cassazione 7

SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE

SEZIONE III

SENTENZA 26 gennaio 2015, n. 3384

 

Ritenuto in fatto

 
1. Vicenda processuale e provvedimento impugnato – L’accusa mossa al ricorrente è di avere concorso, con il fratello L. , nella detenzione di un quantitativo netto di 909,303 gr. di eroina rinvenuta in una cisterna presso l’abitazione dell’imputato dove i CC. si erano recati per una perquisizione dopo avere effettuato l’arresto di L. . Con la sentenza impugnata, la Corte d’appello ha confermato la condanna inflitta in primo grado alla pena di 4 anni di reclusione e 20.000 e di multa.
2. Motivi del ricorso – Avverso tale decisione, l’imputato ha proposto ricorso, tramite difensore, deducendo:
1) e 2) erronea applicazione della normativa penale in tema di concorso di persone e contraddittorietà della motivazione a proposito del rapporto di convivenza dei due fratelli.
Per sostenere i propri argomenti, la difesa opera un ampio excursus sul contesto familiare in cui è maturata la vicenda che sottosta alla imputazione e ricorda che è pacifico, per ammissione dello stesso L. , che quest’ultimo è tossicodipendente e che ha ammesso di avere anche svolto attività di spaccio. È, infatti, a seguito dell’arresto di quest’ultimo che gli investigatori hanno rivolto la propria attenzione anche nei confronti dell’odierno ricorrente, il fratello D. . Quest’ultimo, per parte sua, ha sempre spiegato che gli stava così a cuore la sorte del fratello L. da averlo convinto a frequentare il SERT, accompagnandovelo ed, infine, accettando di detenere la droga presso di sé per aiutarlo a “scalare”.
Egli aveva anche acconsentito a cedere al fratello L. uno spazio presso la propria abitazione dove il fratello poteva accedere e tenere alcuni effetti personali (tanto è vero che L. era in possesso delle chiavi di casa di D. ). In tal modo, L. , tradendo la fiducia del fratello, era riuscito a lasciavi un quantitativo ben maggiore di quello necessario alla semplice somministrazione “a scalare”.
È appunto su tale circostanza che il ricorrente registra una prima illogicità motivazionale nella sentenza della Corte territoriale. Per un verso, infatti, essa sostiene che L. conviveva con i genitori, in altro passaggio, però, riconosce ai fratelli lo status di coabitanti (precisamente nella parte in cui – f. 5. – parla di “abitazione occupata dai genitori” ovvero di “casa di mamma e papa”).
La critica mossa alla sentenza è di non aver approfondito i risvolti giuridici di tale stato di cose e precisamente della condizione di convivenza tra i fratelli. La corte territoriale, infatti, ignora quelle pronunzie che hanno escluso il concorso quando, in tema di detenzione di stupefacente l’agente abbia mantenuto un ruolo meramente passivo tollerando ed assistendo inerte alla condotta dell’altro. In altre parole, perché si abbia concorso, è richiesto un contributo partecipativo – morale e materiale – alla condotta altrui (sez. vi 14606/10; sez. iv U392/06; sez. vi, 9986/98). Di certo, poi, l’abitazione, se pure formalmente di proprietà dell’odierno imputato, era abitata anche dal fratello ben prima che esso divenisse, per scelta unilaterale di quest’ultimo, luogo di detenzione di sostanza stupefacente;
