Suprema Corte di Cassazione
sezione III
sentenza 10 aprile 2014, n. 8405
Ritenuto in fatto
1. – Il Tribunale di Palermo, in accoglimento della domanda proposta da F.A. con atto di citazione del 30 aprile 2002, dichiarava cessata al 1 settembre 2002 la locazione dell’immobile condotto da M.R. e F. ; in accoglimento, poi, della domanda riconvenzionale proposta dalle conduttrici convenute, condannava la F. al pagamento in loro favore della somma di Euro 17.165,333, corrispondente agli importi dalle predette versati in misura superiore al canone dovuto in forza degli artt. 12 e ss. della legge n. 392 del 1978; fissava, inoltre, la misura dell’indennità di occupazione dovuta dalle M. dal 1 novembre 2002 al 1 agosto 2005.
2. – Avverso tale decisione proponeva appello principale F.A. , affinché fosse dichiarata la sua carenza di legittimazione passiva in ordine alla domanda riconvenzionale accolta dal primo giudice o che, comunque, questa fosse ritenuta inammissibile e/o infondata.
Resistevano al gravame M.R. e F. , formulando altresì appello incidentale per ottenere la condanna della F. al pagamento sia della differenza tra quanto da esse corrisposto per indennità di occupazione e quanto effettivamente dovuto, sia della somma di Euro 568,11 a titolo di deposito cauzionale versato.
3. – Con sentenza resa pubblica il 19 ottobre 2009, la Corte di appello di Palermo rigettava l’appello principale ed accoglieva in parte quello incidentale.
3.1. – Per quanto ancora interessa in questa sede, la Corte territoriale, in relazione all’impugnazione principale, rigettava anzitutto il motivo concernente la dedotta nullità del giudizio di primo grado per “lesione del litisconsorzio necessario processuale” in riferimento alla domanda riconvenzionale di restituzione di indebito per canoni pagati in eccesso, formulata come “domanda di condanna di una pluralità di debitori solidali”.
Il giudice del gravame osservava che la domanda non era stata mai formulata dalla F. e che, del resto, “l’obbligazione solidale passiva (ipotizzata in primo grado dalle convenute in relazione al debito della parte locatrice per le somme ricevute in eccedenza sull’equo canone e dedotta dalla F. a sostegno del motivo di appello)” non determinava una ipotesi di inscindibilità delle cause e non dava luogo dunque ad un litisconsorzio necessario, essendo peraltro principio generale, non derogato in materia di locazione, quello della solidarietà delle obbligazioni in capo a più locatori, non comportante un rapporto unico ed inscindibile e, quindi, il litisconsorzio necessario tra i coobbligati.
3.2. – La Corte territoriale affermava, poi, che la legittimazione passiva della F. in ordine alla domanda riconvenzionale discendeva “dalla sua qualità di locatrice, che ha dato inizio alla presente causa intimando la licenza per finita locazione”.
3.3. – Quanto, inoltre, alla determinazione del canone, il giudice di appello rilevava che, a fronte di una domanda riconvenzionale che indicava “tutte le caratteristiche dell’appartamento condotto in locazione”, la F. si era limitata, in primo grado, “a chiedere il rigetto della domanda stessa in modo del tutto generico”. Sicché, sussistendo in grado di appello il divieto di domande ed eccezioni nuove, ai sensi dell’art. 437, secondo comma, cod. proc. civ., erano inammissibili le questioni introdotte dalla appellante solo in sede di gravame; cosi come erano inammissibili le prove orali richieste, ed i documenti prodotti, solo in appello a sostegno delle “nuove eccezioni”.
3.4. – La Corte territoriale riteneva, poi, provata la domanda riconvenzionale proposta in primo grado quanto all’effettivo versamento del canone in misura maggiore a quello legale in ragione della mancata risposta della F. all’interrogatorio formale deferitole e delle risultanze testimoniali (deposizioni di B.G. ed E. ).
