Suprema Corte di Cassazione
sezione III
sentenza 7 maggio 2014, n. 9864
Svolgimento del processo
1. Sb.Ro. propose opposizione, davanti al Tribunale di Roma, avverso due decreti con i quali gli era stato ingiunto il pagamento, rispettivamente, di L. 316.274.726 e di L. 35.953.210, in favore di S.M. , a titolo di prestiti non restituiti. Nei due atti di opposizione lo Sb. rilevò che le dazioni di denaro da parte della S. , sua ex convivente, erano state determinate dal desiderio di aiutarlo in un momento contingente di difficoltà.
La S. si costituì in entrambi i giudizi, contestando la tesi dell’opponente.
Il Tribunale, riuniti i giudizi, revocò i due decreti ingiuntivi e condannò lo Sb. al pagamento, in favore della S. , della somma complessiva di Euro 102.258, nonché al pagamento dei tre quarti delle spese di giudizio.
2. La sentenza è stata appellata in via principale dallo Sb. e in via incidentale dalla S. , e la Corte d’appello di Roma, con pronuncia del 26 novembre 2009, in riforma di quella di primo grado, ha accolto l’appello principale ed ha respinto quello incidentale; ha respinto, perciò, tutte le domande della S. , che ha condannato al pagamento delle spese del doppio grado di giudizio.
Ha osservato la Corte territoriale che le richieste di restituzione erano state avanzate dalla S. solo dopo la cessazione della convivenza con lo Sb. , convivenza dalla quale era nato anche un figlio. Le attribuzioni patrimoniali, pertanto, avevano “sicuramente una componente che faceva leva sull’affetto e la solidarietà familiare, al fine di far funzionare meglio il menage”; il che trovava conferma nel fatto che la stessa S. – come risultava dal carteggio col suo difensore – non era stata in grado di determinare esattamente l’entità della somma. Tale (almeno parziale) finalità solidaristica obbligava la S. a dimostrare che il pagamento delle varie somme di denaro portate da assegni incassati dallo Sb. fosse da ritenere un prestito; ma di tale circostanza la S. non aveva fornito indizi chiari, precisi e concordanti.
Quanto alle varie missive delle parti con i rispettivi difensori e dei difensori tra di loro, la Corte – ferma restando l’inutilizzabilità di alcuni documenti già dichiarata dal Tribunale per tardività della produzione – ha osservato che dalle medesime non poteva ritenersi deducibile un qualche riconoscimento di debito, poiché si trattava di un carteggio ispirato dal desiderio di una composizione bonaria della vicenda.
3. Contro la sentenza della Corte d’appello di Roma propone ricorso S.M. , con atto affidato a quattro motivi.
Resiste Sb.Ro. con controricorso.
La ricorrente ha presentato memoria.
Motivi della decisione
1. Con il primo motivo di ricorso si lamenta, in riferimento all’art. 360, primo comma, n. 3), cod. proc. civ., falsa applicazione degli artt. 1988, 2729, 2730 e 2735 del codice civile.
Osserva la ricorrente che le dazioni di denaro da lei effettuate in favore dello Sb. non potevano trovare fondamento in un legame familiare che non era mai esistito; e comunque le spese che avevano determinato i pagamenti erano state sempre decise dall’ex convivente, il quale si trovava in crisi di liquidità.
Oltre a ciò, la corretta lettura dell’epistolario intercorso tra le parti – del quale la ricorrente riporta alcune missive ritenute più significative – dimostrerebbe che il giudice di merito ha errato nella ricostruzione della vicenda, poiché lo Sb. aveva in più occasioni riconosciuto l’esistenza di un debito.
1.1. Il motivo non è fondato.
La giurisprudenza di questa Corte ha affermato che le missive antecedenti l’inizio del processo e le affermazioni contenute negli atti processuali provenienti dal legale della parte non hanno valore confessorio, ma solo carattere indiziario, e come tali possono essere legittimamente utilizzate e liberamente valutate dal giudice ai fini della formazione del proprio convincimento (sentenza 8 agosto 2002, n. 11946); come pure ha più volte ribadito che le dichiarazioni rese dal difensore, anche in giudizio, contenenti affermazioni relative a fatti sfavorevoli al proprio rappresentato e favorevoli all’altra parte non hanno efficacia di confessione ma costituiscono elementi di libero apprezzamento da parte del giudice di merito (sentenze 16 ottobre 2003, n. 15515, e 8 maggio 2012, n. 7015). Il che, tra l’altro, è in linea con il principio del nostro diritto processuale secondo cui la confessione, intesa nei termini di cui all’art. 2730 cod. civ., è atto di parte, sia essa spontanea oppure provocata tramite interrogatorio formale.
Nel caso di specie la Corte d’appello si è attenuta a tale giurisprudenza, compiendo una valutazione di merito che non viola le disposizioni di legge invocate nel ricorso; la sentenza, infatti, ha osservato che la corrispondenza intercorsa tra i legali delle due parti aveva la finalità di pervenire ad una soluzione del contenzioso esistente tra i due ex conviventi e che “non potevano essere estrapolate frasi al fine di fondare sulle medesime un riconoscimento del debito che in realtà non vi era stato”.
A fronte di queste osservazioni – peraltro non censurate in termini di vizio di motivazione – il motivo di ricorso in esame si risolve nell’evidente tentativo di ottenere da questa Corte, dietro l’apparente censura della violazione di legge, una nuova valutazione del merito, non consentita in sede di legittimità. Oltre tutto, è appena il caso di evidenziare che le missive il cui contenuto è in parte trascritto nel ricorso sono tutte di provenienza dei difensori e non della parte direttamente.
