Suprema Corte di Cassazione
sezione IV
sentenza 28 aprile 2014, n. 17826
Ritenuto in fatto
1. Il Gip del Tribunale di Genova applicava ai sensi dell’articolo 444 cod. proc. pen. a C.R. , imputato del reato di guida in stato di ebbrezza alcolica [art. 186, co. 2 lett. c) e co. 2 bis C.d.s.], la pena di mesi quattro di arresto ed Euro 3.400 di ammenda, sostituita la pena detentiva con la sanzione pecuniaria di Euro 30.000 di ammenda, concedendo la sospensione condizionale della pena ed ordinando la revoca della patente di guida e la confisca del veicolo.
2.1. Avverso tale decisione l’imputato propone ricorso per cassazione.
Premette l’esponente che alla pena applicata si è pervenuti previa concessione delle attenuanti generiche, giudicate equivalenti alla contestata aggravante. Da ciò deriva la necessità che la sanzione amministrativa accessoria sia quella che consegue al fatto come definito dalla sentenza, intendendo per tale – evidentemente – il reato base. Infatti, a ritenere diversamente “si porrebbe un serio problema di compatibilita con i principi costituzionali di uguaglianza…, offensività…, e soprattutto proporzionalità della pena”. Per altro profilo rileva che il PM aveva presto il consenso alla prospettazione difensiva che indicava nel reato di cui all’art. 186, co. 2 lett. c) quello per cui si chiedeva l’applicazione concordata della pena. Con riferimento, poi, alla disciplina generale delle sanzioni amministrative, il ricorrente richiama i principi espressi dalla legge n. 689/81 per sostenere che anche in materia di sanzioni amministrative il legislatore ha dato rilievo all’elemento soggettivo della condotta, alla personalità dell’autore e alla gravità del fatto.
In via di subordine l’esponente chiede che venga valutata la necessità di un rinvio alla Corte costituzionale per lo scrutinio di legittimità costituzionale alla luce degli artt. 3, 25, co. 2 e 27, co. 3 Cost..
2.2. Con istanza del 28.11.2013, l’esponente ha richiesto la celebrazione del procedimento in udienza pubblica o, in subordine, nelle forme di cui all’art. 127 cod. proc. pen., richiamando la giurisprudenza della Corte Europea dei diritti dell’uomo in ordine all’art. 6, par. 1 Cedu e alla inerenza al giusto processo la pubblicità del procedimento penale, condivisa dalla Corte costituzionale (sent. n. 93/2010).
Considerato in diritto
3. In via preliminare deve essere dato conto della decisione di rigetto, assunta in merito all’istanza di celebrazione del procedimento in udienza pubblica o in camera di consiglio “partecipata”.
La prospettazione difensiva, per quanto non nitidamente, chiama in causa da un canto il diritto alla pubblicità del processo, dall’altro il diritto al contraddittorio orale.
Orbene, a fronte della chiara lettera dell’art. 611 cod. proc. pen. la condivisione della tesi difensiva della necessità dell’udienza pubblica (si dirà più avanti della camera di consiglio partecipata) non potrebbe che tradursi in una denuncia della sospetta legittimità costituzionale della norme. Tuttavia il tema è già stato affrontato dal giudice delle leggi, che lo ha risolto in senso negativo.
Interpellata al riguardo della legittimità costituzionale dell’art. 4 I. 1423/56 e dell’art. 2-ter della legge n. 575 del 1965, nella parte in cui non consentono che, a richiesta di parte, il ricorso per cassazione in materia di misure di prevenzione venga trattato in udienza pubblica, la Corte costituzionale ha dichiarato non fondata la questione, sollevata in riferimento all’art. 117, primo comma, della Costituzione (sent. n. 80 del 2011).
Per la Corte il principio affermato dalla Corte di Strasburgo – e richiamato nelle decisioni poste a fondamento della censura di costituzionalità -, secondo il quale ai fini del rispetto del principio di pubblicità delle procedure giudiziarie, sancito dall’art. 6, paragrafo 1, della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, le persone coinvolte nei procedimenti per l’applicazione di misure di prevenzione debbono vedersi “almeno offrire la possibilità di sollecitare una pubblica udienza davanti alle sezioni specializzate dei tribunali e delle corti d’appello” (sentenza 13 novembre 2007, Bocellari e Rizza contro Italia), è riferito esclusivamente ai giudizi presso i tribunali e le corti d’appello, senza che si faccia alcun riferimento al giudizio davanti alla Corte di cassazione. Si tratta di una esclusione del tutto consapevole, perché riflette il generale orientamento della Corte Europea in tema di applicabilità del principio di pubblicità nei giudizi di impugnazione. Tale orientamento si esprime – ha osservato la Corte costituzionale – nell’affermazione per cui, al fine della verifica del rispetto del principio di pubblicità, occorre guardare alla procedura giudiziaria nazionale nel suo complesso: sicché, a condizione che una pubblica udienza sia stata tenuta in prima istanza, l’assenza di analoga udienza in secondo o in terzo grado può bene trovare giustificazione nelle particolari caratteristiche del giudizio di cui si tratta.
