La massima
Il diritto al consenso informato del paziente è un diritto irretrattabile della persona e, al fine di escluderlo, non assume alcuna rilevanza il fatto che l’intervento absque pactis sia stato effettuato in modo tecnicamente corretto, per la semplice ragione che, a causa del totale deficit di informazione, il paziente non è stato posto in condizione di assentire al trattamento, di talché si è consumata, nei suoi confronti, comunque, una lesione di quella dignità che connota l’esistenza umana nei momenti cruciali della sofferenza fisica e/o psichica.
SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE
SEZIONE III
SENTENZA 31 gennaio 2013, n.2253
Ritenuto in fatto
I fatti di causa rilevanti ai fini della decisione del ricorso possono così ricostruirsi sulla base della sentenza impugnata.
M.I..C. convenne in giudizio innanzi al Tribunale di Monza Ca..Co. e L’Ospedale di (omissis), in persona del legale rappresentante pro tempore, chiedendone la condanna in solido al risarcimento dei danni patiti a seguito di un intervento chirurgico.
Espose che, caduta accidentalmente nel cortile di casa il 6 luglio 1995, era stata operata, il. successivo giorno 11, dal Dott. Co. per frattura scomposta del condilo mediale del femore destro, intervento dal quale erano derivati postumi invalidanti permanenti. Lamentò anche che non era stata tempestivamente informata né del tipo di trattamento al quale sarebbe stata sottoposta, né delle eventuali conseguenze negative che potevano derivarne.
Costituitisi in giudizio, i convenuti contestarono le avverse pretese. Il Co. , peraltro, chiese ed ottenne di chiamare in causa Lloyd Adriatico Assicurazione s.p.a., per esserne manlevato in caso di soccombenza.
Con sentenza del 5 giugno 2003 il giudice adito rigettò la domanda.
Proposto dalla soccombente gravame, la Corte d’appello lo ha respinto in data 8 gennaio 2007.
Per la cassazione di detta pronuncia ricorre a questa Corte C.M.I. , formulando tre motivi e notificando l’atto all’Azienda Ospedali era “Ospedale Civile di (omissis)”, a Co.Ca. , alla Fondazione Centro San Raffaele del Monte Tabor e a Lloyd AdriaLico Assicurazioni s.p.a..
Hanno resistito con due distinti controricorsi l’Azienda Ospedaliera e Ca..Co. , mentre nessuna attività difensiva hanno svolto gli altri due intimati.
L’Azienda Ospedaliera ha altresì depositato memoria.
Motivi della decisione
1 Va preliminarmente confutata l’eccezione di invalidità della procura rilasciata dalla C. al suo difensore, sollevata in limine dalla resistente Azienda Ospedaliera. Sostiene la deducente che il mandato, in quanto conferito per la rappresentanza e difesa in ogni stato e grado del giudizio, come pure nella fase esecutiva e d’appello, non avrebbe quei caratteri di specialità specificamente richiesti dall’art. 365 cod. proc. civ..
I rilievi sono infondati.
Come questa Corte ha già avuto modo di statuire, il mandato apposto in calce o a margine del ricorso per cassazione è, per sua natura speciale, senza che occorra, ai fini della sua validità, alcuno specifico riferimento al giudizio in corso e alla sentenza contro la quale esso è rivolto e senza che abbia nemmeno rilevanza l’inutile riferimento a fasi proprie del giudizio di merito, perché siffatte espressioni, da ritenersi mere clausole di stile, sono inidonee a scalfire la chiara volontà della parte di adire il Giudice di legittimità. In casi siffatti, invero, la specialità si è deduce dal fatto che la procura al difensore forma materialmente corpo con il ricorso al quale essa si riferisce (confr. Cass. civ. 13 dicembre 2010, n. 25137; Cass. civ. 3 luglio 2009, n.15692).
2 Passando all’esame delle censure, con il primo motivo l’impugnante lamenta violazione degli artt. 13 e 32, comma 2, della Costituzione, 33 legge n. 833 del 1978, n. 833, 1176, 2236, 2059, 1223 cod. civ..