2. Con il secondo motivo di ricorso si lamenta, in riferimento all’art. 360, primo comma, n. 3), cod. proc. civ., violazione degli artt. 1813 e 1815 del codice civile.
Secondo la ricorrente, nel caso specifico esisteva tra le parti, a fondamento dei ripetuti prestiti, un vero contratto di mutuo, come la S. aveva dichiarato nel proprio interrogatorio, completamente ignorato dalla Corte d’appello.
2.1. Il motivo non è fondato.
La ricorrente, infatti, pretende di dimostrare l’esistenza di un contratto di mutuo richiamando, peraltro soltanto in parte, il contenuto del proprio interrogatorio formale. È evidente, quindi, che, a prescindere dal profilo dell’ammissibilità di tale interrogatorio – sul quale nel controricorso vi sono contestazioni – è decisivo il fatto che la pro se declaratio non può avere valore di prova legale, ma, semmai, di mero indizio soggetto alla libera valutazione del giudice di merito.
2.2. Va altresì ricordato che, come questa Corte ha affermato più volte, l’attore che chiede la restituzione di somme date a mutuo è, ai sensi dell’art. 2697, primo comma, cod. civ., tenuto a provare gli elementi costitutivi della domanda e, quindi, non solo la consegna ma anche il titolo della stessa, da cui derivi l’obbligo della vantata restituzione; l’esistenza di un contratto di mutuo, infatti, non può essere desunta dalla mera consegna di assegni bancari o somme di denaro (che, ben potendo avvenire per svariate ragioni, non vale di per sé a fondare una richiesta di restituzione), essendo l’attore tenuto a dimostrare per intero il fatto costitutivo della sua pretesa (sentenza 24 febbraio 2004, n. 3642). In altre parole, la circostanza che il convenuto ammetta di aver ricevuto una somma di denaro dall’attore, ma neghi che ciò sia avvenuto a titolo di mutuo, non costituisce una eccezione in senso sostanziale, sì da invertire l’onere della prova; con la conseguenza, pertanto, che rimane fermo a carico dell’attore l’onere di dimostrare che la consegna del denaro è avvenuta in base ad un titolo (mutuo) che ne imponga la restituzione (v., da ultimo, la sentenza 13 marzo 2013, n. 6295).
3. Con il terzo motivo di ricorso si lamenta, in riferimento all’art. 360, primo comma, n. 3), cod. proc. civ., falsa applicazione degli artt. 769 e 782 del codice civile.
Risulterebbe dal complessivo comportamento delle parti che tra le stesse era intercorso un contratto di mutuo; i versamenti di denaro, infatti, non potevano costituire né un’obbligazione naturale né una donazione di modico valore, imponendo quest’ultima l’uso della forma scritta. La prova di ciò risiederebbe, tra l’altro, nel fatto che la S. , nel consegnare allo Sb. gli assegni da lui poi incassati, aveva sempre preteso che questi le rendesse la ricevuta bancaria dell’incasso.
3.1. Il motivo non è fondato.
Oltre a quanto già rilevato a proposito dei motivi precedenti – con argomentazioni che sarebbero di per sé sufficienti al rigetto anche di questo motivo – è palese che non sussiste l’invocata violazione di legge, perché per le donazioni di modico valore aventi ad oggetto beni mobili è sufficiente la traditio, anche in mancanza di atto pubblico (art. 783 cod. civ.); e, d’altra parte, è circostanza pacifica in causa il fatto che i versamenti di denaro non avvennero tutti in un’unica soluzione, bensì in circostanze diverse e distanziate nel tempo, sicché sarebbe stato onere della parte ricorrente dimostrare, in sede di merito, il carattere non modico dei singoli versamenti.
Per ciò che riguarda, invece, il valore da attribuire alle ricevute che la S. si sarebbe fatta consegnare dallo Sb. al momento dell’incasso delle somme in banca, si tratta di una valutazione sulle prove che questa Corte non può compiere; e comunque, ove pure tale profilo fosse fondato, ciò non potrebbe mai tradursi nella violazione delle richiamate disposizioni di legge in tema di donazione.
4. Con il quarto motivo di ricorso si lamenta, in riferimento all’art. 360, primo comma, n. 3), cod. proc. civ., violazione dell’art. 183 del codice di procedura civile.
Osserva la ricorrente che nel giudizio di primo grado il Tribunale aveva riunito le due opposizioni ai due decreti ingiuntivi. Nel fare ciò, quel giudice aveva erroneamente ritenuto che alcuni documenti fossero stati depositati fuori termine, in tale modo facendo “prevalere un discutibile precetto formale su quello sostanziale, prescindendo dalla natura dei giudizi, già riuniti”. Da tanto consegue che la declaratoria di inammissibilità sarebbe errata, con conseguente necessità di acquisizione di tutti i documenti espunti dal Tribunale.
4.1. Il motivo non è fondato.
Come risulta dal tenore della sentenza impugnata, la S. aveva svolto appello incidentale al solo scopo di vedersi riconoscere una somma maggiore rispetto a quella liquidata dal Tribunale; non risulta però – né il motivo in esame lo sostiene in alcun modo – che l’errore procedurale asseritamente compiuto in primo grado sia stato fatto valere in sede di appello, il che implica che il punto non può più essere posto in discussione in questa sede.
Oltre a ciò, il motivo non contiene alcuna indicazione, neppure generica, volta a dimostrare la presunta decisività delle prove che sono state escluse dal Tribunale per la tardività della produzione.
5. In conclusione, il ricorso è rigettato.
In considerazione, tuttavia, della particolarità della vicenda e degli alterni esiti dei giudizi di merito, la Corte stima equo procedere all’integrale compensazione delle spese del giudizio di cassazione.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e compensa integralmente le spese del giudizio di cassazione.
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