Ai sensi del Decreto Legislativo n. 74 del 2000, articolo 13, rubricato “Circostanza attenuante. Pagamento del debito tributario”, “le pene previste per i delitti di cui al presente decreto sono diminuite fino alla meta’ e non si applicano le pene accessorie indicate nell’articolo 12 se, prima della dichiarazione di apertura del dibattimento di primo grado, i debiti tributari relativi ai fatti costitutivi dei delitti medesimi sono stati estinti mediante pagamento, anche a seguito delle speciali procedure conciliative o di adesione all’accertamento previste dalle norme tributarie”. Dunque, affinche’ ricorra l’attenuante in questione, deve essersi proceduto alla effettiva estinzione dei debiti tributati relativi ad uno dei delitti di cui al predetto decreto; estinzione che deve essere attuata mediante l’integrale pagamento delle somme costituenti debito. Pertanto, quando, come nel caso di specie, si sia proceduto alla semplice rateizzazione del debito di imposta, l’attenuante speciale prevista dal Decreto Legislativo n. 74 del 2000, articolo 13, non e’, conseguentemente, applicabile, atteso che il riconoscimento del beneficio e’ subordinato all’integrale ed effettiva estinzione dell’obbligazione tributaria
Suprema Corte di Cassazione
sezione III penale
sentenza 17 maggio 2017, n. 24309
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE TERZA PENALE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. AMOROSO Giovanni – Presidente
Dott. CERRONI Claudio – Consigliere
Dott. LIBERATI Giovanni – Consigliere
Dott. MENGONI Enrico – Consigliere
Dott. RENOLDI Carlo – rel. Consigliere
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
(OMISSIS), nato a (OMISSIS) il (OMISSIS);
avverso la sentenza in data 3/06/2016 della Corte di Appello di Bologna;
visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;
udita la relazione svolta dal Consigliere Dott. RENOLDI Carlo;
udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.ssa MARINELLI Felicetta, la quale ha chiesto il rigetto del ricorso;
udito, per l’imputato, l’avv. (OMISSIS), anche in sostituzione dell’avv. (OMISSIS), che ha chiesto l’accoglimento del ricorso.
RITENUTO IN FATTO
1. Con sentenza in data 30/09/2014 del Tribunale di Bologna, (OMISSIS) era stato condannato, con le attenuanti generiche equivalenti alla recidiva contestata, alla pena di otto mesi di reclusione, sostituita in un anno e quattro mesi di liberta’ controllata L. n. 689 del 1981, ex articolo 53, e s.s., in relazione ai reati, unificati dal vincolo della continuazione, di cui al Decreto Legislativo 10 marzo 2000, n. 74, articolo 10-ter (capo a: per avere omesso di versare, in qualita’ di legale rappresentante della (OMISSIS) S.r.l., la somma di 526.499 Euro dovuti in base alla dichiarazione IVA relativa all’anno di imposta 2007) e Decreto Legislativo 10 marzo 2000, n. 74, articolo 10-ter (capo b: per avere omesso di versare, in qualita’ di legale rappresentante della (OMISSIS) la somma di 1.501.727 Euro dovuti in base alla dichiarazione IVA relativa all’anno di imposta 2009). Con lo stesso provvedimento, inoltre, era stata disposta, nei confronti dell’imputato, l’interdizione perpetua dalle commissioni tributarie, l’interdizione di un anno dai pubblici uffici e dagli uffici direttivi delle persone giuridiche e delle imprese, nonche’ l’incapacita’ di contrattare per tre anni con la pubblica amministrazione.
2. Con sentenza n. 3070/16 in data 3/06/2016 la Corte di appello di Bologna confermo’ la pronuncia di primo grado.
3. Avverso la sentenza di appello (OMISSIS) ha proposto ricorso per cassazione, a mezzo del proprio difensore, deducendo quattro distinti motivi di censura.