3) motivazione illogica ed assente su un aspetto decisivo. La critica si appunta, invero, sulla mancata considerazione del decisivo contributo offerto dal ricorrente all’arresto del fratello (rintracciato proprio grazie ad un vero e proprio “stratagemma” predisposto dallo stesso V.D. ). Oltretutto, la Corte erra, e la motivazione è manifestamente viziata, quando attribuisce significato accusatorio al rinvenimento nell'”abitazione di D. ” (quella occupata anche dai genitori) del bilancino e di ritagli di plastica, qualificando il tutto come strumentario da spaccio quando, per contro, è stato dimostrato che si trattava di normali utensili domestici;
4) e 5) errata interpretazione dell’art. 378 c.p. e motivazione mancante o illogica. Sostiene, infatti, il ricorrente che, sebbene sia innegabile la validità della decisione delle sezioni unite citata anche dalla corte d’appello (36258/12) in tema di discrimine tra favoreggiamento personale e concorso nel reato, la Corte incorre nella illogicità di sostenere, per un verso, che V.D. ha concorso nell’illecito “cessato solo a seguito dell’arresto del fratello L. ” e, dall’altro – ammettendo che l’illecito è “cessato con l’arresto di L. ” – non si avvede che il fatto di buttare la droga nella cisterna è da qualificare come post factum non punibile perché successivo al crimine.
Il ricorrente conclude invocando l’annullamento della sentenza impugnata. In data 18.10.14, il difensore ha fatto pervenire dei motivi aggiunti.
6) e 7) motivazione mancante illogica e contraddittoria circa l’asserita inconfigurabilità della fattispecie di cui all’art. 48 c.p. (errore sul fatto determinato dall’altrui inganno).
Il delitto ascritto al V. , infatti, deve ritenersi a lui non imputabile a causa dell’inganno perpetrato ai suoi danni dal fratello. A favore di tale ipotesi, militano l’indole ed i trascorsi dell’imputato, che è sempre stato ostile al mondo della droga, nonché il comportamento da lui tenuto nell’immediatezza dei fatti (quando ha dato un contributo decisivo per la cattura del fratello).
Per contro, la motivazione del giudice ruota tutta attorno a mere presunzioni che, comunque, evidenzierebbero, al massimo, una condotta colposa dell’imputato (non avere accertato meglio quanta droga contenesse il pacco).
Altra critica viene rivolta all’operato degli agenti che non hanno descritto con precisione dove si trovassero la droga e tutto quanto rinvenuto; in ogni caso, si rammenta che anche questa S.C. ha affermato (sez. vi 20796/10) che il semplice fatto di cercare di far scomparire la droga non è di per sé dimostrativo di un previo accordo con la persona convivente nella detenzione dello stupefacente “in assenza di altri indici significativi” che, però, qui non si rinvengono.
 