Ciò in quanto la valenza del controllo immediato del quisque de populo sullo svolgimento delle attività processuali, reso possibile dal libero accesso all’aula di udienza – uno degli strumenti di garanzia della correttezza dell’amministrazione della giustizia – si apprezza in modo specifico quando il giudice sia chiamato ad assumere prove, specialmente orali-rappresentative, e comunque ad accertare o ricostruire fatti; mentre si attenua grandemente allorché al giudice competa soltanto risolvere questioni interpretative di disposizioni normative. Pertanto, i giudizi di impugnazione dedicati esclusivamente alla trattazione di questioni di diritto possono soddisfare i requisiti di cui all’art. 6, paragrafo 1, della Convenzione, nonostante la mancata previsione di una pubblica udienza davanti alle corti di appello o alla corte di cassazione (ex plurimis, sentenza 21 luglio 2009, Seliwiak contro Polonia; Grande Camera, sentenza 18 ottobre 2006, Hermi contro Italia; sentenza 8 febbraio 2005, Miller contro Svezia; sentenza 25 luglio 2000, Tierce e altri contro San Marino; sentenza 27 marzo 1998, K.D.B. contro Paesi Bassi; sentenza 29 ottobre 1991, Helmers contro Svezia; sentenza 26 maggio 1988, Ekbatani contro Svezia).
Pertanto, la richiesta formulata dalla difesa del ricorrente in via principale non può che essere disattesa.
4. Ma altrettanto è da ritenersi quanto alla richiesta di svolgimento del procedimento nelle forme di cui all’art. 127 cod. proc. pen. Ancora una volta, a ritenere diversamente, dovrebbe enunciarsi una questione di legittimità costituzionale dell’art. 611 cod. proc. pen., in relazione al principio di oralità. Ma anche tale profilo è stato già vagliato da questa Corte, che con recente decisione ha affermato che “è manifestamente infondata l’eccezione di illegittimità costituzionale dell’art. 611 cod. proc. pen., per contrasto con i principi del contraddittorio e della parità delle parti, caratterizzanti il giusto processo (art. Ili, comma secondo, Cost.), nella parte in cui non prevede la pubblica udienza e l’intervento orale delle parti nei procedimenti che riguardano i ricorsi contro provvedimenti non emessi in dibattimento, in quanto il procedimento camerale assicura il contraddittorio cartolare tra le parti poste su un piano di parità attraverso la possibilità di presentare memorie e memorie di replica (Sez. 1, n. 42160 del 10/10/2012 – dep. 29/10/2012, De Stefano, Rv. 253812).
Questo Collegio condivide il giudizio espresso con la massima che precede.
5. Venendo quindi al merito del ricorso, va esplicato che esso è infondato.
5.1. In primo luogo va rammentato, a fronte della insistita affermazione del ricorrente per la quale “il reato per cui si procede” è quello di cui all’art. 186, co. 2 lett. c) C.d.s., che il giudizio di bilanciamento delle circostanze del reato presuppone la sussistenza di tali circostanze e non le elide; piuttosto ne disciplina gli effetti sul piano sanzionatorio. Pertanto è da escludere che il reato “ritenuto” dalla decisione impugnata sia quello “basico”: esso è invece proprio il reato circostanziato. La convergenza di circostanze di segno diverso (eterogenee) non tocca quindi la struttura del reato e ne influenza la traduzione sanzionatoria, che viene variamente modulata a secondo dell’esito del menzionato giudizio di comparazione.
Tanto ribadito è palese che di nessun pregio è il fatto che il P.M. si sia eventualmente manifestato concorde con l’errata asserzione difensiva.
5.2. Il quesito posto dal ricorso attiene in sostanza alla legittimità costituzionale di una disciplina che per effetto del giudizio di bilanciamento delle circostanze eterogenee permette una modulazione del trattamento sanzionatorio che attui i precetti costituzionali in tema di pena, ma limitatamente alle “pene criminali” e quindi non anche relativamente alle sanzioni amministrative accessorie al reato.