3.5. – Il giudice di appello escludeva, infine, il vizio di ultrapetizione della sentenza impugnata là dove aveva condannato l’appellante al pagamento delle differenze dei canoni maturatesi dopo il 27 maggio 2002, osservando che la locazione era cessata al 1 settembre 2002, ma che la data del rilascio era stata fissata per il 28 ottobre 2002, sicché era corretta la decisione del Tribunale che aveva condannato la F. al pagamento delle somme percepite in misura eccedente il canone legale “durante la vigenza del contratto, cosi come richiesto dalle conduttrici”.
4. – Per la cassazione di tale sentenza ricorre F.A. affidando le sorti dell’impugnazione a quattro motivi, illustrati da memoria.
Non hanno svolto attività difensiva le intimate M.R. e M.F. .
Considerato in diritto
1. – Con il primo mezzo è denunciata la violazione degli artt. 101, 102 cod. proc. civ., 752, 754, 1292, 1294 e 1295 cod. civ., nonché vizio di motivazione.
La Corte territoriale non si sarebbe pronunciata, anzitutto, sull’erroneità del rigetto della richiesta di integrazione del contraddittorio da parte del giudice di primo grado, a fronte delle domande riconvenzionali, proposte dalle convenute anche nei confronti degli altri coeredi, germani di essa ricorrente, per la determinazione dell’equo canone, delle “differenze pagate in eccesso alle locatrici pro tempore e di condanna al rimborso di tali differenze”. Avrebbe poi errato sia nel reputare insussistente un litisconsorzio necessario, sia nel ritenere che le obbligazioni dedotte in giudizio fossero solidali, là dove, invece, avrebbe dovuto distinguere tre periodi del rapporto locatizio (quello con la P. , originaria locatrice e usufruttuaria dell’immobile; quello con la G. , in capo alla quale si era consolidato l’usufrutto anzidetto con la nuda proprietà; quello erroneamente attribuito ad essa ricorrente, dopo la morte della G. ) e, quantomeno, riconoscere tra gli eredi l’esistenza di obbligazioni parziarie, ai sensi degli artt. 752 e 754 cod. civ..
Peraltro, avendo le convenute chiesto l’accertamento, con efficacia di giudicato, della determinazione dell’equo canone dell’immobile, delle differenze di canone e delle conseguenti condanne anche nei confronti di tutti i germani F. , il giudice di appello non avrebbe potuto esimersi dall’integrazione del contraddittorio con tutte le parti, cui la causa era comune.
1.1. – Il motivo è in parte infondato e in parte inammissibile.
La Corte territoriale, contrariamente a quanto dedotto dalla ricorrente, ha espressamente affrontato lo scrutinio del motivo di gravame con il quale la medesima F. si doleva della mancata integrazione del contraddittorio in primo grado a fronte della domanda riconvenzionale “di restituzione di indebito per canoni pagati in eccesso”, da intendersi “formulata come domanda di condanna di una pluralità di debitori solidali” (cfr. sentenza impugnata p. 7) e lo ha risolto rilevando che nessuna istanza in tal senso, “nei confronti degli altri comproprietari dell’immobile”, era stata avanzata dalla originaria attrice in primo grado, né la stessa aveva mai dedotto “che la causa fosse comune ad altri, né chiesto di chiamare in giudizio alcuno”. Il giudice di merito ha poi soggiunto che l’obbligazione solidale non determina una inscindibilità di cause e, dunque, non da luogo a litisconsorzio necessario; principio, quello della solidarietà, non derogato in materia di locazione e, segnatamente, di obbligazioni facenti capo a più locatori.
La soluzione, cui la Corte territoriale è giunta (in controversia soggetta al rito speciale di cui all’art. 447-bis cod. proc. civ.), risulta anzitutto rispondente alla prospettazione della parte appellante con lo specifico motivo di gravame (cfr. ricorso pp. 10 e 11, nelle quali è trascritto il primo motivo di appello), in cui si faceva leva esclusivamente sull’esistenza di una obbligazione solidale tra i vari condebitori, “tutti comproprietari dell’immobile de quo”, con conseguente possibilità di pervenire ad una soddisfacente “ripartizione interna” tra gli stessi. Prospettazione, del resto, in linea con quella delle conduttrici-attrici in via riconvenzionale che avevano chiesto la condanna di tutti i germani F. al pagamento delle differenze fra le somme legalmente dovute a titolo di canoni locatizi e quelle effettivamente versate, senza distinzione di quote (cfr. ricorso p. 4).