Considerato in diritto

 
3. Motivi della decisione – Il ricorso merita accoglimento per le ragioni di seguito precisate.
La circostanza che l’odierno ricorrente si fosse prodigato per aiutare il fratello L. a liberarsi dalla schiavitù della droga è data per ammessa anche dai giudici quando affermano che “comprensibile ed apprezzabile è risultato essere l’impegno dell’imputato in relazione ai problemi di tossicodipendenza del fratello”.
Non risulta, quindi, coerente la consequenziale affermazione della Corte territoriale secondo cui tale comportamento non eliderebbe “l’antigiuridicità della condotta per cui è causa” posto che, l’indiscutibile codetenzione della droga, da parte del V.D. , per integrare l’ipotesi criminosa, avrebbe dovuto essere supportata da un preciso elemento psichico del quale, però, i giudici non hanno dato conto in modo adeguato.
Per ammissione dello stesso ricorrente, è pacifico, solo il fatto in sé che egli diede al fratello la possibilità di custodire la droga presso il proprio appartamento (di cui il fratello L. aveva le chiavi). Il punctumdolens è, però, rappresentato dall’interrogativo circa la conoscenza, da parte del ricorrente, dell’attività di spaccio che V.L. aveva intrapreso di quella droga depositata presso la casa del fratello e, quindi, della condivisione, quantomeno a livello morale, da parte del ricorrente, di tale illecita attività.
Il discrimine è molto sottile ma significativo posto che, in un caso, si verserebbe in una mera attività (non punibile) di favoreggiamento nella detenzione per proprio uso personale, da parte di V.L. , dello stupefacente che veniva custodito in casa del ricorrente, mentre invece, nella ipotesi che V.D. fosse stato a conoscenza dell’uso illecito della droga posto in essere da L. , la sua condotta sarebbe sicuramente censurabile.
A tale riguardo deve osservarsi che è ben vero che questa Corte (sez. iv, 8.3.06, Buieci, rv. 233724) ha affermato che, in costanza di detenzione dello stupefacente, il reato di favoreggiamento non è configurabile perché, nei reati permanenti, qualunque agevolazione del colpevole, prima che la condotta di questi sia cessata, si risolve inevitabilmente in un concorso, quanto meno, a carattere morale, ma è anche certo che, nella specie, la condotta del ricorrente – per quanto accertato – si è sicuramente sostanziata solo nella messa a disposizione del proprio appartamento per la custodia di droga. La fattispecie, quindi, è ben diversa da quella presa in esame dalla sentenza prima citata (rv. 233724) ove, invece, si trattava di un caso concreto nel quale l’imputata, all’arrivo della polizia, aveva nascosto la droga detenuta in casa dal convivente, vale a dire, si era trattato di una condotta decisamente attiva (e, per come si dirà più avanti, non assimilabile alla presente neppure considerando il gesto di V.D. , di aver buttato la droga nella cisterna).
In tesi difensiva, la disponibilità offerta da V.D. al fratello dovrebbe essere giustificata con il fatto che la droga avrebbe dovuto essere solo utilizzata da L. per realizzare una sorta di “terapia a scalare”. Come accertato, però, lo stupefacente era stato sicuramente utilizzato da V.L. anche per finalità di cessione illecita a terzi.
Il punto è, però, che i giudici di merito nulla hanno detto a proposito della consapevolezza, da parte dell’imputato, di tale illecita attività e, quindi, della sua condivisione o – quantomeno – agevolazione cosciente limitandosi a valorizzare la mera detenzione.
Né ragioni di convincimento nel senso del concorso cosciente e volontario possono rinvenirsi dalla semplice condotta, del V.D. , del disfarsi della droga dopo l’arresto di L. . Si tratta, infatti, di comportamento dai contenuti altamente equivoci. Innanzitutto, esso è intervenuto quando ormai il fratello del ricorrente era già stato arrestato ed, a tale arresto, aveva contribuito fattivamente proprio il ricorrente V.D. (con condotta che non può essere sminuita – come fatto dai giudici – sol perché si è trattato “solo” di collaborazione con le forze dell’ordine e non di iniziativa spontanea dell’imputato).
Inoltre, risulta che quest’ultimo ebbe a disfarsi della droga (per così dire) “con calma”, vale a dire, non solo, dopo che L. era già stato arrestato, ma anche, dopo essersi recato ad un appuntamento di lavoro (v. deposizioni di V.P. , M.F. e Mi.Lu. ). Un tale modo di agire, perciò, lascia aperti grandi spazi al dubbio che la eliminazione della droga abbia rappresentato per il ricorrente solo una sorta di gesto di “chiusura” di una brutta storia culminata (nel giorno in cui essa è posta in essere) con l’arresto del proprio fratello.
