Suprema Corte di Cassazione
sezione IV
sentenza 29 marzo 2016, n. 12679
Presidente Claudio D’Isa
Ritenuto in fatto
1. La Corte d’Appello di Catanzaro con sentenza in data 24.11.2014 dichiarava estinto per prescrizione il reato di omicidio colposo ascritto a D.V.L. in relazione al decesso di D.F.A.L. , avvenuto presso l’Unità Operativa di Chirurgia dell’Ospedale di (OMISSIS) ove si trovava ricoverata, confermando la condanna al risarcimento dei danni in favore delle parti civili.
2. Nell’esaminare il fondamento dell’azione civile proposta dai congiunti della vittima, la Corte territoriale riteneva fondata la ipotesi accusatoria ed accertata la responsabilità dell’imputato, che, nella qualità di aiuto primario, nonostante il peggioramento delle condizioni in cui versava la paziente, già sottoposta ad un intervento di colecistectomia per via laparoscopica, aveva omesso di disporre accertamenti diagnostici anche semplici che avrebbero consentito di accertare che era in atto una peritonite generalizzata, così che la D.F. , entrata in coma in conseguenza dello shock settico e trasferita presso l’Ospedale di (…), ove veniva correttamente effettuato un intervento chirurgico volto a tentare di recuperare un quadro patologico ormai irreversibile, decedeva in data 1.3.2004 per collasso cardio-circolatorio.
Analizzando in particolare i motivi di gravame i giudici d’appello respingevano l’eccezione di nullità della sentenza di primo grado, prospettata per violazione del diritto di difesa per mancata assunzione delle prove sollecitate ex art.507 c.p.p.; ribadivano le motivazioni svolte dal Tribunale con riferimento alle omissioni diagnostiche verificatesi nella fase post-operatoria, allorché una tempestiva e possibile diagnosi dell’insorta peritonite avrebbe consentito l’adozione di terapie con certezza idonee ad evitare la morte della paziente; ritenevano sussistente la posizione di garanzia – disattendendo la tesi difensiva secondo cui la gestione della paziente era stata assunta dal primario – sul rilievo che tra l’aiuto ed il primario non vi fosse un rapporto di subordinazione assoluto e vincolante, non rivestendo l’aiuto la posizione di mero esecutore di ordini.
3. Propongono unico ricorso il difensore e l’imputato in proprio lamentando violazione di legge e vizio di motivazione per mancata assunzione delle prove sollecitate ai sensi dell’art.507 c.p.p.; violazione di legge e carenza ed illogicità della motivazione quanto all’affermazione di responsabilità; violazione di legge, vizio di motivazione e travisamento della prova relativamente all’affermazione che il D. avrebbe potuto intervenire nel trattamento post-operatorio nonostante la paziente fosse stata seguita esclusivamente dal primario.
Considerato in diritto
4. Il ricorso va respinto.
5. Con il primo motivo si censura la pronuncia della Corte di Catanzaro di rigetto della eccezione di nullità della sentenza del Tribunale di (omissis) dovuta alla mancata assunzione delle prove richieste dalla difesa alla udienza del 15.2.2012 ex art. 507 c.p. nonché alla mancata concessione di un termine per esaminare alcuni documenti prodotti dal P.M. alla udienza del 25.2.2012 costituiti da certificati dei turni di servizio del reparto e attestato relativo alle funzioni esercitate dal primario.
Il motivo – già prospettato nell’atto di appello – non è fondato.
Invero, posto che l’ammissione di nuove prove ex art.507 c.p.p. costituisce una mera facoltà del giudice “se risulti assolutamente necessario” e non vincolata alle richieste della difesa, deve ritenersi corretto e condivisibile quanto argomentato sul punto dalla Corte territoriale, che nel respingere le censure contenute nell’atto di impugnazione – formulate peraltro sotto l’esclusivo profilo della pretesa nullità per violazione del diritto di difesa, senza alcuna richiesta di riapertura dell’istruttoria ex art.603 c.p.p. e senza sviluppare le ragioni dell’eventuale idoneità delle nuove prove ad influire sulla decisione ha ritenuto superflua sia l’escussione dei testi dott. C. , Direttore dell’U.O. di Chirurgia dell’Ospedale di (omissis) , e del dott. Ci. , Direttore Sanitario del medesimo Ospedale, indicati a mera conferma di due attestazioni già prodotte ed acquisite, sia l’audizione del consulente tecnico di parte (dopo le deposizioni dei periti nominati dal Tribunale), che non si era avvalso delle facoltà riconosciutegli dall’art.230 c.p.p. (in particolare non aveva presenziato né alle operazioni né all’escussione dei periti d’ufficio) e non aveva il diritto di esporre il proprio parere (come invece previsto dall’art. 233 c.p.p. nel caso in cui non fosse stata disposta perizia), non avendo neppure presentato una memoria tecnica. Quanto poi alla questione relativa alla mancata concessione di un termine per esaminare i documenti prodotti dal P.M. alla udienza del 25.2.2012, ed alla mancata ammissione di altra prova testimoniale sul ruolo esercitato dal primario dott. M. e sulla frequenza della sua presenza in reparto, la Corte ha ben chiarito come i documenti in parola non avessero avuto influenza sulla decisione in quanto riguardavano la qualifica degli imputati e la loro presenza il reparto nei giorni del ricovero della D.F. , circostanze acquisite e non contestate, come pure non era contestata e peraltro non aveva attinenza con i detti documenti la funzione svolta dal primario.
