Suprema Corte di Cassazione
sezione III
sentenza 7 aprile 2016, n. 6791
Ritenuto in fatto
1. – Con decreto reso pubblico in data 10 marzo 2014, la Corte di appello di L’Aquila ha rigettato il reclamo, proposto ai sensi della legge n. 117 del 1988 dalla P. s.r.l. avverso il decreto del Tribunale della stessa Città, in data 7 marzo 2011, che, a sua volta, aveva dichiarato inammissibile, ai sensi dell’art. 5 della suindicata legge, l’azione risarcitoria promossa dalla stessa società P. in relazione alla condotta del giudice unico del Tribunale di Ancona, il quale, con sentenza dell’8 aprile 2003 (poi totalmente riformata dalla Corte di appello di Ancona con sentenza del 28 febbraio 2009), aveva respinto la domanda di risarcimento danni per vizi e difetti ai sensi dell’art. 1669 cod. civ. avanzata dalla P. s.r.l. contro la Calzolari s.r.l. per ritenuta maturazione del termine di prescrizione annuale tra la data di contestazione dei vizi (21 marzo 1996) e quella dell’atto di citazione (10 aprile 1997), assumendo che “le successive missive inviate dalla P. s.r.l. alla Calzollari s.r.l. non avessero interrotto l’oggettivo decorso del tempo, trattandosi di contestazioni a cascata l’actio de qua non conoscerebbe mai alcuna prescrizione”.
1.1. – La Corte territoriale – premessa una ampia ricognizione delle giurisprudenza di legittimità in ordina alla portata applicativa dell’art. 2 della legge n. 117 del 1988 (conducente ad escludere dal relativo ambito il momento valutativo dell’individuazione del contenuto delle norme e dell’accertamento del fatto, anche se ove opinabili, salvo la violazione macroscopica e grossolana della norma) – osservava che la decisione del giudice unico del Tribunale di Ancona, seppure ritenuta erronea in secondo grado, si era comunque estrinsecata in una attività interpretativa di norme di diritto sottratta all’area della responsabilità di cui alla legge n. 117 del 1988. Essa, infatti, aveva evidenziato, sebbene in forza di una giurisprudenza risalente (Cass. n. 1352 del 1954) e successivamente superata, “le ragioni della ritenuta diversa operatività, rispetto ai principi generali, nell’ambito delle situazioni disciplinate dall’art. 1669 c.c., dell’istituto dell’interruzione della prescrizione”. Sicché, soggiungeva il giudice del reclamo, l’interpretazione denunciata rientrava “in una gamma di possibili opzioni ermeneutiche, tali da non consentire di intravederne (non tanto l’erroneità, quanto) l’evidente abnormità”.
2. – Per la cassazione di tale decreto ricorre la P. s.r.l. sulla base di un unico motivo, illustrato da memoria.
Resiste lo Stato italiano, in persona del Presidente del Consiglio dei ministri.
Considerato in diritto
1. – Con l’unico mezzo è denunciata violazione e falsa applicazione degli artt. 2 e 5, comma 3, della legge n. 117 del 1988.
La Corte territoriale avrebbe erroneamente applicato l’art. 2 della legge n. 117 del 1988, giacché l’interpretazione fornita dal giudice unico del Tribunale di Ancona (sul fatto che la missiva del 13 maggio 1996, successiva alla prima del 21 aprile 1996, non interromperebbe il termine di prescrizione di cui al secondo comma dell’art. 1669 cod. civ., “trattandosi di contestazioni successive a quella iniziale; altrimenti con il sistema delle c.d. contestazioni a cascata, l’actio de qua non conoscerebbe mai alcuna prescrizione”) integrerebbe non già mera attività di interpretazione delle norme, ma violazione macroscopica e grossolana delle disposizioni in tema di interruzione della prescrizione, neppure sorretto dal citato risalente precedente giurisprudenziale (Cass. n. 1342 del 1954), che atteneva soltanto alla natura del termine previsto dall’art. 1669 cod. civ..
Si tratterebbe, dunque, di decisione abnorme, non rinveniente alcun riferimento nell’elaborazione giurisprudenziale e dottrinale e alcuna giustificazione logica-giuridica.
2. – Il motivo è fondato.