Sostiene che, contrariamente a quanto ritenuto dal decidente, ella non fu informata del trattamento chirurgico che le sarebbe stato praticato; che presumibilmente il modulo predisposto dall’Azienda Ospedaliera fu da lei sottoscritto a intervento già avvenuto; che in ogni caso il prestampato si riferiva solo ad eventuali conseguenze dell’anestesia; che la mancata richiesta del consenso costituiva autonoma fonte di responsabilità per lesione del suo diritto all’autodeterminazione, diritto costituzionalmente garantito e del tutto autonomo rispetto al diritto alla salute; che pertanto erroneamente il giudice di merito aveva affermato che la mancanza di consenso era rilevante unicamente nell’ipotesi che dall’intervento fossero derivati danni, così facendo malgoverno della consolidata giurisprudenza di legittimità, secondo cui la responsabilità del sanitario (e di riflesso della struttura nell’ambito della quale lo stesso ha agito) per violazione dell’obbligo del consenso informato è indipendente dalla correttezza dell’esecuzione del trattamento, risolvendosi nella violazione tanto dell’art. 32, comma secondo, della Costituzione (a norma del quale nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge), quanto degli artt. 13 della Costituzione, (che garantisce l’inviolabilità della libertà personale con riferimento anche alla libertà di salvaguardia della propria salute e della propria integrità fisica), e 33 della legge 23 dicembre 1978 n. 833, che esclude la possibilità d’accertamenti e di trattamenti sanitari contro la volontà del paziente, se questo è in grado di prestarlo e non ricorrono i presupposti dello stato di necessità, ex art. 54 cod. pen. (confr. Cass. civ. 14 marzo 2006, n. 5444).
3 Le critiche sono, per certi aspetti inammissibili, per altri infondate.
Non ignora il collegio che questa Corte ha a più riprese affermato che il diritto al consenso informato del paziente è un diritto irretrattabile della persona e che, al fine di escluderlo, non assume alcuna rilevanza il fatto che l’intervento absque pactis sia stato effettuato in modo tecnicamente corretto, per la semplice ragione che, a causa del totale deficit di informazione, il paziente non è stato posto in condizione di assentire al trattamento, di talché si è consumata, nei suoi confronti, comunque, una lesione di quella dignità che connota l’esistenza umana nei momenti cruciali della sofferenza fisica e/o psichica (confr. Cass. civ. 28 luglio 2011, n. 16543; Cass. civ. 14 marzo 2006, n. 5444).
4 Sennonché nella fattispecie, per quanto risulta dalla sentenza impugnata, l’omessa ottemperanza, da parte del convenuto, agli obblighi, informativi su di lui gravanti, è stata prospettata dall’attore nel giudizio di merito esclusivamente in relazione alla pretesa inadeguatezza tecnica dell’intervento praticato dal Co. e ai conseguenti danni che, in sintesi, ne erano derivati alla paziente.
Consegue da tanto che la violazione del principio del consenso informato sotto il diverso profilo della lesione del diritto all’informazione e della libera e consapevole autodeterminazione, ex art. 32 della Costituzione, costituisce una questione nuova, posto che con essa la ricorrente introduce una autonoma e differente causa petendi della pretesa risarcitoria azionata, senza neppure allegarne la già avvenuta deduzione nelle precedenti fasi.
5 A ciò aggiungasi che le censure hanno ad oggetto una solo delle due rationes decidendi della scelta decisoria adottata. Il giudice di merito, invero, ha argomentato in ordine all’assenza di danni effettivi derivati dalle intervento, e dunque alla sostanziale inoffensività della violazione degli obblighi connessi al consenso informato, solo a integrazione delle puntuali considerazioni svolte dalla difese del Co. e dell’Azienda Ospedaliera circa l’insussistenza, in punto di fatto, di quella violazione, cosà mostrando di ritenere dimostrato, sulla base degli esiti della compiuta istruttoria, che la C. , lungi dall’avere sottoscritto, senza troppa consapevolezza, soltanto un modulo sottopostole dai sanitari, per giunta relativo all’anestesia e non ad altro, era stata, in realtà, congruamente resa edotta dal prof. Co. della natura dell’operazione, delle modalità di attuazione, delle possibili conseguenze, tanto da avere palesato al riguardo le sue preoccupazioni, riportate nel referto redatto dal consulente internista.