3.1. Con il primo motivo, si denuncia, ex articolo 606 c.p.p., comma 1, lettera b) ed e), la erronea applicazione della legge penale nonche’ la contraddittorieta’ e manifesta illogicita’ della motivazione nella parte in cui (OMISSIS) e’ stato condannato in relazione agli articoli 81 cpv. c.p. e Decreto Legislativo n. 74 del 2000, articolo 10-ter. In sintesi, la sentenza impugnata avrebbe errato nel ritenere sussistente l’elemento soggettivo dei delitti contestati nonostante la assoluta impossibilita’ di far fronte all’obbligazione tributaria attestata dalle risultanze dell’istruttoria dibattimentale (e, in particolare, dai bilanci della (OMISSIS) del 2007 e 2008 e della (OMISSIS) del 2009 e 2010, nonche’ dalla Relazione dell’Amministratore unico sulla gestione per il bilancio 2007 dell’ (OMISSIS) S.r.l.). Mancato adempimento che, secondo il ricorrente, non sarebbe stato riconducibile ad una scelta aziendale quanto piuttosto a difficolta’ oggettive (quali gli ingentissimi danni causati dall’Alta velocita’, il sempre piu’ limitato accesso al credito, ecc.), a fronte delle quali l’imputato avrebbe cercato di garantire la continuita’ aziendale, pagando i fornitori e i dipendenti, assicurando a questi ultimi il futuro lavorativo.
3.2. Con il secondo motivo la difesa di (OMISSIS) lamenta, ai sensi dell’articolo 606 c.p.p., lettera c) ed e), l’inosservanza del divieto di bis in idem posto dall’articolo 649 c.p.p., interpretato alla luce dell’articolo 4 del Protocollo 7 CEDU, nella parte in cui esso avrebbe dovuto dare luogo ad una pronuncia di improcedibilita’ dell’azione penale a fronte della applicazione di sanzioni tributarie all’esito di procedure definite attraverso la rateizzazione degli importi dovuti. Sotto altro aspetto si deduce la contraddittorieta’ e manifesta illogicita’ della sentenza impugnata laddove essa e’ pervenuta alla condanna di (OMISSIS) per i delitti di cui all’articolo 81 cpv. c.p., Decreto Legislativo n. 74 del 2000, articolo 10-ter. In via subordinata, infine, si sollecita la proposizione di una questione di legittimita’ costituzionale dell’articolo 649 c.p.p., per violazione dell’articolo 117 Cost., comma 1 (in relazione all’articolo 4, Protocollo 7 CEDU), ove si ritenga che tale norma non preveda il divieto di un secondo giudizio nel caso in cui l’imputato sia stato giudicato, con provvedimento irrevocabile, per il medesimo fatto nell’ambito di un procedimento amministrativo per l’applicazione di una sanzione avente natura penale ai sensi della Convenzione per la salvaguardia dei Diritti dell’Uomo e delle Liberta’ fondamentali e dei relativi Protocolli.
3.3. Con il terzo motivo, il ricorrente si duole, ex articolo 606 c.p.p., comma 1, lettera b) ed e), dell’erronea applicazione della legge penale in relazione al Decreto Legislativo n. 74 del 2000, articoli 12 e 13, articoli 62-bis e 81 c.p. nonche’ dell’illogicita’ e della manifesta contraddittorieta’ della sentenza impugnata rispetto al mancato riconoscimento della circostanza di cui al Decreto Legislativo n. 74 del 2000, articolo 13, nonche’ in ordine alle pene accessorie applicate nei confronti dell’imputato.
3.4. Con il quarto motivo, infine, il ricorrente censura, ai sensi dell’articolo 606 c.p.p., comma 1, lettera b) ed e), l’erronea applicazione della legge penale, nonche’ la contraddittorieta’ e manifesta illogicita’ della motivazione in ordine alla determinazione del trattamento sanzionatorio applicatogli.
