 1188; Cass. 20.1.2006 n. 1101; Cass. 18.3.1989 n. 1369).
Anche in relazione alla dedotta violazione e falsa applicazione dell’art. 421 , ult. comma, c.p.c, deve pervenirsi ad analoghe conclusioni sfavorevoli al ricorrente, tenuto conto della circostanza che la motivazione in ordine alla legittimità del ricorso a tale incombente istruttorio ha assunto una valenza meramente residuale e sicuramente non riferibile all’accertamento dei fatti posti a fondamento della domanda di illegittimità del licenziamento, anche perché deve ritenersi principio condivisibile quello già affermato al riguardo dalla giurisprudenza di questa Corte (v. Cass. 8.4.1994 n. 3302), secondo cui la facoltà del giudice di ordinare la comparizione di persone incapaci di testimoniare a norma dell’art. 246 cod. proc. civ., può essere esercitata, secondo le previsioni dell’ultimo comma dell’art. 421 dello stesso codice, solo quando sia incontestato o sia rimasto accertato l’interesse del terzo alla causa che potrebbe legittimare la sua partecipazione al giudizio e sempreché il provvedimento del giudice sia giustificato da una motivata situazione di necessità che renda indispensabile il libero interrogatorio sui fatti di causa.
Il sesto motivo va disatteso in forza della considerazione che il pregiudizio al diritto di difesa non può collegarsi alla mancata menzione della contestazione dell’addebito delle generalità delle altre persone presenti ai fatti, oltre quelle dì coloro che si assume essere stati protagonisti dei fatti e che con il loro comportamento mobbizzante avrebbero determinato i comportamenti oggetto di contestazione e di successive sanzioni da cui sarebbe scaturito il successivo licenziamento. Al riguardo deve rilevarsi la genericità della prospettazione del motivo che, come riassunto nel quesito di diritto, non è idoneo ad evidenziare la lamentata violazione della norma dello statuto invocata e delle regole di correttezza e buona fede, atteso che, se è vero che la previa contestazione dell’addebito, necessaria in funzione di tutte le sanzioni disciplinari, avendo lo scopo di consentire al lavoratore l’immediata difesa, deve conseguentemente rivestire il carattere della specificità, è pur vero che tale carattere è integrato quando sono fornite le indicazioni necessarie ed essenziali per individuare, nella sua materialità, il fatto o i fatti nei quali il datore di lavoro abbia ravvisato infrazioni disciplinari o comunque comportamenti in violazione dei doveri di cui agli arti 2104 e 2105 cod. civ. (cfr. Cass. 30.3.2006 n. 2546). L’accertamento relativo al requisito della specificità della contestazione costituisce, inoltre, oggetto di un’indagine di fatto, incensurabile in sede di legittimità, salva la verifica di logicità e congruità delle ragioni esposte dal giudice di merito (cfr. Cass. 2546/2006 cit.).
Con il settimo e con l’ottavo motivo, si mira, nella sostanza, a valorizzare una situazione precedente ai fatti contestati che avrebbe giustificato il comportamento del dipendente sanzionato con il licenziamento. Ma l’esclusione da parte della Corte del merito di alcuni dei fatti, a prescindere dalla veridicità della mancata considerazione di altri, incide sulla complessiva configurabilità del mobbing, che deve essere caratterizzato dalla molteplicità di comportamenti di carattere persecutorio, illeciti o anche leciti se considerati singolarmente, che siano stati posti in essere in modo miratamente sistematico e prolungato contro il dipendente con intento vessatorio, dall’evento lesivo della salute o della personalità del dipendente, dal nesso eziologico tra la condotta del datore o del superiore gerarchico e il pregiudizio all’integrità psico-fisica del lavoratore e dalla prova dell’elemento soggettivo, cioè dell’intento persecutorio (cfr. Cass. 17.2.2009 n. 3785), elementi che, nella specie, secondo la articolata motivazione resa in proposito dal giudice del merito, non erano tutti ravvisabili. Peraltro, in relazione alla censurata mancata ammissione di prove relative a circostanze quali i reiterati trasferimenti, l’isolamento e l’inattività che avrebbero caratterizzato la vicenda lavorativa del C., il diniego alla ripresa del lavoro nel gennaio 2000, vale osservare che le censure mirano a sollecitare una rivisitazione del merito, non consentita nella presente sede di legittimità, posto che il ricorso per cassazione, con il quale si facciano valere vizi di motivazione della sentenza, impugnata a norma dell’art. 360 n. 5 cod. proc. civ., deve contenere – in ossequio al disposto dell’art. 366 n. 4 cod. proc. civ., che per ogni tipo di motivo pone il requisito della specificità sanzionandone il difetto – la precisa indicazione di carenze o lacune nelle argomentazioni sulle quali si