Donde, per l’appunto, la pertinenza del principio in tema di obbligazioni solidali – le quali non danno luogo, processualmente, ad un litisconsorzio necessario – applicato correttamente dal giudice del merito anche in materia di obbligazioni facenti capo a più locatori del medesimo immobile, secondo un orientamento espresso in più di un’occasione da questa Corte (tra le altre, Cass., 22 giugno 2009, n. 14530).
In assenza, dunque, della necessità di integrare, anche d’ufficio, il contraddittorio, è risultato cosi coerente il preliminare rilievo del giudice del gravame sulla necessità di un’istanza della originaria parte attrice circa la chiamata in causa degli altri condebitori solidali in base alla allegazione specifica delle ragioni di sussistenza della comunanza di causa; istanza che non è stata mai avanzata dalla F. , come dalla medesima ammesso anche in questa sede.
A fronte di ciò, le ulteriore doglianze della ricorrente, che mettono in evidenza, quali presupposti di fatto, gli asseriti rapporti intertemporali tra diversi locatori del bene ed i titoli asseritamente alla base dell’instaurazione del rapporto locatizio, nonché quelli relativi alla stessa titolarità dell’immobile, si palesano, rispetto allo specifico tenore del motivo di gravame ed alle presupposte carenze allegatorie nel giudizio di primo grado (soggetto, come detto, al rito di cui all’art. 447-bis cod. proc. civ., con le conseguenti preclusioni in appello dettate dall’art. 437, secondo comma, cod. proc. civ.), come questioni nuove, proposte soltanto in sede di legittimità e, come tali, inammissibili, implicando accertamenti di fatto inibiti a questa Corte di legittimità. Ciò – deve soggiungersi – valendo, segnatamente e a maggior ragione, per la questione sulla parziarietà dell’obbligazione dedotta in giudizio dalle conduttrici, posto che è principio stabilmente enunciato da questa Corte quello per cui la norma di cui all’art. 754 cod. civ., secondo la quale gli eredi rispondono dei debiti del de cuius, in relazione al valore della quota nella quale sono stati chiamati a succedere, deve essere interpretata nel senso che il coerede convenuto per il pagamento di un debito ereditario ha l’onere di indicare al creditore questa sua condizione di coobbligato passivo, entro i limiti della propria quota, con la conseguenza che, integrando tale dichiarazione gli estremi dell’istituto processuale della eccezione propria, la sua mancata proposizione consente al creditore di chiedere legittimamente il pagamento per l’intero (Cass., 12 luglio 2007, n. 15592; Cass., 28 febbraio 2006, n. 4461). Eccezione, questa, che in ogni caso sarebbe stata, nella specie, inammissibile ai sensi dell’art. 437, secondo comma, cod. proc. civ., non avendo la parte ricorrente neppure dedotto di averla proposta in primo grado.
Del resto, anche se in ipotesi fosse stato scrutinabile il tema di indagine relativo alla parziarietà della obbligazione tra eredi, non vi sarebbe stato, in ogni caso, un vizio di integrità del contraddittorio, neppure sotto il profilo di un eventuale litisconsorzio processuale, giacché – alla luce del principio enunciato da Cass., 9 marzo 2006, n. 5100 (e ripreso da Cass., 4 giugno 2010, n. 13644) – “in caso di successione mortis causa, di più eredi nel lato passivo del rapporto obbligatorio si determina un frazionamento pro quota dell’originario debito del de cuius fra gli aventi causa, con la conseguenza che il rapporto che ne deriva non è unico ed inscindibile, e non si determina, nell’ipotesi di giudizio instaurato per il pagamento, alcun litisconsorzio necessario tra gli eredi del debitore defunto, né in primo grado, né nelle fasi di gravame, neppure sotto il profilo della dipendenza di cause“.