Sotto un primo profilo, infatti, si deduce il mancato riconoscimento dell’attenuante di cui all’articolo 62 c.p., n. 1 nonche’ della prevalenza delle attenuanti generiche sulla contestata recidiva.
Sotto un altro aspetto, la determinazione della pena in misura superiore alla pena base sarebbe stata sproporzionata rispetto ai parametri dettati dall’articolo 133 c.p., cosi’ come l’entita’ dell’aumento operato a titolo di continuazione, tale da contenere la pena entro i sei mesi di reclusione, consentendo cosi’ la conversione della stessa in pena pecuniaria.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. Il ricorso e’ infondato.
2. Muovendo dal primo motivo di ricorso, giova ricordare come secondo il consolidato indirizzo interpretativo accolto dalla giurisprudenza di questa Corte, in caso di mancato adempimento delle obbligazioni tributarie la colpevolezza non e’ esclusa dalla crisi di liquidita’ esistente al momento della scadenza del termine per il pagamento delle imposte, a meno che l’imputato non dimostri la sua assoluta impossibilita’ di adempiere il debito tributario, la non imputabilita’ allo stesso della crisi economica che ha investito l’azienda, nonche’ l’impossibilita’ di fronteggiare la crisi di liquidita’ tramite il ricorso a misure idonee (cosi’ Sez. 3, n. 43599 del 9/09/2015, dep. 29/10/2015, Mondini, Rv. 265262; Sez. 3, n. 8352 del 26/04/2014, dep. 25/02/2015, Schirosi, Rv. 263128; Sez. 3, n. 20266 in data 8/04/2014, dep. 15/05/2014, P.G. in proc. Zanchi, Rv. 259190; Sez. Un., n. 37424 del 28/03/2013, dep. 12/09/2013, Romano, in motivazione), ancorche’ sfavorevoli per il suo patrimonio personale (Sez. 3, n. 5467 del 5/12/2013, dep. 4/02/2014, Mercurello, Rv. 258055).
2.1. Nel caso di specie, secondo quanto esposto dal ricorrente, la crisi attraversata dal Gruppo (OMISSIS) sarebbe emersa, “con assoluta evidenza”, dai bilanci della (OMISSIS) S.r.l. del 2007 e 2008 e della (OMISSIS) S.r.l. del 2009 e 2010 (depositati dalla difesa nel corso del giudizio di primo grado), nonche’ dalla Relazione dell’Amministratore unico sulla gestione per il bilancio 2007 dell’ (OMISSIS) S.r.l.. Alla stregua di tali emergenze istruttorie, sarebbe rimasto dimostrato che a seguito di una serie di eventi non imputabili allo stesso (OMISSIS) (quali, da un lato, la costruzione di una galleria dell’alta velocita’, che avrebbe determinato l’inagibilita’ e quindi la chiusura di una serie di saloni di vendita, con conseguente necessita’ di “investire nella ristrutturazione di alcuni locali per adeguarli ai livelli di eccellenza richiesta dalle case madri”; e, dall’altro lato, la limitazione di accesso al credito e la contemporanea richiesta, avanzata da alcuni istituti bancari, di una riduzione delle loro esposizioni, con pesanti ripercussioni sulle attivita’ del settore auto), le societa’ gestite dall’imputato si sarebbero trovate nell’impossibilita’ di reperire fondi per ottemperare al versamento dell’IVA.