basano la decisione o il capo di essa censurato, ovvero la specificazione d’illogicità, consistenti nell’attribuire agli elementi di giudizio considerati un significato fuori dal senso comune, od ancora la mancanza di coerenza fra le varie ragioni esposte, quindi l’assoluta incompatibilità razionale degli argomenti e l’insanabile contrasto degli stessi. Onde che risulta inidoneo allo scopo il far valere la non rispondenza della ricostruzione dei fatti operata dal giudice del merito all’opinione che di essi abbia la parte ed, in particolare, il prospettare un soggettivo preteso migliore e più appagante coordinamento dei molteplici dati acquisiti, atteso che tali aspetti del giudizio, interni all’ambito della discrezionalità di valutazione degli elementi di prova e dell’apprezzamento dei fatti, attengono al libero convincimento del giudice e non ai possibili vizi dell”‘iter” formativo dì tale convincimento rilevanti ai sensi della norma in esame. Diversamente, si risolverebbe il motivo di ricorso per cassazione ex art. 360 n.5 cod. proc. civ. in un’inammissibile istanza di revisione delle valutazioni effettuate ed, in base ad esse, delle conclusioni raggiunte dal giudice del merito; cui, per le medesime considerazioni, neppure può imputarsi d’aver omesso l’esplicita confutazione delle tesi non accolte e/o la particolareggiata disamina degli elementi di giudizio ritenuti non significativi, giacché ne l’una ne l’altra gli sono richieste, mentre soddisfa l’esigenza di adeguata motivazione che il raggiunto convincimento risulti da un esame logico e coerente di quelle, tra le prospettazioni delle parti e le emergenze istruttorie, che siano state ritenute di per sé sole idonee e sufficienti a giustificarlo (in tali termini, cfr. Cass. 23 maggio 2007 n. 120520). Nella specie non risulta che la doglianza abbia evidenziato i profili di omissione, insufficienza o contradittorietà della motivazione nei termini consentiti in sede di legittimità, indicati dalla pronunzia di legittimità richiamata.
In ordine al rilievo afferente alla mancata ammissione di c.t.u. da parte del giudice, di cui si asserisce l’indispensabilità, la relativa decisione è incensurabile in sede di legittimità sotto il profilo del vizio di motivazione, laddove la consulenza sia finalizzata ad esonerare la parte dall’onere della prova o richiesta a fini esplorativi alla ricerca di fatti, circostanze o elementi non provati ( v. Cass. 5/07/2007 n. 15219).
Anche i vizi della motivazione denunziati nei motivi nono decimo ed undicesimo del ricorso si risolvono in critiche alla ricostruzione della fattispecie in fatto ed in diritto operata dal giudice del gravame, confermativa di quella del giudice di primo grado, senza che vengano evidenziati specifici vizi di illogicità e lacune motivazionali che inficino l’impianto complessivo della decisione.
Giova in proposito rilevare che, in ordine ai criteri che il giudice deve applicare per valutare la sussistenza o meno di una giusta causa di licenziamento, la giurisprudenza è pervenuta a risultati sostanzialmente univoci, affermando ripetutamente (come ripercorso in Cass., n. 5095 del 2011 e da ultimo ribadito da Cass. 26.4.2012 n. 6498) che, per stabilire in concreto l’esistenza di una giusta causa di licenziamento, che deve rivestire il carattere di grave negazione degli elementi essenziali del rapporto di lavoro, ed in particolare di quello fiduciario, occorre valutare, da un lato, la gravità dei fatti addebitati al lavoratore, in relazione alla portata oggettiva e soggettiva dei medesimi, alle circostanze nelle quali sono stati commessi ed all’intensità dell’elemento intenzionale, dall’altro la proporzionalità fra tali fatti e la sanzione inflitta, stabilendo se la lesione dell’elemento fiduciario su cui si basa la collaborazione del prestatore di lavoro sia in concreto tale da giustificare o meno la massima sanzione disciplinare. È stato, altresì, precisato (Cass., n. 25743 del 2007) che il giudizio di proporzionalità o adeguatezza della sanzione dell’illecito commesso -istituzionalmente rimesso al giudice di merito – si sostanzia nella valutazione della gravità dell’inadempimento imputato al lavoratore in relazione al concreto rapporto e a tutte le circostanze del caso, dovendo tenersi al riguardo in considerazione la circostanza che tale inadempimento deve essere valutato in senso accentuativo rispetto alla regola generale della “non scarsa importanza” di cui all’art. 1455 ce, sicché l’irrogazione della massima sanzione disciplinare risulta giustificata soltanto in presenza di un notevole inadempimento degli obblighi contrattuali (L. n. 604 del 1966, art. 3) ovvero addirittura tale da non consentire la prosecuzione neppure provvisoria del rapporto (art. 2119 c.c.).