Ora, sul punto, l’impugnante si limita a ribadire, in maniera puramente assertiva, che ella non fu informata del trattamento chirurgico che le sarebbe stato praticato, senza criticare l’apparato argomentativo con il quale il decidente ha motivato il suo convincimento, e anzi non evocando alcun vizio motivazionale, laddove, venendo in rilievo l’erronea ricognizione della fattispecie concreta a mezzo delle risultanze di causa, solo per questa via poteva essere criticata la scelta decisoria del giudice a quo. Vale allora il principio per cui, ove la sentenza sia sorretta da una pluralità di distinte ragioni, ciascuna delle quali giuridicamente e logicamente sufficiente a giustificare la decisione adottata, l’omessa impugnazione di una di esse rende inammissibile, per difetto di interesse, la censura relativa alle altre, la quale, essendo divenuta definitiva l’autonoma motivazione non impugnata, non potrebbe produrre in nessun caso l’annullamento della sentenza (confr. Cass. civ. 11 febbraio 2011, n. 3386).
6 Con il secondo mezzo la ricorrente denuncia mancanza, insufficienza e contraddittorietà della motivazione con riferimento alla ritenuta adeguatezza dell’intervento chirurgico praticato dal Co. .
Le censure si appuntano contro quella parte della sentenza impugnata in cui il giudice di merito, evidenziate le gravi carenze dell’elaborato redatto dagli esperti nominati in grado di appello, ha ritenuto per contro completa ed esaustiva la risposta data dall’ausiliario di prime cure, così confermando la negativa valutazione della responsabilità del Co. nella eziologia dei danni lamentati dall’attrice.
Secondo l’esponente la Corte territoriale si sarebbe appiattita sulle valutazioni espresse dal Tribunale, con una motivazione laconica, che aveva completamente ignorato le puntuali censure svolte nell’atto di gravame.
7 Le critiche non hanno pregio.
Nel motivare il suo convincimento il decidente ha anzitutto esplicitato i motivi della ritenuta inattendibilità delle conclusioni alle quali erano pervenuti i tecnici officiati in sede di gravame, evidenziando che gli stessi non avevano considerato le preesistenti e particolari condizioni di salute della C. , condizioni incompatibili con un intervento di lunga durata; che avevano inoltre omesso di valutare la congruità della tecnica operatoria utilizzata con riferimento alle conoscenze del tempo in cui si. svolsero i fatti; che non avevano infine tenuto conto del mancato rispetto del programma terapeutico da parte della C. , la quale aveva lasciato l’ospedale contro il parere dei sanitari, non aveva seguito le loro indicazioni, aveva preferito sottoporsi a un nuovo intervento di protesizzazione presso l’Ospedale San Raffaele, intervento dal quale era poi conseguita una infezione nosocomiale e, all’esito di un lungo e complesso percorso terapeutico e dell’effettuazione di una artrodesi, il definitivo accorciamento di un arto, rispetto all’altro, di sette/otto centimetri.
Sulla base di tali premesse ha ritenuto: a) che i consulenti avevano in sostanza effettuato una valutazione postuma, non già una valutazione ex ante, per giunta escludendo l’ipotizzabilità di percentuali espresse in numeri sui risultati di un intervento chirurgico rispetto a un altro; b) che ben più completa ed esaustiva era invece la risposta data dal consulente nominato in primo grado il quale, all’esito di un esame di ogni rilevante profilo medico-legale emerso nel contraddittorio delle parti, aveva escluso la responsabilità del Co. e della sua equipe, segnatamente precisando che lo stesso aveva effettuato una buona scelta terapeutica, scientificamente adeguata ai protocolli adottati all’epoca in Italia e ai dati emergenti dalla cartella clinica.
8 Trattasi di un percorso motivazionale assolutamente completo ed esaustivo, corretto sul piano logico e giuridico, esente da aporie e da contrasti disarticolanti con il contesto fattuale di riferimento.