2.2. Tuttavia, come correttamente posto in luce dalla Corte d’Appello, pur in presenza di una indubbia situazione di difficolta’ aziendale, l’imputato non ha offerto, nemmeno in occasione del presente ricorso, alcun concreto elemento idoneo a dimostrare di aver posto in essere tutte le possibili azioni per fronteggiare la crisi di liquidita’ e, dunque, che il mancato pagamento dell’IVA non fosse affatto una scelta aziendale non necessitata in via assoluta, quanto piuttosto l’effetto di una decisione assunta in mancanza di soluzioni alternative, dalla sentenza di appello puntualmente passate in rassegna: dall’utilizzo, nel 2008, delle risorse della holding di cui le due societa’ menzionate facevano parte, in particolare per garantire l’erogazione di eventuali crediti bancari, alla immissione di nuova liquidita’, anche ricorrendo a risorse personali; dalla mancata implementazione del piano di riorganizzazione aziendale gia’ avviato, secondo le indicazioni fornite dal revisore contabile e dal collegio sindacale (secondo quanto riportato nel documento della Dott.ssa (OMISSIS), revisore contabile, prodotto dalla stessa difesa dell’imputato all’udienza del 20/05/2014), al mancato utilizzo, per fare fronte ai debiti tributari, della somma di 650.000 Euro incassata dalla (OMISSIS) S.r.l., nel 2008, a titolo di risarcimento danni dalle Ferrovie dello Stato, nonche’, per quanto riguarda la societa’ (OMISSIS) S.r.l., della somma di 932.928 Euro ottenuta dalla vendita di un immobile, compiuta nello stesso anno, il 2009, in cui era stata incassata l’Iva successivamente non versata.
Pertanto, non avendo l’imputato assolto al ricordato onere di allegazione, la sentenza impugnata ha correttamente escluso che, nel caso di specie, potesse invocarsi una situazione di inesigibilita’ in ordine all’adempimento dell’obbligo di versamento delle somme dovute a titolo di Iva; nonche’, corrispondentemente, che la descritta condizione di crisi di liquidita’ potesse in alcun modo incidere sul dolo generico richiesto per l’integrazione del delitto di cui al Decreto Legislativo n. 74 del 2000, articolo 10-ter, costituito dalla coscienza e volonta’ di omettere il doveroso versamento delle somme spettanti all’Erario, in questo modo illecitamente appropriandosene (Sez. 3, n. 3098 del 5/11/2015, dep. 25/01/2016, Vanni, Rv. 265939; Sez. 3, n. 8352 del 24/06/2014, dep. 25/02/2015, Schirosi, Rv. 263127; Sez. 3, n. 12248 del 22/01/2014, dep. 14/03/2014, P.M. in proc. Faotto e altri, Rv. 259806).
Ne consegue, pertanto e conclusivamente, l’infondatezza delle doglianze dedotte con il primo mezzo di impugnazione.
3. Venendo, quindi, al secondo motivo di impugnazione, il ricorrente articola le proprie censure secondo lo schema argomentativo di seguito riassunto. Secondo alcune pronunce della Corte Edu (quali, in particolare, le sentenze Grande Stevens c. Italia nn. 18640/10, 18647/10, 18663/10, 18668/10 e 18698/10, in data 4/03/2014 nonche’ Nykanen c. Finlandia, n. 11828/11 del 20/05/2014) in presenza di una “accusa in materia penale” (identificata, secondo la sentenza Engel e altri c. Paesi Bassi, 8 giugno 1976, § 82, serie A n. 22, alla stregua dei tre criteri della “qualificazione giuridica della misura in causa nel diritto nazionale”, della “natura” stessa di quest’ultima e della natura e del grado di severita’ della “sanzione”, da ritenersi alternativi e non cumulativi, salvo che l’analisi separata di ogni criterio non permetta di arrivare ad una conclusione chiara in merito alla sussistenza di una “accusa in materia penale” cfr. Jussila c. Finlandia (GC), n. 73053/01, §§ 30 e 31, CEDU 2006-8, e Zaicevs c. Lettonia, n. 65022/01, § 31, CEDU 2007-9), l’articolo 4 del Protocollo n. 7 allegato alla Convenzione Europea per la salvaguardia dei Diritti dell’Uomo e delle liberta’ fondamentali vieterebbe di perseguire (o giudicare) una persona per un secondo “illecito”, quando alla base di quest’ultimo vi siano sostanzialmente gli stessi fatti. Cio’ a condizione che sia stato avviato un nuovo procedimento e la precedente decisione di assoluzione o di condanna sia gia’ passata in giudicato. Tale situazione ricorrerebbe, in particolare, quando sia stata applicata una sanzione tributaria (come una sovrattassa), secondo quanto ribadito anche recentemente dalla Corte EDU con la sentenza Lucky Dev c. Svezia, n. 7356/10 del 27/11/2014.