2. – Con il secondo mezzo è dedotta violazione e falsa applicazione: degli artt. 437, 81, 99, 100 e 112 cod. proc. civ.; degli artt. 1599, 1602, 2697 cod. civ. e 81, 99, 100, 112 e 115 cod. proc. civ.; nonché degli artt. 79 della legge n. 392 del 1978, 2003 e 2697 cod. civ.; ed ancora degli artt. 112, 115 e 232 cod. proc. civ. e 2697 e 2733 cod. civ.; è altresì dedotto vizio di motivazione.
La Corte territoriale avrebbe errato nell’equiparare la questione della legittimazione passiva sulla domanda riconvenzionale ad una eccezione in senso proprio, non rilevabile d’ufficio e soggetta a decadenze e preclusioni.
Il giudice di appello avrebbe poi errato nell’affermare la qualità di locatrice di essa ricorrente per tutto il corso del rapporto di locazione, anziché per il solo periodo in cui ella sarebbe stata, semmai, effettivamente titolare del rapporto medesimo, avendo le conduttrici mancato di provare la “durata dei rispettivi periodi locativi delle Sigg.re P.A. , G.C. e degli eredi di G.C. , cioè dei germani F. “.
La Corte distrettuale avrebbe erroneamente ritenuto, anche in forza di un travisamento degli esiti istruttori, che la legittimazione passiva rispetto alla domanda riconvenzionale di restituzione di indebito derivava dalla qualità di locatrice e non già dalla effettiva ricezione delle somme; la stessa Corte avrebbe, poi, reso una pronuncia “oltre le stesse richieste delle conduttrici e senza alcuna prova” in relazione alla percezione dei canoni ultra legali per tutto il periodo del rapporto di locazione.
Il giudice del gravame sarebbe, infine, incorso in un vizio di motivazione quanto al fatto, controverso e decisivo, per cui essa ricorrente avrebbe rivestito la qualità di locatrice per tutto il corso del rapporto e come tale avrebbe percepito i canoni locatizi.
2.1. – Il motivo non può trovare accoglimento.
Va premesso che, secondo l’orientamento stabile di questa Corte (Cass., 29 settembre 2009, n. 19170; Cass., sez. un., 16 maggio 2013, n. 11830), la contestazione circa l’effettiva appartenenza alla parte del diritto controverso (nella specie, relativa alla titolarità del rapporto di locazione dal lato attivo, ossia alla identificazione della persona del locatore) non solleva una questione di legittimazione ad causam, ma una questione che attiene alla fondatezza della domanda nel merito e, come tale, costituisce eccezione in senso proprio, rilevabile solo ad istanza di parte, e, ove come nel caso in esame sia applicabile l’art. 437 cod. proc. civ., inammissibile se proposta per la prima volta in appello e preclusa ove la parte abbia tenuto un comportamento processuale inequivocabilmente integrante il riconoscimento della propria qualità di parte sostanziale (comportamento ravvisato dalla Corte territoriale nel fatto che la F. rivestisse la “qualità di locatrice, che ha dato inizio alla presente causa intimando la licenza per finita locazione”).
Sicché, non avendo la ricorrente neppure dedotto di aver sollevato in primo grado la questione, di merito, della propria legittimazione sostanziale o, in ogni caso, indicato in quale atto processuale del medesimo giudizio di primo grado abbia a tanto provveduto, l’eccezione fatta valere soltanto in sede di gravame risulta inammissibile e ciò anche a prescindere dalla preclusione a sollevarla per il contegno processuale con essa incompatibile, come rilevato dalla stessa Corte distrettuale.
Peraltro, la stabilità dell’accertamento relativo alla posizione di debitrice della F. nei confronti delle conduttrici per le pretese da queste svolte con le domande riconvenzionali – e, segnatamente, per quella di condanna al pagamento delle differenze tra quanto versato e quanto effettivamente dovuto a titolo di canoni di locazione — ha una portata tale che, in ogni caso, non può essere scalfito dalle eccezioni e dai temi di indagine, non rilevabili d’ufficio, sollevati dall’appellante con i motivi di gravame, i quali, peraltro, risultano anch’essi inammissibili, in quanto nuovi, ai sensi dell’art. 437 cod. proc. civ., come del resto correttamente ritenuto dalla Corte territoriale.