2.1. – È jus receptum (tra le tante, Cass., 26 luglio 1994, n. 6950; Cass., 5 luglio 2007, n. 15227; Cass., 18 marzo 2008, n. 7272; Cass., 14 febbraio 2012, n. 2107; Cass., 5 febbraio 2013, n. 2637) che la responsabilità prevista dalla legge 13 aprile 1988 n. 117, ai fini della risarcibilità del danno cagionato dal magistrato nell’esercizio delle funzioni giudiziarie, è incentrata sulla colpa grave del magistrato stesso, tipizzata secondo ipotesi specifiche ricomprese nell’art. 2 della citata legge (nel testo, applicabile ratione temporis alla presente controversia, previgente alla novella di cui alla legge n. 18 del 2015), le quali sono riconducibili al comune fattore della negligenza inescusabile, che implica la necessità della configurazione di un quid pluris rispetto alla colpa grave delineata dall’art. 2236 cod. civ., nel senso che si esige che la colpa stessa si presenti come “non spiegabile”, e cioè priva di agganci con le particolarità della vicenda, che potrebbero rendere comprensibile, anche se non giustificato, l’errore del magistrato.
In altri termini, i presupposti della responsabilità di cui al citato art. 2, devono ritenersi sussistenti allorquando nel corso dell’attività giurisdizionale si sia concretizzata una violazione evidente, grossolana e macroscopica della norma stessa ovvero una lettura di essa in termini contrastanti con ogni criterio logico o l’adozione di scelte aberranti nella ricostruzione della volontà del legislatore o la manipolazione assolutamente arbitraria del testo normativo o ancora lo sconfinamento dell’interpretazione nel diritto libero.
2.2. – Nella specie, la postulata inefficacia, in astratto, di successive “contestazioni” dei vizi dell’immobile costruito ai fini dell’interruzione del termine annuale di prescrizione di cui all’art. 1669, secondo comma, cod. civ. (“Il diritto del committente si prescrive in un anno dalla denunzia”) costituisce – contrariamente a quanto ritenuto nel provvedimento impugnato in questa sede – una violazione macroscopica e grossolana delle norme implicate (art. 1669 e 2943 cod. civ.) nella decisione resa dal giudice unico del Tribunale di Ancona, non affatto supportate dal pur risalente precedente di legittimità evocato (Cass. n. 1342 del 1954 e non “n. 1352” come riportato nel decreto della Corte aquilana), il quale – sulla scorta del chiaro dettato normativo si limita soltanto a qualificare come di prescrizione il termine annuale anzidetto, senza aggiungere nessun argomento che possa sorreggere il peculiare ed abnorme percorso motivazionale seguito dal predetto Tribunale.
Quest’ultimo, nell’escludere la possibilità di interrompere la prescrizione di quel termine annuale, perché altrimenti esso non maturerebbe mai, viene a disconoscere la funzione stessa dell’istituto dell’interruzione di cui all’art. 2943 cod. civ., il quale – operando su un articolato meccanismo – consente al titolare del diritto di credito (nel caso all’esame, il committente nei confronti dell’appaltatore) di conservarne la possibilità di esercizio (altrimenti soggetta ad estinzione) attraverso specifiche manifestazioni di volontà in tal senso (ossia di voler esercitare il diritto stesso), quali, segnatamente, la proposizione di domanda in giudizio o la costituzione in mora del debitore.
Del resto, in tale evidente ottica si è pronunciata anche questa Corte (tra le altre, Cass., 22 febbraio 2000, n. 1955), là dove ha rimarcato che il termine annuale previsto dall’art. 1669, secondo comma, per l’esercizio del diritto del committente ad essere risarcito dei correlativi danni, decorrente dalla denunzia di rovina o di pericolo di rovina, o di gravi difetti dell’immobile, è, per espressa definizione normativa, un termine prescrizionale, con la conseguenza che, a norma dell’art. 2943 cod. civ., il relativo decorso viene interrotto non solo dalla proposizione della domanda giudiziale, ma, altresì, da qualsiasi atto stragiudiziale (nella specie, una lettera) che valga a costituire in mora il debitore.