Per tale motivo, anche nel caso oggetto del presente processo, essendo state irrogate, in relazione ai medesimi fatti e sulla base di provvedimenti dell’Agenzia delle Entrate divenuti definitivi, delle sanzioni tributarie, da considerarsi sostanzialmente penali, l’articolo 649 c.p.p., contenente il divieto di ne bis in idem, avrebbe dovuto determinare l’immediata conclusione del procedimento penale.
In proposito, argomenta ulteriormente il ricorrente, la richiesta in tal senso formulata dall’imputato, in quanto relativa ad una questione processuale (cfr. Corte costituzionale, sent. n. 102 in data 8/03/2016) e, dunque, deducibile in ogni tempo, non avrebbe potuto essere ritenuta, come invece opinato dalla Corte territoriale, come “tardivamente formulata”. Ne’ potrebbe sostenersi che essendosi proceduto alla rateizzazione della sanzione amministrativa irrogata, il debito tributario non possa essere ritenuto “definitivo”, divenendo tale, come sostenuto dai giudici di appello, soltanto con l’ultima tranche di pagamento. Infatti, l’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato, con sentenza del 20/08/2013, n. 20, avrebbe ritenuto che la rateizzazione del debito costituisca una novazione oggettiva, sicche’ il provvedimento di accoglimento dell’istanza di rateizzazione del debito tributario avrebbe natura estintiva dell’obbligazione originaria, tanto da renderlo, appunto, “definitivo”.
3.1. Il lineare percorso ricostruttivo sviluppato dal ricorrente entra nondimeno in conflitto con i meccanismi processuali previsti per l’eventuale attivazione dell’articolo 649 c.p.p..
Sotto un primo profilo deve osservarsi che, come correttamente posto in luce nel ricorso, la Corte EDU ha pronunciato condanne per la violazione del ne bis in idem in relazione al doppio binario penale-amministrativo previsto in materia tributaria. A partire dalla sentenza Zolotukhin c. Russia del 2009, i giudici di Strasburgo, al fine di valutare se le due sanzioni abbiano la stessa natura e se, quindi, sia configurabile una violazione del principio del ne bis in idem posto dall’articolo 4 del Protocollo n. 7 della Convenzione, ha abbandonato ogni riferimento al tipo legale, facendo invece riferimento, per verificare se ricorra una doppia punizione del medesimo fatto concreto, non tanto alla nozione di materia penale, quanto al concetto di medesimo fatto, che ricorrerebbe nel caso di identita’ materiale e naturalistica dello stesso (per questo orientamento, ormai consolidato, della Corte EDU v. sentenze Nikanen c. Finlandia del 20/05/2014; Lucky Dev c. Svezia; v. anche Hakka’ c. Finlandia, Glantz c. Finlandia, Pirttimaki c. Finlandia).
E tuttavia deve, altresi’, osservarsi che secondo la stessa giurisprudenza della Corte Europea dei diritti dell’uomo, il fatto di infliggere sia sanzioni tributarie che sanzioni penali non costituisce una violazione dell’articolo 4 del Protocollo n. 7 alla CEDU, qualora le sanzioni di cui trattasi riguardino persone, fisiche o giuridiche, giuridicamente distinte (v. § 51 della Corte EDU, 20 maggio 2014, Pirttimaki c. Finlandia). Ed allo stesso esito interpretativo deve, altresi’, pervenirsi con riguardo dell’articolo 50 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, a mente del quale “nessuno puo’ essere perseguito o condannato per un reato per il quale e’ gia’ stato assolto o condannato nell’Unione a seguito di una sentenza penale definitiva conformemente alla legge”. Anche, con riferimento a tale disposizione, infatti, la giurisprudenza della Corte di Strasburgo ha affermato che il divieto di bis in idem non puo’ ritenersi violato se la sanzione non sia stata applicata piu’ di una volta alla stessa persona e per uno stesso comportamento illecito (v., in tal senso, la sentenza del 26/02/2013, Rkerberg Fransson, C 617/10).