Deve poi ritenersi che l’eccezione di nullità per asserita violazione del diritto di difesa, prospettata nuovamente nel giudizio di legittimità quando il reato è stato già dichiarato prescritto, retrocede rispetto alla causa estintiva, rendendo incompatibile con il principio di cui all’art.129 c.p.p. l’inevitabile rinvio al giudice di merito (Sez. II, 23.1.2014 n. 3221 e Sez. V, 9.12.2014 n. 51135): dunque, la contestuale ricorrenza di una causa estintiva del reato e di una nullità processuale anche assoluta e insanabile, determina la prevalenza della prima, salvo che l’operatività della causa estintiva non presupponga specifici accertamenti e valutazioni riservati al giudice di merito, prevalendo in tal caso la nullità, in quanto funzionale alla necessaria rinnovazione del relativo giudizio (Sez. III, 19.1.2011 n. 1550), ipotesi che nella specie non si ravvisa.
6. Con il secondo motivo si censura per violazione di legge e vizio di motivazione il giudizio di colpevolezza dell’imputato, su cui la Corte si sofferma per decidere della impugnazione agli affetti civili ai sensi dell’art. 578 c.p.p..
Il profilo di colpa contestato al ricorrente attiene al periodo post operatorio e si atteggia in due condotte omissive: il non aver posizionato un secondo drenaggio e il non aver rilevato tempestivamente l’insorgenza di una peritonite generalizzata, conseguita alla situazione infettivo – infiammatoria locale, dovuta alla prima omissione.
Posta la decorrenza del termine di prescrizione al momento della sentenza di secondo grado – prescrizione cui il D. non ha rinunciato – l’invocata pronuncia assolutoria poteva essere adottata solo in caso di “evidenza”, conseguita ad una mera constatazione, della prova della non sussistenza del fatto o della non commissione dello stesso da parte dell’imputato ovvero di una delle altre ragioni di cui all’art. 129, secondo comma, c.p.p..
Questi gli aspetti analizzati dai giudici di merito: se, data la situazione clinica della paziente, il professionista si fosse trovato ad affrontare particolari difficoltà tecniche sia diagnostiche che terapeutiche; se il suo ruolo di aiuto primario di turno in reparto gli consentisse di intervenire; ed ancora se le condotte omesse, una volta attuate, avrebbero portato ad un effetto salvifico.
Su tutti questi punti la sentenza impugnata fornisce ampie risposte, corrette e congruamente motivate.
Il consulente del P.M. aveva concluso in modo netto per la sussistenza della colpa in relazione alla gestione della fase post-operatoria, rilevando che la complicanza insorta (peritonite) era stata affrontata con ritardo, nonostante la comparsa di segni clinici estremamente gravi, e precisamente la presenza di abbondante versamento libero in addome, evidenziato dall’esame ecografico eseguito a distanza di due giorni dall’intervento, e il quadro di shock ingravescente che aveva raggiunto il suo punto critico dopo nove giorni dall’intervento medesimo, tanto da rendere irreversibile il quadro patologico e condurre all’exitus della paziente, dopo un estremo tentativo di scongiurare l’evento con l’intervento chirurgico di urgenza eseguito nell’ospedale di (…).
Il giudizio del consulente del P.M. aveva poi trovato puntuale conferma nelle risultanze della perizia dibattimentale, la quale aveva posto in evidenza che fin dal (omissis) (la D.F. era stata ricoverata il giorno 17 per l’intervento di colicistectomia per via laparotomica) le condizioni della paziente avevano subito un drastico peggioramento e si presentavano tali da indurre, oltre che ad un preliminare esame chimico-fisico e batteriologico del liquido ascitico, esame mai richiesto, quanto meno all’effettuazione di un reintervento esplorativo (quello che poi venne effettuato, ma in ritardo), intervento che, se eseguito in tempo, avrebbe con certezza consentito di diagnosticare la peritonite in atto e, con criterio di probabilità prossimo alla certezza tecnica (quantificata la percentuale in dibattimento nella misura del 90%), avrebbe scongiurato la morte. I periti avevano quindi ritenuto censurabile la condotta dei sanitari responsabili della paziente nell’arco temporale dal (omissis) , per non aver posto diagnosi di peritonite, ovvero nel solo forte sospetto di questa, per non aver proceduto tempestivamente ad una revisione chirurgica (relaparotomia), prima che iniziasse l’insufficienza acuta multiorgano. Tanto, secondo i periti, aveva configurato un errore di diagnosi che aveva condizionato la valutazione terapeutica chirurgica e l’intero approccio clinico del caso e si era posto in relazione di causa diretta con l’exitus poi sopravvenuto, dopo un successivo ricovero in unità di rianimazione ed un secondo intervento di laparotomia.