L’affermazione sulla legittimazione sostanziale passiva della F. rispetto, segnatamente, alla domanda di condanna anzidetta si coniuga, poi, coerentemente con l’ulteriore accertamento, operato dal giudice di merito sulla scorta delle risultanze probatorie, in ordine all’effettivo versamento del canone in misura maggiore a quella legale, che, nella loro combinazione, non si presta a censure di illogicità o contraddittorietà.
Difatti, quest’ultimo riscontro – sorretto da una delibazione congiunta di più emergenze probatorie (mancata risposta della F. all’interrogatorio formale, deposizioni testimoniali e prova documentale), che non è stata censurata nella sua complessiva articolazione, ma soltanto in parte sostituita da una diversa lettura ad opera della stessa ricorrente, in contrasto con il principio per cui spetta unicamente al giudice del merito apprezzare le risultanze istruttorie al fine della formazione del proprio convincimento – non atteneva alla posizione debitoria della F. (già individuata e cristallizzatasi nell’accertamento della titolarità del rapporto obbligatorio dal lato passivo a fronte della posizione creditoria vantata dalle conduttrici), bensì alla sussistenza stessa dell’indebito oggettivo. Sicché, la Corte territoriale ha fornito adeguata motivazione, esente dai vizi logici e giuridici evocati dalla ricorrente, in ordine alla situazione di debitrice (semmai anche solidale) della F. nei confronti dell’intero credito preteso dalle conduttrici per il versamento di canoni locatizi maggiorati rispetto alla misura legale, ai sensi della legge n. 392 del 1978, nonché la prova di tale effettivo versamento durante tutto il rapporto di locazione. Ancora una volta, a fronte di siffatto accertamento, che muove – come detto – dal riconoscimento, non più contestabile, della legittimazione sostanziale della F. rispetto alla specifica pretesa delle conduttrici, le questioni che la medesima ricorrente ha inteso veicolare in questa sede, e già in sede di appello, attinenti ad una frammentazione temporale dei rapporti ed alla mancata personale e materiale percezione delle somme non dovute, non possono trovare ingresso, giacché precluse, alla stregua di quanto già rilevato dalla Corte palermitana, ai sensi dell’art. 437, secondo comma, cod. proc. civ..
3. – Con il terzo mezzo è prospettato vizio di motivazione, nonché violazione e falsa applicazione dell’art. 437 cod. proc. civ., “entrambi in relazione alla reiezione del quinto motivo (coefficiente di vetustà) di appello ed alla mancata ammissione della relativa documentazione che avrebbe dovuto comprovarne documentalmente la fondatezza”.
La Corte territoriale avrebbe errato a ritenere che si trattasse di eccezione tardivamente avanzata dall’appellante quella concernente la determinazione del coefficiente di vetustà dell’immobile locato, necessario ai fini della individuazione del canone legale, non essendo questo “nella disponibilità delle parti… poiché le norme di cui agli artt. da 12 a 24 della legge 392/78 sono norme imperative ed inderogabili”, sicché i coefficienti ivi previsti (e, nella specie, quello di vetustà) vanno accertati non già in base alle allegazioni delle parti, ma anche d’ufficio (ben potendo il c.t.u., nella specie, assumere tutti i dati utili dalle risultanze catastali). Nella specie, secondo la ricorrente, il coefficiente di vetustà dell’immobile non era pari a 43 anni al momento dell’inizio del rapporto di locazione, in quanto doveva farsi risalire al 1989, in forza della documentazione che il giudice del merito non aveva ritenuto di acquisire e che lo stesso c.t.u. non aveva considerato sebbene in parte presso uffici pubblici.
3.1. — Il motivo è infondato.