Infatti, non vi è alcun dubbio che la disciplina vigente delimiti l’ambito di esplicazione degli effetti del giudizio di bilanciamento in modo da farlo coincidere con il trattamento sanzionatorio penale. Detto altrimenti, le valutazioni relative al concorso di circostanze eterogenee sono in grado di produrre effetti sull’entità della pena principale (art. 69 cod. pen.) e sulle pene accessorie (art. 37 cod. pen.: si vd., ad esempio, Sez. 1, n. 12894 del 06/03/2009 – dep. 24/03/2009, De Vittorio, Rv. 243045), ma non sulle sanzioni amministrative che possono accedere al reato. Su tanto conviene lo stesso ricorrente, che infatti auspica una interpretazione diversa perché, si asserisce, “costituzionalmente orientata” o, ove ritenuta non praticabile siffatta via, la devoluzione della questione di legittimità costituzionale ai giudici della Consulta.
5.3. In realtà non è ravvisabile alcuna caduta di legalità costituzionale nella disciplina che importa l’irrilevanza del giudizio di bilanciamento delle circostanze del reato sul piano delle sanzioni amministrative accessorie al reato medesimo.
Come è stato puntualizzato dalla Corte costituzionale (cfr. ord. nn. 344/2004, 196/2010 e 266/2011) e dalle Sezioni Unite di questa Corte (sentenza n. 8488/1998) proprio con riguardo alla materia di talune violazioni penalmente rilevanti alle norme sulla circolazione stradale, la sanzione amministrativa accessoria al reato non cessa la propria natura di sanzione amministrativa per il fatto di essere posta a corredo di una violazione della legge penale. Ne consegue, secondo il costante insegnamento della Corte costituzionale, la decisiva rilevanza del principio per il quale tra illecito penale e illecito amministrativo si danno “sostanziali diversità rilevanti anche sul piano costituzionale – per la esclusiva riferibilità alla materia penale degli artt. 27 e 25, secondo comma, Cost. – e su quello della rispettiva disciplina ordinaria (facendosi, in quella amministrativa, ricorso anche a istituti di diritto civile)”, tali da non giustificare l’estensione all’illecito amministrativo del regime penalistico; nel caso scrutinato dalla Corte costituzionale, si trattava della disciplina concernente la continuazione dei reati (C. cost. ord. n. 421/1987, che ha anche rimarcato l’irrilevanza per l’illecito amministrativo dell’indagine psicologica diretta all’accertamento di un medesimo disegno criminoso; nell’occasione, non è inutile rammentarlo, i giudici della Consulta hanno dichiarato la manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale – in riferimento all’art. 3 Cost. – dell’art. 8 L. 24 novembre 1981, n. 689, nella parte in cui non estende all’illecito amministrativo il regime previsto, dall’art. 81 cod. pen., per il reato continuato; in particolare, sulla estraneità dei principi posti dall’art. 27, co. 3 Cost. alla materia delle sanzioni amministrative si vedano Corte cost. nn. 125/08, 196/08, 256/08).
Appartiene quindi alla discrezionalità del legislatore – sindacabile dal giudice delle leggi solo per l’irragionevolezza delle scelte – definire uno statuto della sanzione amministrativa che si discosti anche significativamente da quello previsto per il reato; e ciò anche quando, come nella legislazione nazionale, quello dell’illecito penale rappresenti l’archetipo dal quale si derivano profili e connotati da mutuare per le violazioni e le sanzioni amministrative (si vedano gli artt. 1 ss. L. n. 689/81).
Sulla scorta di tali premesse ricostruttive -in totale consonanza con quella costituzionale – la giurisprudenza di questa Corte ha escluso che produca effetti sul piano delle sanzioni amministrative la disciplina del reato continuato; sicché, ove si dia una pluralità di reati, commessi con più azioni od omissione esecutive di un medesimo disegno esecutivo, e si tratti di reati provvisti di sanzione amministrativa accessoria, non trova applicazione riguardo a quest’ultima, il cumulo giuridico bensì il cumulo materiale (vd., ex multis, sez. 4, 24.3.09, p.m. in proc. Simoncioni, Rv. 243877). A tale conclusione si è pervenuti muovendo dalla considerazione che “al cumulo delle sanzioni amministrative, sono inapplicabili le discipline tipicamente penalistiche, finalizzate a limitare l’inflizione di pene eccessive – art. 81 c.p. – o ad evitare restrizioni troppo ampie delle libertà personali – art. 307 c.p.p., comma 1 bis) (v. anche Conf. Sez. 4, 3.6.2003, P.G. in proc. Consani, Rv. 229097)”. E si è anche rimarcato che il principio non contrasta neppure con il menzionato art. 8 L. n. 698/1981 e che “la differenza morfologica tra reato ed illecito amministrativo non consente che, attraverso un procedimento di integrazione analogica, le norme previste in materia penale vengano tout court estese alla materia degli illeciti amministrativi” (Sez. 4, 6.5.09, El Khanza, n. 25933; Sez. 3, Sentenza n. 42993 del 13/10/2010, Pmt in proc. Guizzo, Rv. 248667).