Orbene, nel caso di specie, dalle informazioni ricavabili dalla sentenza impugnata e dal ricorso per cassazione, unici atti del fascicolo accessibili alla Corte di legittimita’, parrebbe che le sanzioni tributarie siano state inflitte alle due societa’, dotate di personalita’ giuridica, di cui (OMISSIS) era legale rappresentante, ossia la (OMISSIS) S.r.l. e la (OMISSIS) S.r.l., laddove il presente procedimento penale riguarda lo stesso (OMISSIS), che e’, invece, una persona fisica. Ne consegue che nei due procedimenti in discussione, la sanzione tributaria ed il procedimento penale riguardano soggetti giuridici distinti, cosicche’ deve ritenersi mancante la condizione per l’applicazione del principio del ne bis in idem, onde la relativa censura formulata in sede di ricorso di palesa, gia’ sotto un primo aspetto, del tutto infondata.
3.2. Sotto altro profilo, non puo’ omettersi di rilevare che, come correttamente rilevato dal giudice di appello, il ricorrente non ha provveduto ad allegare al ricorso la prova della definitivita’ dell’accertamento tributario, il quale deve intendersi non nel senso di una qualunque estinzione dell’obbligazione tributaria, quanto nell’avvenuto pagamento sia della somma di cui era stato omesso il versamento all’Erario, sia della sanzione amministrativa irrogata dall’Amministrazione finanziaria (Sez. 3, n. 19334 del 11/02/2015, dep. 11/05/2015, Andreatta, Rv. 264809).
Ne consegue che proprio la mancanza di qualsiasi prova della definitivita’ dell’irrogazione della sanzione amministrativa preclude la possibilita’ di valutazione dell’invocata richiesta di applicazione del principio del ne bis in idem “convenzionale”, pur dovendosi riconoscere che, in subiecta materia, il tema sia indubbiamente rilevante, emergendo invero non irrilevanti dubbi di compatibilita’ con la normativa Eurounitaria (v. da ultimo, anche C. eur. dir. uomo, Quarta Sezione, sentenza 10 febbraio 2015, Kiiveri c. Finlandia), che l’illecito amministrativo di cui al citato articolo 13 e quello penale possano avere ad oggetto sostanzialmente il medesimo fatto, rendendo ingiustificata la duplicita’ di sanzioni in caso di ritenute che superino la soglia.
3.3. In ultimo deve escludersi la possibilita’ di sollevare d’ufficio la questione di legittimita’ costituzionale dell’articolo 649 c.p.p., formulata per violazione dell’articolo 117 Cost., comma 1 (in relazione all’articolo 4, Protocollo 7 CEDU), atteso che la mancanza di prova della definitivita’ dell’irrogazione della sanzione tributaria e la diversita’ dei soggetti giuridici destinatari della stessa e della eventuale sanzione penale, rendono del tutto priva di rilevanza la questione nel presente giudizio.
4. Infondato e’, altresi’, il terzo motivo, con il quale il ricorrente censura il mancato riconoscimento dell’attenuante di cui al Decreto Legislativo n. 74 del 2000, articolo 13, nonche’, in via consequenziale, le statuizioni di condanna alle pene accessorie, indicate al § 1 del “ritenuto in fatto”, le quali dovrebbero essere escluse proprio dalla ricorrenza della predetta attenuante, la quale implica che “non si applicano le pene accessorie indicate nell’articolo 12” (v. Decreto Legislativo n. 74 del 2000, articolo 13).