La Corte territoriale nel rilevare – in ordine alla determinazione dell’equo canone, operata dal consulente tecnico d’ufficio su impulso delle conduttrici che avevano fondato la propria pretesa, oggetto di domanda riconvenzionale, sulla scorta di allegazioni specifiche (concernenti “tutte le caratteristiche dell’appartamento condotto in locazione”) – l’assenza di qualsivoglia contestazione in primo grado, da parte della F. (che “si è limitata a richiedere il rigetto della domanda stessa in modo del tutto generico, senza nulla eccepire nell’intero corso del giudizio, senza offrire alcuna prova e senza formulare critiche di sorta alle argomentazioni e conclusioni della consulenza tecnica”), ha conseguentemente fatto applicazione dell’art. 437, secondo comma, cod. proc. civ. rispetto ai nuovi temi di indagine che la stessa appellante intendeva introdurre in sede di gravame, ponendo in discussione, anche tramite risultanze documentali, il riscontro del c.t.u. sulla vetustà dell’immobile locato.
Posto che i rilievi anzidetti sulla mancata attività processuale delle F. in primo grado non sono stati neppure censurati in questa sede, l’approdo al quale è giunta la Corte territoriale si palesa in linea con il principio – enunciato più volte da questa Corte (Cass., 27 gennaio 1995, n. 983; Cass., 11 febbraio 2005, n. 2855; Cass., 10 giugno 2009, n. 13369) – secondo il quale “nelle controversie assoggettate al rito del lavoro, come quelle di locazione, l’inammissibilità di nuove eccezioni nel giudizio d’appello, stabilita dall’art. 437 comma secondo cod. proc. civ., riguarda, oltre le eccezioni in senso proprio, le contestazioni della fondatezza della domanda che si risolvono nella generica deduzione di elementi di fatto già conosciuti nel corso dell’istruttoria di primo grado ed ivi non dedotti, essendo precluso all’appellante di ampliare il tema del dibattito in relazione alle sue esigenze difensive; ne consegue che vanno considerate nuove le eccezioni fondate su elementi di fatto e circostanze non prospettate in precedenza, che introducano nel processo un nuovo tema d’indagine ed alterino l’oggetto sostanziale dell’azione ed i termini della controversia, introducendo l’esame di fatti nuovi“.
Ne consegue, altresì, la evidente congruenza della decisione in ordine alla mancata ammissione delle prove richieste dall’appellante a sostegno dei nuovi temi di indagine introdotti soltanto in sede di gravame, stante la presupposta inammissibilità di quanto avrebbe dovuto essere oggetto di riscontro probatorio.
Peraltro, non può ulteriormente rilevarsi che il motivo veicola un presunto vizio in procedendo individuando l’effettiva lesione alle attività difensive nella mancata considerazione da parte del c.t.u. della documentazione che avrebbe dovuto condurre ad un diverso esito quanto alla determinazione del coefficiente di vetustà dell’immobile; ciò, però, senza che della c.t.u. ne vengano, nel rispetto del principio di autosufficienza del ricorso per cassazione, esplicitati puntualmente i contenuti, tramite la trascrizione dell’elaborato quantomeno nelle parti di immediato interesse in riferimento alla proposta censura.
4. – Con il quarto mezzo è denunciata violazione e falsa applicazione degli artt. 420 e 437 cod. proc. civ., nonché dedotto vizio di motivazione.
La Corte territoriale avrebbe errato nell’escludere l’inammissibilità della domanda di pagamento dei canoni successivi alla data di deposito (27 maggio 2002) della comparsa di risposta delle conduttrici, mancando cosi di riformare sul punto la condanna emessa dal giudice di primo grado; si sarebbe infatti trattato di domanda nuova concernente i canoni maturatisi nel corso di causa e, comunque, inammissibile in ragione del suo configurarsi come azione di condanna in futuro. Peraltro, la motivazione resa al riguardo dal giudice del gravame sarebbe “solo apparente”, giacché circoscritta al rilievo della “coincidenza della statuizione di condanna con la data fissata per il rilascio”.
4.1. – Il motivo è fondato.