5.4. La diversità di disciplina non appare irragionevole. Ancorché non possano essere negati i connotati schiettamente afflittivi delle sanzioni amministrative accessorie della sospensione e della revoca della patente, si tratta pur sempre di sanzioni che si giustificano diversamente dalle sanzioni penali. Come insegnato dalle S.U. (sent. n. 8488/1998), “le sanzioni amministrative accessorie, – a differenza di quelle definite dalla dottrina sanzioni in senso stretto (che assumono con primarietà la punizione del contravventore, come quelle pecuniarie) -, assolvono direttamente o indirettamente una funzione riparatoria dell’interesse pubblico violato, e sono definite, perciò, specifiche, ovvero ripristinatorie, o, come nel caso in esame, interdittive.
Queste sanzioni si affiancano alle pene criminali, quando il fatto considerato comporti offesa, ad un tempo, del valore tutelato dalla norma penale e dell’interesse pubblico a tale valore correlato. Tale sistema binario di deterrenza è volto a dare una risposta efficace, contemporaneamente repressiva e preventiva, rispetto a fatti poli-offensivi, ovvero dotati di una particolare pericolosità per la convivenza sociale e per gli interessi pubblici. La natura amministrativa della sanzione non muta quando il potere di applicare la sanzione venga attribuito al giudice;…la sanzione, quando viene applicata dal giudice, non può non conservare i connotati che contraddistinguono la sua peculiare essenza, incentrata tutta sulla tutela di un interesse di spettanza della pubblica amministrazione. E che la natura della sanzione non muta a secondo dell’autorità legittimata all’applicazione è dimostrato dal fatto che, quando la vis attractiva della competenza del giudice penale viene meno per estinzione del reato, la competenza rimane radicata in capo al prefetto. Viene cioè restituita all’amministrazione la legittimazione all’applicazione della sanzione”.
E sono state ancora le SU a puntualizzare che “il parametro dell’accertamento da cui consegue l’applicazione e la determinazione della misura della sanzione, in concreto, non possono che essere quelli previsti in generale per l’autorità amministrativa. Quanto al contenuto dell’accertamento… (esso) concerne, come previsto dallo stesso art. 224 comma 3, la sussistenza o meno delle condizioni di legge per l’applicazione della sanzione amministrativa accessoria…, cioè, stante l’automaticità di detta applicazione, la violazione commessa, la sua qualificazione secondo le tipologie legali, e la constatazione che relativamente ad essa deve applicarsi di diritto la sanzione amministrativa accessoria; tutti, questi, requisiti di legittimità del provvedimento sanzionatorio…. La normativa, in conclusione, rinvia l’effetto automatico dell’applicazione della sanzione accessoria ad un esito del procedimento penale, che presuppone un fatto al quale accede la sanzione amministrativa”.
6. Venendo al caso che occupa, deve quindi formularsi il seguente principio di diritto: “in tema di guida in stato di ebbrezza alcolica di cui all’art. 186, co. 2 lett. c) Cod. str., l’esito dell’eventuale giudizio di bilanciamento tra circostanze attenuanti e la concorrente circostanza aggravante di cui all’art. 186, co. 2bis Cod. str. non assume rilievo ai fini della individuazione della sanzione amministrativa accessoria da applicare, che è in ogni caso quella della revoca”.
Ne consegue che il giudice non è incorso in violazione di legge applicando la sanzione amministrativa accessoria prevista per l’ipotesi circostanziata del reato di guida in stato di ebbrezza alcolica, pur essendo stato eseguito il giudizio di bilanciamento di cui all’art. 69 cod. pen. con l’esito di una subvalenza della circostanza aggravante. Né è ravvisarle a riguardo delle norme in tema di circostanze del reato (artt. 59 ss. cod. pen.) un profilo di dubbia legittimità costituzionale, nella parte in cui non dispongono che l’esito del giudizio di bilanciamento proietta i propri effetti, oltre sulla pena principale e sulle pene accessorie, anche sulla sanzione amministrativa accessoria al reato.
In conclusione, il ricorso va rigettato ed il ricorrente deve essere condannato al pagamento delle spese processuali.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.
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