Quanto al primo aspetto, il ricorrente assume che dall’avvenuta rateizzazione, da parte delle societa’, del debito tributario deriverebbe la definitivita’ all’accertamento tributario; sicche’ ricorrerebbero tutti gli elementi atti ad integrare la predetta circostanza attenuante.
Sul punto giova nondimeno rilevare che la relativa questione e’ stata dedotta, per la prima volta, nel presente giudizio di legittimita’, sicche’ gia’ sotto tale aspetto il presente motivo di doglianza appare inammissibile.
Nel merito deve, in ogni caso, rilevarsi che ai sensi del Decreto Legislativo n. 74 del 2000, articolo 13, rubricato “Circostanza attenuante. Pagamento del debito tributario”, “le pene previste per i delitti di cui al presente decreto sono diminuite fino alla meta’ e non si applicano le pene accessorie indicate nell’articolo 12 se, prima della dichiarazione di apertura del dibattimento di primo grado, i debiti tributari relativi ai fatti costitutivi dei delitti medesimi sono stati estinti mediante pagamento, anche a seguito delle speciali procedure conciliative o di adesione all’accertamento previste dalle norme tributarie”. Dunque, affinche’ ricorra l’attenuante in questione, deve essersi proceduto alla effettiva estinzione dei debiti tributati relativi ad uno dei delitti di cui al predetto decreto; estinzione che deve essere attuata mediante l’integrale pagamento delle somme costituenti debito. Pertanto, quando, come nel caso di specie, si sia proceduto alla semplice rateizzazione del debito di imposta, l’attenuante speciale prevista dal Decreto Legislativo n. 74 del 2000, articolo 13, non e’, conseguentemente, applicabile, atteso che il riconoscimento del beneficio e’ subordinato all’integrale ed effettiva estinzione dell’obbligazione tributaria (Sez. 3, n. 37748 del 16/07/2014, dep. 15/09/2014, Di Febo, Rv. 260189).
Dall’infondatezza della predetta censura deriva, conseguentemente, che anche le ulteriori doglianze relative alle statuizioni di condanna alle pene accessorie devono essere rigettate.
5. Venendo, infine, al quarto motivo, sotto un primo aspetto vengono poste alcune questioni che attengono la materia delle circostanze.
5.1. Innanzitutto, si censura il mancato riconoscimento dell’attenuante di cui all’articolo 62 c.p., n. 1, che ricorre quando il colpevole abbia “agito per motivi di particolare valore morale o sociale”; condizione che ricorre, secondo la giurisprudenza di questa Corte, “nel caso di motivi avvertiti come tali dalla prevalente coscienza collettiva, ed intorno ai quali vi sia un generale consenso” (Sez. 1, n. 20312 del 29/04/2010, dep. 28/05/2010, Agostini e altri, Rv. 247459). E tuttavia, rileva il Collegio che la Corte territoriale ha comunque esplicitato le ragioni per le quali ha ritenuto di non ravvisare la sussistenza della circostanza in esame, e segnatamente che la circostanza che (OMISSIS) si sia “appropriato interamente del relativo tributo erariale per garantire la continuita’ aziendale”, peraltro senza avere fatto mostra di voler affrontare con altri mezzi la situazione crisi aziendale, quali l’immissione di risorse personali o la rinuncia ai propri compensi o crediti. E trattandosi di un apprezzamento di merito, peraltro adeguatamente motivato, deve certamente escludersene la censura in questa sede.