Né sulla sua intrinseca congruità può influire il richiamo alla necessità, ai fini dell’affermazione della sussistenza del rapporto di causalità, di una probabilità prossima alla certezza, in aperta distonia con le affermazioni di questa Corte Regolatrice, secondo cui la regola della prova ‘oltre il ragionevole dubbio’ vige nel processo penale, laddove quello civile è conformato sulla diversa regola della preponderanza dell’evidenza o ‘del più probabile che non’ (confr. Cass. civ. 26 luglio 2012, n. 13214; Cass. civ. 9 giugno 2011, n. 12686; Cass. civ. 5 maggio 2009, n. 10285). Quel richiamo è invero all’evidenza avulso dalla griglia valutativa di fatto adottata dal decidente e tale da essere sostanzialmente ininfluente sugli esiti della stessa. Ne deriva che l’errore non è idoneo da solo a scalfire la complessiva tenuta dell’impianto argomentativo del provvedimento impugnato.
9 Peraltro è noto che la decisione di fare ricorso alla consulenza tecnica, quale strumento più funzionale ed efficace per l’accertamento dei fatti essenziali del giudizio, di disporre indagini tecniche suppletive o integrative di quelle già espletate, di sentire a chiarimenti il consulente tecnico di ufficio ovvero di disporre la rinnovazione delle indagini, con la nomina di altri consulenti, non solo costituisce esercizio di un potere non censurabile in sede di legittimità, al pari del suo mancato esercizio (ex plurimis, Cass. civ., 3 aprile 2007, n.8355; Cass. civ., 21 luglio 2004, n.13593), ma non vincola il giudice alla valutazione espressa dal consulente: il giudice, infatti, può andare di contrario avviso, qualora nel suo libero apprezzamento ritenga le conclusioni dell’ausiliario non adeguate,. salvo, evidentemente, l’obbligo di enunciare le ragioni del proprio dissenso.
Ne deriva che, per quanto innanzi detto, le valutazioni formulate al riguardo dalla Corte territoriale sono di stretto merito, adeguatamente motivate e, come tali, insindacabili in questa sede.
10 Con il terzo motivo l’impugnante lamenta violazione dell’art. 91 cod. proc. civ., ex art. 360, n. 3, cod. proc. civ..
Oggetto delle critiche è la condanna della ricorrente al pagamento delle spese processuali anche in favore della terza chiamata, e cioè di Lloyd Adriatico s.p.a., nei cui confronti l’attrice appellante non aveva proposto alcuna domanda e che aveva sollevato eccezioni come- l’inoperatività della polizza assicurativa, sulle quali il giudice non si era affatto pronunciato.
11 Le censure sono, ancora una volta, infondate.
Costituisce affermazione consolidata nella giurisprudenza di legittimità che il rimborso delle spese processuali sostenute dal terzo chiamato in garanzia dal convenuto deve, in applicazione del principio di causalità e in ragione dell’accezione lata con cui il termine soccombenza è assunto nell’art. 91 cod. proc. civ., essere posto a carico dell’attore, ove la chiamata in causa si sia resa necessaria in relazione alle tesi poste a fondamento della domanda e queste siano risultate infondate, a nulla rilevando che l’attore non abbia proposto nei confronti del terzo alcuna domanda, salvo il caso, che qui non ricorre, che l’iniziativa della chiamata si sia rivelata palesemente arbitraria (confr. Cass. civ. 14 maggio 2012, n. 7431; Cass. civ. 10 novembre 2011, n. 23552).
In definitiva il ricorso deve essere integralmente rigettato.
Segue la condanna della ricorrente al pagamento delle spese di giudizio.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso. Condanna la ricorrente al pagamento delle spese di giudizio, liquidate in complessivi Euro 5.700,00 (di cui Euro 200,00 per esborsi), oltre IVA e CPA, come per legge, in favore dell’Azienda Ospedaliera Ospedale Civile (omissis), e in complessivi Euro 5.200,00 (di cui Euro 200,00 per esborsi), oltre IVA e CPA, come per legge, in favore di C.C..
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