Il riconoscimento in favore delle conduttrici delle differenze pecuniarie relativi ai canoni maggiorati rispetto alla misura legale anche successivamente alla data di proposizione della domanda riconvenzionale con la quale veniva fatta valere detta pretesa contrasta con il principio – enunciato da Cass., 9 giugno 2004, n. 10970 – secondo cui “la domanda accessoria di ripetizione di indebito, svolta dal conduttore nel giudizio diretto alla determinazione della misura legale del canone locatizio, richiede tra i suoi elementi costitutivi sia l’accertamento del corrispettivo dovuto sia l’avvenuto pagamento, a detto titolo, di somme in eccedenza; ne consegue che deve considerarsi domanda nuova, e come tale inammissibile (ma riproponibile in un separato giudizio), la richiesta di condanna del locatore alla restituzione dell’ulteriore indebito per le somme versategli nel corso del giudizio, in quanto si fonda su presupposti di fatto diversi da quelli prospettati con la domanda originaria, e comporta un mutamento del fatto costitutivo del diritto fatto valere. Né può estendersi analogicamente a tale fattispecie la possibilità, consentita dall’art. 664, primo comma, cod. proc. civ., a chi propone domanda di risoluzione del contratto di locazione per morosità, di ampliare la domanda originariamente proposta fino ad ottenere oltre al pagamento dei canoni già scaduti, anche il pagamento delle somme dovute dal conduttore per i canoni insoluti e da scadere, che configura una delle ipotesi eccezionali di condanna in futuro, delle quali non è consentito allargare per analogia l’area oltre le ipotesi espressamente previste. (In applicazione di tale principio di diritto, la S.C. ha escluso la possibilità di richiedere la condanna in futuro in relazione alla domanda di condanna alla restituzione delle indebite maggiorazioni di un canone di locazione superiori all’equo canone)”.
La Corte territoriale avrebbe, dunque, dovuto limitare la condanna della F. al pagamento delle differenze pecuniarie relative ai canoni maggiorati rispetto alla misura legale sino al momento di proposizione della domanda delle conduttrici e cioè al 27 maggio 2002.
5. – Il ricorso deve, quindi, trovare accoglimento quanto al quarto motivo, mentre vanno rigettati i primi tre motivi.
La sentenza impugnata va, pertanto, cassata in relazione al motivo accolto e, non essendo necessari ulteriori accertamenti di fatto, la causa può essere decisa nel merito, con limitazione della condanna della F. al pagamento delle differenze pecuniarie sui canoni maggiorati rispetto alla misura legale, siccome determinate nel giudizio di merito, sino alla data del 27 maggio 2002, ferma restando l’ulteriore statuizione di condanna della medesima F. alla restituzione del deposito cauzionale, oltre interessi legali.
6. – Quanto alle regolamentazione delle spese di lite, l’esito complessivo della lite, che ha visto la preponderante soccombenza della F. , consente di ribadire le relative statuizioni dei gradi di merito – compensazione integrale di quelle di primo grado, con onere della c.t.u. a carico dell’attrice; condanna della F. in grado di appello, nella misura liquidata in dispositivo – e di compensare interamente le spese del presente giudizio di legittimità.
P.Q.M.
La Corte rigetta i primi tre motivi di ricorso ed accoglie il quarto motivo;
cassa in relazione e, decidendo nel merito, limita la condanna di F.A. al pagamento, in favore di M.F. e M.R. , delle differenze pecuniarie sui canoni maggiorati rispetto alla misura legale, siccome determinate nel giudizio di merito, sino alla data del 27 maggio 2002, ferma restando l’ulteriore statuizione di condanna della medesima F. alla restituzione del deposito cauzionale, oltre interessi legali;
compensa integralmente tra le parti le spese processuali di primo grado, con onere della c.t.u. a carico della F. ; condanna la medesima F. al pagamento delle spese processuali del secondo grado, che liquida in complessivi Euro 1.800,00, di cui Euro 1.000,00, per onorari ed Euro 780,00, per diritti, oltre IVA ed accessori di legge; compensa integralmente le spese del presente giudizio di legittimità.
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