5.2. In seconda battuta, il ricorrente si duole della mancata prevalenza accordata alle attenuanti generiche sulla contestata recidiva. Sul punto, nondimeno, e’ appena il caso di rilevare che le statuizioni relative al giudizio di comparazione tra opposte circostanze, implicando una valutazione discrezionale tipica del giudizio di merito, sfuggono al sindacato di legittimita’ qualora non siano frutto di mero arbitrio o di ragionamento illogico e siano sorrette da sufficiente motivazione, tale dovendo ritenersi anche quella che per giustificare la soluzione dell’equivalenza si sia limitata a ritenerla la piu’ idonea a realizzare l’adeguatezza della pena irrogata in concreto (Sez. Un., n. 10713 del 25/02/2010, Contaldo, Rv. 245931). Nella specie, la Corte territoriale, al fine di giustificare il giudizio di equivalenza tra aggravanti e attenuanti, ha espressamente sottolineato come il riconoscimento delle attenuanti generiche fosse avvenuto, da parte del primo giudice, “con estrema benevolenza”, avuto riguardo ai “gravi precedenti penali” e alla “entita’ dell’imposta complessivamente evasa”; con cio’ pienamente assolvendo il predetto onere motivazionale.
5.3. Sotto altro aspetto, il ricorrente deduce che la pena base sia stata sproporzionata, cosi’ come l’entita’ dell’aumento operato a titolo di continuazione.
In proposito, tuttavia, anche a voler superare il dato della assoluta genericita’ della doglianza, giova sottolineare che i giudici di merito hanno comunque motivato le ragioni per le quali la pena inflitta all’imputato dovesse ritenersi “adeguata e congrua” alla stregua dei criteri dell’articolo 133 c.p., avuto riguardo al tempo (e, dunque, agli anni di imposta diversi), alle modalita’ dell’azione (realizzata nell’ambito di due diverse societa’), alla gravita’ del danno cagionato, all’intensita’ del dolo e dei motivi del delinquere. In questo modo, secondo il Collegio, la Corte territoriale si e’ conformata all’indirizzo interpretativo che riconduce le scelte in materia di commisurazione della pena all’apprezzamento discrezionale del giudice di merito, insindacabile in sede di legittimita’ ove adeguatamente motivato (v. Sez. 1, n. 3155 del 25/09/2013, dep. 23/01/2014, Waychey e altri, Rv. 258410, secondo cui “deve ritenersi adempiuto l’obbligo di motivazione del giudice di merito sulla determinazione in concreto della misura della pena, allorche’ siano indicati nella sentenza gli elementi ritenuti rilevanti o determinanti nell’ambito della complessiva dichiarata applicazione di tutti i criteri di cui all’articolo 133 c.p.”).
5.4. Quanto, poi, alla eccessivita’ dell’aumento disposto per la continuazione, deve ribadirsi come, secondo l’orientamento seguito da questa Corte in casi analoghi, in tema di determinazione della pena nel reato continuato la motivazione offerta a giustificazione dell’aumento disposto sia comunque da considerarsi adeguata ogni qual volta il giudice, approssimandosi al minimo edittale, si limiti “a richiamare criteri di adeguatezza, di equita’ e simili, nei quali sono impliciti gli elementi di cui all’articolo 133 c.p.” (cosi’ Sez. 4, n. 21294 del 20/03/2013, Serratore, Rv. 256197; negli stessi termini v. Sez. 2, n. 28852 in data 8/05/2013, Taurasi, Rv. 256464; Sez. 4, n. 46412 del 05/11/2015, Scaramozzino, Rv. 265283), rendendosi necessaria una specifica e dettagliata motivazione in ordine alla quantita’ di pena irrogata soltanto in caso l’irrogazione della pena in una misura prossima al massimo edittale (Sez. 4, Sentenza n. 27959 del 18/06/2013, Pasquali, Rv. 258356).
A tale orientamento si e’ certamente uniformata, nel caso di specie, la Corte territoriale, la quale ha definito la pena applicata come “adeguata e congrua al fatto complessivamente commesso e alla personalita’ dell’imputato”, mostrando conseguentemente di avere puntualmente apprezzato anche gli aumenti disposti, a partire dalla pena base, in relazione a ciascuna violazione.
6. Alla stregua delle considerazioni che precedono il ricorso deve essere, pertanto, rigettato, con condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.
Leave a Reply