Tenendo ciò presente, dunque, sembra più appropriato ricordare – come già affermato (sez. iv, 6.2.07, camera, Rv. 236195) – che il discrimine tra la condotta che costituisca concorso nel reato di illecita detenzione di stupefacenti e la condotta che invece dia luogo all’autonomo reato di favoreggiamento personale va rintracciato nell’elemento psicologico dell’agente. Esso deve essere valutato in concreto, per verificare se l’aiuto (che ponga in essere la condotta criminosa costitutiva del reato permanente) consapevolmente prestato ad altro soggetto, sia l’espressione di una partecipazione al reato oppure nasca solo dall’intenzione – manifestatesi attraverso individuabili modalità pratiche – di realizzare una facilitazione alla cessazione del reato. Nel caso concreto di cui alla decisione appena citata, questa Corte, sulla base dell’analisi delle contingenze di fatto così come emergenti dalla sentenza di merito, aveva ritenuto che entrambi gli imputati, (ancor prima che si concretizzasse il tentativo – da parte del preteso favoreggiatore – di lanciare la droga dalla finestra), avessero concorso per un lasso di tempo non insignificante a detenere consapevolmente la droga medesima.
Non risulta, però, che, nella fattispecie qui all’esame, i giudici di merito abbiano enucleato elementi fattuali specifici ed ulteriori (rispetto alla mera eliminazione della droga nelle circostanze sopra ricordate) tali da illuminare circa la codetenzione consapevole di V.D. per le finalità di cessione sicuramente poste in essere da V.L. .
Opportuno, a tal fine, è il richiamo, da parte del ricorrente, anche di quella pronuncia (sez. vi, 10.2.10, Hamou, rv. 247324) secondo cui, in tema di illecita detenzione di stupefacenti, la condotta consistita nel subitaneo tentativo di disfarsi della droga, all’atto dell’irruzione in una abitazione delle forze dell’ordine, non è di per sé dimostrativa, “in assenza di altri indici significativi”, di un previo accordo con la persona convivente nella detenzione dello stupefacente, ben potendo la stessa condotta essere interpretata come l’atteggiamento di chi, spontaneamente o su sollecitazione del detentore, si risolva ad aiutarlo a sottrarsi alla sua responsabilità penale.
È ben vero, come osservano i giudici di merito, che la buona fede dell’imputato avrebbe potuto emergere al di là di ogni ragionevole dubbio se, al momento dell’arresto del fratello, egli avesse informato le forze dell’ordine della esistenza, presso la propria abitazione, di un ulteriore quantitativo di droga, ma è anche vero che la fattispecie qui in considerazione – anche solo a volersi attenere alle dichiarazioni difensive – evidenzia una condotta “al limite”, vale a dire, quella di un soggetto che, non si era peritato di “esporsi” in modo decisamente “equivoco” come è, appunto, il fatto di mettere il proprio appartamento a disposizione del fratello tossicodipendente affinché questi potesse continuare a detenere droga per assumerla in dosi via via minori. Non deve, quindi, sorprendere l’assenza di un tale senso civico da denunciare la presenza di altra droga e, piuttosto, pensare bene solo di disfarsene.
A ben vedere, il ragionamento della Corte “prova troppo” perché si basa su principi assoluti ed avulsi da un contesto sicuramente ambiguo che lascia aperta la strada al “ragionevole dubbio”. Per tale motivo, perciò, non residua spazio neppure per l’ulteriore obiezione della Corte di inverosimiglianza della tesi di avere, il V. , deciso di consentire al fratello di tenere la droga presso di lui per non dare un dispiacere ai genitori. Dicono i giudici che essa sarebbe smentita dal fatto che, comunque, V.L. era risultato detenere droga di vario tipo anche sopra il comodino della stanza da lui occupata presso l’abitazione dei genitori. A ben vedere, infatti, quest’ultima è condotta sicuramente riferibile solo a V.L. la cui “lealtà” e “coerenza” sono stati più che ragionevolmente smentiti dalla emersione della presente vicenda di spaccio. Non sembra, quindi, che siffatto comportamento, solo di L. (di cui non vi è neppure prova che D. fosse a conoscenza) possa essere utilizzato come dimostrazione del concorso di D. nella detenzione a fini di spaccio della droga poi rinvenuta nella cisterna.
Ed il dubbio sulla esistenza di un valido elemento psichico, da parte del ricorrente, permane anche riflettendo sul fatto che esso non può certo essere desunto in via del tutto presuntiva da pretese cognizioni di D. (circa il peso della droga custodita nella sua abitazione) che egli avrebbe dovuto acquisire – non certo per una esperienza specifica nel settore dello spaccio (non va dimenticato che l’imputato è privo di censure di ogni tipo) – ma, semplicemente, grazie alla frequentazione del proprio fratello tossicodipendente e del SERT presso cui egli lo accompagnava.