Con motivazione immune da censure la Corte, facendo proprie le conclusioni del consulente del P.M. e dei periti nominati dal Tribunale, recepite non già acriticamente ma perché supportate da argomenti analitici e immuni da vizi logici, contro cui l’appello non aveva mosso specifiche censure, ha ritenuto sussistente la colpa medica, il nesso di causalità tra le contestate omissioni e l’evento ed ha argomentato in merito all’effetto salvifico delle condotte omesse, operando un corretto giudizio controfattuale.
7. Ulteriori doglianze del ricorrente riguardano la gestione della paziente che si sostiene facesse capo esclusivamente al primario dott. M. , che avrebbe continuato ad interessarsene anche nei giorni in cui era formalmente assente dal reparto e che, per legge e per prassi, era dunque l’unico a poter assumere le decisioni occorrenti per fronteggiare l’insorta complicanza.
La censura, già prospettata come motivo di appello, è stata disattesa sul rilievo che, quantunque competa al primario una posizione di garanzia nei confronti dei pazienti, dovuta alla sua posizione apicale, con il connesso potere-dovere di impartire istruzioni e direttive ed esercitare ogni verifica inerente alla loro attuazione, anche quando non è presente in reparto, deve comunque escludersi che tra l’aiuto e il primario esista un rapporto di subordinazione assoluto e vincolante, non essendo la posizione apicale dell’aiuto quella di mero esecutore di ordini.
Il ragionamento sviluppato dalla Corte territoriale non presenta il vizio denunciato in ricorso.
Già questa Corte – esaminando il ruolo del primario ed il rapporto con l’aiuto primario – ha affermato che in tema di responsabilità dei medici ospedalieri, ai sensi dell’art. 7 DPR 27.3.1968, n. 128 il primario può, in relazione ai periodi di legittima assenza dal servizio, imporre all’aiuto l’obbligo di informarlo ed ha diritto di intervenire direttamente; tuttavia quando, avvertito, abbia dichiarato di voler assumere su di sé la decisione del caso, l’aiuto non può restare inerte in attesa del suo arrivo ma, essendo titolare di un’autonoma posizione di garanzia, nei confronti dei pazienti, deve attivarsi secondo le regole dell’arte medica per rendere operativo ed efficace l’intervento del predetto primario, se del caso a quest’ultimo sostituendosi (così Sez.4, 7.6.2000 n. 7483 in cui si è ritenuto in particolare che l’aiuto deve procedere all’intervento a suo giudizio improcrastinabile). Se allora il primario può imporre un obbligo di informativa anche in assenza ed il potere di immediato intervento nel tempo di riposo o comunque di legittima assenza, dalla struttura logica della richiamata norma deve dedursi che nell’assenza o impedimento del primario, ogni decisione debba essere adottata dall’aiuto, anche quando il primario, doverosamente avvertito, dichiari di voler assumere su di sé la decisione del caso. In tale ipotesi, invero, all’aiuto spetta procedere secondo quanto occorra e non restare inerte nell’attesa dell’arrivo del primario, posto che su di lui cade l’obbligo di attivarsi secondo le regole dell’arte medica, ed egli è costituito nella posizione di garanzia verso il paziente, fino al momento in cui colui che è investito del primariato prenda in sua mano la situazione. Con l’ulteriore logica conseguenza che in assenza del primario l’aiuto deve, se a suo giudizio necessario, esercitare il ruolo di alter ego del primario che gli è proprio e che altrimenti resterebbe svuotato di ogni contenuto.
Nel caso che ci occupa, poiché l’imputato aveva seguito l’evoluzione postoperatoria della paziente essendo in servizio in reparto nei giorni tra il (omissis) , periodo in cui sono state accertate le omissioni diagnostiche e terapeutiche di cui si è detto, egli sarebbe dovuto intervenire e svolgere il doveroso ruolo di cura della paziente, anche se era stata trattata chirurgicamente dal primario: l’affidamento della D.F. alle cure del d. e dell’altro aiuto dott. P. deriva, come ben evidenziato dai giudici d’appello, dagli stessi turni di servizio effettuati in reparto dai detti medici nel giorni critici, nel corso dei quali, in particolare l’odierno ricorrente ebbe modo di constatare il progressivo peggioramento della situazione clinica della paziente, con la conseguenza che deve rispondere, al pari del primario, delle omissioni diagnostiche e terapeutiche e dei ritardi che hanno condotto al decesso. Del resto all’aiuto non si richiede un pedissequo e acritico atteggiamento di sudditanza rispetto alle scelte del medico in posizione apicale, con la conseguenza che deve fare tutto quanto in suo potere per impedire l’evento, segnalando eventuali omissioni o scelte non condivise, per le quali, mancando un dissenso, assume pari responsabilità (in tal senso Sez.4, 18.1.2000 n.556).
5. Ne deriva il rigetto del ricorso e la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali ed alla rifusione di quelle sostenute dalle parti civili, liquidate come da dispositivo.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali oltre alla rifusione delle spese in favore delle costituite parti civili che liquida in complessive Euro 6.500,00 oltre accessori come per legge.
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