Cio’ in quanto detto termine si riferisce non già alla sola azione di responsabilità nei confronti dell’appaltatore, ma al diritto di credito del committente, affiancato, come tutti i diritti, dalla facoltà, per il suo titolare, di farlo valere in giudizio, la quale costituisce un modo di esplicazione dello stesso, e non incide sulla sua disciplina sostanziale, ivi compresa la regolamentazione della prescrizione e delle relative cause di interruzione.
Posto, dunque, che sulla natura prescrizionale del termine di un anno previsto dal secondo comma dell’art. 1669 cod. civ. neppure ha dubitato il giudice unico del Tribunale di Ancona (e a tal riguardo la chiara portata del dettato normativo è confermata dal diritto “vivente”: oltre al risalente precedente sopra menzionato, cfr., tra le tante, Cass., 30 luglio 2004, n. 14561; Cass., 19 ottobre 2012, n. 18078) e considerato, altresì, che la norma anzidetta non pone alcun ostacolo – logico e/o giuridico – all’applicazione dell’istituto dell’interruzione come tale (art. 2943 cod. civ.) e, quindi, anche alla possibilità di interrompere la prescrizione del diritto del committente in forza di atto di costituzione in mora dell’appaltatore, del tutto sganciato da referenti logici e giuridici risulta il ragionamento che vorrebbe elidere l’operatività del meccanismo interruttivo sol perché il diritto del committente non verrebbe mai a prescrizione.
Si tratta, dunque, di una argomentazione decisoria che non rinviene alcun sostegno giuridico e la cui abnormità è viepiù resa evidente dal fatto che neppure risulta “spiegabile” in ragione della concreta fattispecie oggetto di cognizione, dalla quale prescinde il giudice anconetano, non ravvisandosi alcun aggancio alla peculiarità della vicenda, che avrebbe potuto rendere – non già giustificato – ma semmai comprensibile un convincimento che fosse stato correlato, ad esempio, ad un ritenuto abusivo esercizio dell’interruzione (ragionamento, per l’appunto, non giustificato a fronte di una sola missiva ulteriore), ovvero che avesse assunto, in ipotesi, l’inidoneità della missiva in concreto inviata a potersi configurare come atto interruttivo della prescrizione.
Cio’ che, dunque, viene in rilievo nel caso in esame è una abnorme ed inspiegabile trasposizione dell’istituto della decadenza in quello della prescrizione, posto che il Tribunale di Ancona – sebbene a quest’ultimo istituto accenni finisce, tuttavia, per applicare all’una (alla prescrizione) la disciplina normativa dell’altra (ossia l’art. 2964 cod. civ., che, solo in relazione alla decadenza, esclude la possibilità di interrompere il decorso del relativo termine).
Sicché, nella specie, cio’ che è stato equivocato in modo inescusabile è lo stesso elementare significante giuridico, giacché, a ben vedere, neppure una attività interpretativa intesa come mediazione tra disposizione e norma – era richiesta, né, invero, è stata effettuata, in quanto è stata invece applicata una disposizione regolante una certa fattispecie ad un’altra fattispecie e cio’ sul presupposto che si vertesse proprio sulla fattispecie cui la norma era, chiaramente e indiscutibilmente, inapplicabile.
3. – Il ricorso va, dunque, accolto e, ai sensi dell’art. 5 della legge n. 117 del 1988 (da applicarsi, anch’esso, alla presente controversia, giacché la sua abrogazione ad opera della legge n. 18 del 2015 non ha efficacia retroattiva: cfr. Cass., 15 dicembre 2015, n. 25216), l’impugnato decreto della Corte di appello di L’Aquila deve essere annullato e la domanda proposta dalla P. Trasporti s.r.l. ex lege n. 117 del 1988 dichiarata ammissibile.
La causa dovrà proseguire dinanzi al Tribunale di L’Aquila, in diversa composizione, al quale vanno rimessi gli atti.
Il predetto giudice provvederà anche alla regolamentazione delle spese del presente giudizio di legittimità.
P.Q.M.
La Corte accoglie il ricorso, annulla l’impugnato decreto della Corte di appello di L’Aquila e dichiara ammissibile la domanda proposta dalla P. Trasporti s.r.l. ai sensi della legge n. 117 del 1988;
rimette gli atti per la prosecuzione del giudizio al Tribunale di L’Aquila, in diversa composizione, il quale provvederà anche alla regolamentazione delle spese del presente giudizio di legittimità.
Leave a Reply