Pur essendo logicamente innegabile che siffatto tipo di rapporto parentale potesse in qualche modo avere indotto nell’imputato cognizioni che sono patrimonio solo di specifiche conoscenze, è veramente eccessivo pretendere che, non solo, egli avesse acquisito competenze così profonde da cogliere a colpo d’occhio il peso della sostanza custodita nella sua casa ed il numero di dosi da essa ricavabili ma, soprattutto – anche a volerlo ammettere – sembra un volo pindarico inferire da ciò anche la cosciente e volontaria partecipazione all’attività di cessione che L. faceva della droga custodita presso l’appartamento dell’imputato.
Al tutto deve soggiungersi che se gli elementi appena commentati testimoniassero un cosciente e volontario concorso del V. all’illecita attività di spaccio del fratello L. , coerenza avrebbe voluto che, una volta arrestato il fratello, D. avesse continuato per proprio conto tale lucrosa ed illecita attività.
Di certo, invece, il fatto di buttare la droga e l’armamentario relativo (bilancino) in una cisterna dove parte della droga, al momento del rinvenimento, si era già disciolta, non appare essere attività idonea a preludere ad una prosecuzione di quell’attività di spaccio che qui si vuole ascrivere al ricorrente.
A ben vedere, quindi, gli unici elementi obiettivi a carico dell’imputato enucleati dai giudici di merito, si risolvono nella mera constatazione di fatto della detenzione della droga e di avere, egli, cercato di disfarsene.
Quanto alla prima, però, come detto fin qui, il ricorrente ha fornito una giustificazione che i giudici hanno ritenuto non credibile con argomenti che non sono risultati né logici né decisivi per dimostrare, oltre il ragionevole dubbio, che quella (ammessa e spiegata) detenzione della droga da parte di D. fosse, in realtà, una cosciente e volontaria codetenzione, con L. , per finalità di spaccio.
Né, come appena illustrato, tale elemento psichico emerge con certezza dal gesto di D. di disfarsi della droga (una volta analizzate le circostanze nelle quali esso è avvenuto).
Per altro verso, di certo, non sono decisive neppure le evocazioni giurisprudenziali del ricorrente circa il fatto che D. si sarebbe limitato a tollerare il fatto che il fratello spacciasse perché proprio quelle pronunzie citate (es. sez. vi n. 14606/10) sarebbero, per contro, idonee a giustificare la condanna del V. . Esse, infatti, sostengono che il discrimine tra la connivenza non punibile ed il concorso nel reato è dato dal fatto che, la prima, postula un comportamento meramente passivo ed inidoneo ad apportare alcun contributo alla realizzazione del reato mentre nel concorso di persone punibile è richiesto un contributo partecipe – morale o materiale – alla condotta criminosa altrui. Orbene, posta la questione in questi termini, è indubbio che, ove V.D. fosse stato conscio della destinazione illecita data dal fratello L. alla droga che egli gli consentiva di tenere presso la propria abitazione solo per una “terapia a scalare” e, ciò nonostante, avesse continuato a fargliela tenere, il contributo sarebbe stato palese e non solo morale visto anche che la “coabitazione” del fratello L. era solo parziale avendo già, egli, una originaria e sicura base presso la casa dei genitori. In pratica, cioè, qualora fosse dimostrato che D. era consapevole della destinazione allo spaccio data dal fratello L. alla droga che egli gli consentiva di tenere presso di sé, sarebbe sicuramente venuta meno la finalità “umanitaria” del fratello di aiutare il congiunto a disintossicarsi e la protrazione di quello status quo non avrebbe potuto atteggiarsi, da parte sua, come una mera condotta passiva (come auspicato dalla difesa).
Il punto è, però, come detto che la sentenza impugnata non ha adeguatamente spiegato da quali elementi fattuali si evinca, senza ombra di dubbio, che D. fosse a conoscenza dell’attività di spaccio posta in essere dal fratello L. con la droga che egli gli consentiva di custodire presso di sé al solo – asserito – fine di disintossicarsi.
La situazione analizzata è sicuramente ambigua e si presta a diverse interpretazioni; quella offerta nella specie dai giudici di merito per sostenere l’affermazione di responsabilità – e, soprattutto, l’elemento psichico del reato ipotizzato – non è, però, allo stato, coerente con la logica e richiede, quindi, una rivalutazione del caso previa restituzione degli atti alla Corte d’appello di Lecce (Sezione di Taranto) perché svolga un nuovo giudizio alla luce dei rilievi fin qui mossi.
 

P.Q.M.

 
Visti gli artt. 615 e ss. c.p.p., annulla la sentenza impugnata con rinvio alla Corte d’appello di Lecce (Sezione di Taranto).

 

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