In tema di ambito dell’apprezzamento riservato al giudice del merito, è stato condivisibilmente affermato (cfr. fra le altre, Cass. n. 8254 del 2004 e, da ultimo Cass. 6498/2012 cit.) che la giusta causa di licenziamento, quale fatto che non consente la prosecuzione, neppure provvisoria, del rapporto, è una nozione che la legge, allo scopo di un adeguamento delle norme alla realtà da disciplinare, articolata e mutevole nel tempo, configura con una disposizione (ascrivibile alla tipologia delle ed, clausole generali) di limitato contenuto, delineante un modello generico che richiede di essere specificato in sede interpretativa mediante la valorizzazione sia di fattori esterni relativi alla coscienza generale, sia di principi che la stessa disposizione tacitamente richiama. Tali specificazioni del parametro normativo hanno natura giuridica e la loro disapplicazione è quindi deducibile in sede di legittimità come violazione di legge, mentre l’accertamento della concreta ricorrenza, nel fatto dedotto in giudizio, degli elementi che integrano il parametro normativo e le sue specificazioni, e della loro concreta attitudine a costituire giusta causa di licenziamento, si pone sul diverso piano del giudizio di fatto, demandato al giudice di merito e incensurabile in cassazione se privo di errori logici o giuridici. A sua volta, Cass. n. 9266 del 2005 ha ulteriormente precisato che l’attività di integrazione del precetto normativo di cui all’art. 2119 c.c., (norma ed. elastica) compiuta dal giudice di merito – ai fini della individuazione della giusta causa di licenziamento – mediante riferimento alla “coscienza generale”, è sindacabile in cassazione a condizione, però, che la contestazione del giudizio valutativo operato in sede di merito non si limiti ad una censura generica e meramente contrappositiva, ma contenga, invece, una specifica denuncia di non coerenza del predetto giudizio rispetto agli “standards”, conformi ai valori dell’ordinamento esistenti nella realtà sociale.
Al riguardo deve rilevarsi che la decisione impugnata di tale profilo appare rispettosa dei principi di diritto enunciati in materia da questa Corte, in quanto il giudice del gravame ha dato contezza delle ragioni poste a fondamento della stessa, richiamando i reiterati comportamenti scorretti assunti dal ricorrente, confermati nel corso dell’istruttoria (minacce ai colleghi di lavoro, insoddisfacente svolgimento del proprio lavoro, assunzione di un contegno “singolare” e non consono ad un luogo di lavoro, configurante insubordinazione), integranti le fattispecie normative contrattuali relative alle previsioni casistiche utili ai fini dell’individuazione della sanzione da comminarsi e ritenuti idonei, in generale, a ledere irrimediabilmente il vincolo fiduciario.
Anche le critiche avanzate in ordine alla giudizio di proporzionalità circa le sanzioni conservative è supportato da adeguato iter motivazionale, privo di salti logici ed immune da censure. Ed invero la giustificazione dei comportamenti sanzionati con richiamo all’esistenza di un intento e di un contegno persecutorio da parte della società ha trovato idonea smentita in base alle risultanze istruttorie ed anche il richiamo a valutazioni di carattere medico basate su dati amnenistici nella sostanza riferiti dallo stesso paziente è stato correttamente ritenuto irrilevante dal giudice del gravame, il quale ha evidenziato la mancanza di ogni connessione dei fatti valutati ai sensi degli artt. 16 e 17 c.c.n.l. con le condotte asseritamente poste in essere dalla controparte, ritenute prive delle connotazioni idonee alla configurabilità del mobbing.
Le esposte considerazioni conducono complessivamente al rigetto del ricorso.
Le spese di lite del presente giudizio seguono la soccombenza della società e degli altri intimati e si liquidano come da dispositivo.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese di lite del presente giudizio, liquidate in euro 3000,00 (tremila) per compensi professionali, euro 40,00 per esborsi, oltre accessori di legge.
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